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domenica 5 novembre 2023

PICARD - terza stagione: operazione nostalgia

Dopo una stimolante prima stagione, di cui avevo parlato qui, e una deludente seconda, di cui non avevo scritto e che mi aveva fatto dubitare di voler continuare, la terza stagione di Picard (Amazon Prime, Paramount+), che ha avuto Terry Matalas come showrunner, è stata un omaggio a Star Trek: The Next Generation. Sta bene che sia l’ultima: ha costruito un plot, quasi per gradini successivi ed incrementali identificabili, facilmente fruibili anche da chi non fosse stato fan della serie TNG (come me, che ne avevo seguito una stagione e sapevo chi era chi, ma non di più), ma indubbiamente ha voluto coccolare coloro che ne sentivano la mancanza. E se i personaggi sono orami vecchi e si notava, si è riusciti comunque a far brillare questi veterani in un’occasione che li ha visti tutti riuniti per un’ultima (presumibilmente) volta. E quando dico che tutti sono venuti a dare sostegno al loro vecchio capitano ora ammiraglio Jean-Luc Picard (Patrick Stewart) intendo proprio tutti (ad esclusione di Wesley, e Tasha ad essere rigorosi): William T. Riker (Jonathan Frakes), Beverly Crusher (Gates McFadden) Worf (Michael Dorn), Geordi La Forge (LeVar Burton), Data (Brent Spiner) e Deanna Troi (Marina Sirti).

SPOILER PER LA TERZA STAGIONE

Si inizia con un episodio dedicato alla memoria della prematuramente scomparsa Annie Wersching, interprete della Regina Borg nelle precedenti stagioni. Siamo del 2401. Manca poco al "Giorno della Frontiera", una celebrazione a cui intende partecipare l’intera Flotta Stellare. Beverly Crusher, ex-ufficiale medico dell’Enterprise che si trova a bordo della nave scientifica SS Eleos XII attaccata da alieni sconosciuti, si rivolge all’ammiraglio Picard con un messaggio criptato subspaziale per aiuto, chiedendo di non coinvolgere la flotta stellare e di non fidarsi di nessuno. Presto lui riesce a raggiungerla e insieme a Numero Uno e con un espediente, chiamiamolo così, riesce a portarla a bordo della USS Titan, guidata dal capitano Shaw (Todd Stashwick), dove lavora anche Sette di Nove (Jeri Ryan). Insieme a lei c’è anche il giovane Jack Crusher, interpretato dall’attore Ed Speleer, che non ci può dire non sia versatile otre che convincente, visti i ruoli moto diversi in cui lo abbiamo visto in precedenza (Downton Abbey, Outlander), che presto si scopre essere figlio biologico dell’ammiraglio. Gli alieni, che si scopriremo essere dei Cambianti, sono guidati da Vadic (l’apprezzata Amanda Plummer), capitana del vascello Shrike, e vogliono proprio lui. Nel corso delle puntate il loro obiettivo ultimo si fa più chiaro e Picard si trova ancora una volta a fare i conti con il suo passato con i Borg, che continuano ad essere una minaccia per tutta la Federazione. Per salvarla di deve riunire la vecchia squadra e tutti si dimostrano leali. A loro, si unisce ad un certo punto anche Raffaela "Raffi" Musiker (Michelle Hurd), che lavora per i servizi segreti e collabora con Worf.

La stagione fa numerosi riferimenti agli eventi legati all’Enterprise D, alcuni dei quali per me non erano chiari, ma non era rilevate per gustarsi le intricate, ma sensate vicende. A mano a mano che si procedeva si ricostituiva e coinvolgeva sempre più l’equipaggio di quella nave, con un ricercato effetto nostalgia, fino all’immagine finale del vecchio gruppo raccolto intorno a un tavolo a giocare a poker. Ormai avventure in cui devono salvare la galassia sono per loro nel passato e nei ricordi. Sono altri a prendere il testimone – in questa terza stagione compare anche Sidney La Forge (Ashlei Sharpe Chestnut), figlia di Geordi - e spetta alle nuove leve eventualmente affrontarle, e queste sono Sette di Nove, ora capitano della nuova USS Enterprise G, Jack Crusher e Raffi Musiker. Saranno loro i protagonisti dell’annunciata futura Star Trek: Legacy, con ogni probabilità. E se state pensando a nepo baby in salsa Trekkie, non andate molto distante, argomento che viene anche affrontato nel corso della diegesi. Quando contano i nomi? Molto, ci dicono.

Devo ammettere due mie verità. In questa incarnazione il franchise non mi ha mai convinto come nella serie originaria e ora in Strange New Worlds, seppur limitati da un punto di vista narrativo nell’adesione più stringente ad episodi autoconclusivi. In Picard ci sono invece archi orizzontali di ampio respiro che coprono l’intera stagione molto ben architettati. È che sono troppo guerreschi e poco scienziati per i miei gusti. E per qualche ragione i personaggi femminili, ad eccezione in questo caso di Sette di Nove, non riescono a piacermi. Raffi ad esempio, che mi piace in sé come personaggio e come attrice, non riesco a vederla in nessun modo come appartenente a questo universo, e da sempre sia Beverly che Deanna mi sono sembrate troppo “molli” e insipide. Forse non le ho seguite a sufficienza, e questo è il motivo per cui dico così, ma mi hanno sempre indisposta.  

Si dà l’addio alla serie senza rimpianti, ma che funziona a dovere come amorevole omaggio a un passato da molti considerato glorioso.

venerdì 14 febbraio 2020

MODERN LOVE: una serie asciutta e delicata

Ha il sapore di una raccolta di racconti Modern Love, la serie antologica che ha debuttato su Amazon lo scorso ottobre basata su una rubrica settimanale del New York Times (qui) diventata anche un podcast. A dispetto della bella sigla di apertura che zigzaga su romantici momenti di varie coppie, qui il senso dell’Amore Moderno suggerito dal titolo non è esclusivamente, anche se lo è prevalentemente, di tipo sentimental-relazionale.

Maggie (Cristin Milioti, A to Z), una critica newyorkese, frequenta molti uomini, ma a giudicare se sono adatti a no a lei c’è il portiere del complesso dove vive, Guzmin (Laurentiu Possa) – 1.01; una giornalista (Catherine Keener, Forever), raccontando la propria storia al suo intervistato, Joshua (Dev Patel, The Newsroom), gli fa rendere conto di non farsi sfuggire la donna che ama sul serio – 1.02; Lexi (Anne Hathaway, Il Diavolo veste Prada, Interstellar) sabota involontariamente ogni relazione e ogni posto di lavoro che ha, a causa del disturbo bipolare di cui soffre – 1.03; Sarah (Tina Fey, 30 Rock) e Dennis (John Slattery, Mad Men) sono una coppia con il matrimonio in crisi che cerca di ritrovare la connessione persa – 1.04 – in una puntata scritta e diretta da Sharon Horgan (Catastrophe); al loro primo appuntamento, Yasmine (Sofia Boutella) e Rob (John Gallagher Jr, The Newsroom) finiscono all’ospedale – 1.05; Maddy (Julia Garner, Maniac) vede nel suo capo al lavoro, Peter (Shea Whigham, Homecoming),  una figura paterna – 1.06 (qui la regia è di Emmy Rossum di Shameless); una coppia gay, Tobin (Andrew Scott) e Andy (Brandon Kyle Goodman),  intende adottare il bebè di una senzatetto incinta – 1.07 (questa storia era tratta da uno scritto di Dan Savage); Margot (Jane Alexander, Tell Me You Love Me) e Kenji (James Saito) sono coppia di anziani che si innamorano facendo jogging – 1.08.

L’ultima puntata ha una coda in cui tutti i personaggi delle puntate vengono ripresi, cosa che in sé mi ha fatto molto piacere, ma è apparsa un po’ posticcia, appiccicata. Più senso avrebbe avuto se nelle varie puntate ci fossero state comparse degli altri protagonisti, magari fugaci e tangenziali nel mostrare comunque un mondo variegato e interconnesso, ma così non è stato per cui mostrarlo così solo alla fine non è stata una scelta retorica troppo felice. Ma è la sola vera critica negativa che mi sento di rivolgere.

C’è molta delicatezza in queste storie per la gran parte scritte e dirette da John Carney, e molto realismo nel mostrare l’amore nella sua ineffabilità, e nelle sue difficoltà anche. Non sono commedie romantiche di facili sentimenti, e nemmeno si mostra un amore fatto di magici trasporti e perfezioni estatiche che, se ci sono, sono piuttosto attimi fuggevoli, ma è un’esplorazione onesta di un sentimento che porta anche delusione e amarezza, insicurezza e rimpianti. È spesso commovente, ma non sciropposo, né costruito a tavolino fuori dal nulla. Dal momento che si tratta di vignette autoconclusive, si gioca bene con il tempo, che passa veloce. La narrazione è asciutta. Elegante. 

sabato 2 marzo 2019

HOMECOMING: un teso thriller psicologico


ATTENZIONE SPOILER. In Homecoming, ideato da Eli Horowitz e Micah Bloomberg per Amazon Prime Video sulla base di un podcast dallo stesso nome, seguiamo due linee temporali diverse: nel presente Heidi Bergman (Julia Roberts) lavora come terapeuta in un centro governativo segreto di supporto alla transizione chiamato “Homecoming” il cui obiettivo sulla carta è quello di aiutare i soldati che sono stati in guerra a riabituarsi alla vita civile, ma che in realtà, sotto la direzione di Colin Belfast (Bobby Cannavale, Mr Robot), ha ben altri obiettivi, con risultati che sfuggono loro di mano, ovvero azzerare i ricordi dolorosi ai fini di re-inserire personale già qualificato in contesti conflittuali. Fra i casi seguiti più da vicino da Heidi c’è quello del giovane Walter Cruz (Stephan James). Nel tempo futuro, quattro anni dopo, Heidi lavora come cameriera in un locale e vive con la madre Ellen (Sissy Spacek) e non ha memoria del suo passato e degli esperimenti in cui è stata coinvolta nella struttura del Homecoming, gestita dal gruppo Geist. Un agente del Dipartimento della Difesa, Thomas Carrasco (Shea Whigham, Boardwalk Empire), indaga su che cosa sia accaduto in quegli anni e in che cosa consistesse quel progetto.   

La serie, che si avvantaggia molto nella su interezza della sensibilità registica di Sam Esmail (l’ideatore di  Mr Robot, di cui si sente l’eco stilistico), mantiene le due linee temporali distinte con un semplicissimo stratagemma: un diverso formato di ripresa, un rapporto d’aspetto 16:9 per il 2018, che restringe lo schermo quando ci porta nel 2022. Nel momento in cui Heidi finalmente ricorda, in “Protocollo” (1.08), sullo schermo assistiamo a una dilatazione del formato davanti ai nostri occhi, un aprirsi della memoria che viene reso fisico e visuale quanto è personale e cognitivo. Il tono costante è teso e c’è un sottotono di paranoia – a partire da “Ananas” (1.02) quando uno dei militari si lamenta del gusto dell’ananas, mettendo in dubbio di trovarsi in Florida, come secondo lui cercano di far loro credere – e cospirazione: la chiusura di stagione, anche con una inquietante fine post-titoli di coda, preme ulteriormente l’acceleratore. Non è forse un classico – ahimè forse con qualche fondamento – il sospetto che l’esercito tratti i propri sottoposti come cavie conducendo esperimenti su di loro a loro insaputa? C’è anche una banale tran tran e allo stesso tempo un costante senso di minaccia, un po’ alla Hichcock, nello svolgimento dell’intrigo. Molto è costruito su conversazioni e come ben sottolinea James Poniewozik, sul New York Times, tutto è “blando e minimalista” e si coglie bene come gli spazi anonimi, gli eufemismi e il depersonalizzato linguaggio aziendale possano essere più terrificanti di scene da paura.

Forte è il tema della memoria, non solo perché Heidi sembra aver cancellato il proprio passato, ma proprio perché con la memoria si ha a che fare, e con i ricordi dolorosi di chi ha vissuto scenari di guerra e con il disturbo post-traumatico da stress. I ricordi dolorosi, le esperienze penose non fanno parte di quell’importante bagaglio che ci rendono chi siamo? Ci sono interrogativi sui limiti etici dei propri esperimenti, anche lì dove sono eventualmente motivati da ragioni nobili, e proprio quelle ragioni sono qui messe in discussione, additando alla corruzione del sistema, un tema caro a Esmail. Il sovracitato Poniewozik osserva acutamente che parte di quello che Homecoming si domanda è quanto responsabile tu debba essere, quanto in alto in un’organizzazione, perché tu sia moralmente responsabile. L’impotenza anche di contrastare simili negligenze è incarnata da Thomas, che da un lato viene ripreso dai propri superiori perché indaga oltre quello che la prassi professionale gli richiederebbe, dall’altro viene sminuito e ridicolizzato da Colin che lo etichetta denigrandolo come un insignificante impiegato che, pur scoprendo la verità, non può fare nulla in proposito: ha ragione, è costretto ad ammettere Thomas. Che cosa serve a scardinare queste realtà tanto potenti quanto apparentemente invisibili?

Questo ipnotico thriller psicologico è stato rinnovato per una seconda stagione, sans Julia Roberts.