martedì 21 giugno 2011

AMERICAN DREAMS: famiglia, società e sogni degli anni '60


Spudoratamente, adoro American Dreams (Rai2, ore 9.45), andato in onda negli USA fra il 2002 e il 2005 per tre stagioni. Parla di una famiglia cattolica di Philadelphia, i Pryor, negli anni Sessanta – il pilot si chiude con l’assassinio di Kennedy. Papà Jack (Tom Verica), severo ma comprensivo, ha un suo negozio di radio e TV, dove lavora come aiutante (poi socio) l’afro-americano Henry (Jonathan Adams), che cerca per i suoi figli opportunità migliori di quelle che ha avuto lui e, rimasto vedovo, accoglie in casa anche un nipote, oltre a crescere due figli, fra cui Sam (Arlen Escarpeta), uno dei pochi neri a frequentare l’East Catholic come i figli dei Pryor. Mamma Helen è una casalinga che poi comincia a lavorare per un’agenzia viaggi.

JJ (il bel Will Estes) è il figlio maggiore, promessa del football che poi va a combattere in Vietnam come Marine, fidanzato con Beth (Rachel Boston). Meg (la deliziosa Brittany Snow, ora in Harry’s Law) è una liceale che adora la musica e riesce a convincere i genitori a farla partecipare ad “American Bandstand” una iconica trasmissione musicale realmente esistita in cui si esibivano i cantanti del momento. Uno dei punti di forza del telefilm è il passaggio continuo fra immagini di repertorio di quel varietà e ricostruzioni dello stesso con l’apparizione di stelle della musica attuale nel ruolo di quelle di un tempo. Fra i tanti artisti ospiti: Chris Isaac, Lil’Kim, Kelly Rowland, Alicia Keys, Macy Gray, Usher, Kelly Clarkson, Hilary Duff, Wyclef Jean, Stadie Orrico, LeAnn Rimes, Ashanti… Meg balla al Bandstand insieme alla sua amica del cuore Roxanne (Vanessa Lengies) con cui condivide i discorsi sulle cotte per i ragazzi. Patty (Sarah Ramos, ora in Parenthood) è la sorella più giovane, studiosa e saputella. Will è il piccolo di famiglia, un bimbo delle elementari reso invalido dalla poliomielite (che poi fanno curare) che ha come eroe il fratello maggiore. Una famiglia come tante, in un’epoca di transizione.

Il telefilm, ideato da Jonathan Prince, con cuore e leggerezza mostra le vicende personali, mischiate a quelle sociali (gli scontri razziali, la guerra in Vietnam, il voto…) e, anche se non sempre è accuratissimo nelle date (ad esempio le rivolte razziali del ’64 cominciarono di notte e non di giorno, come nello show, e gli spezzoni mostrati si riferiscono ad altre rivolte, avvenute a Los Angeles l’anno successivo), cerca di trasmettere al meglio lo spirito del tempo, fra nostalgia, celebrazione e analisi storica. Fa riflettere sul ruolo della cultura pop (la musica, la tv, il cinema) e dei nuovi soggetti che pretendono un ruolo nella storia (le donne, i neri, I ragazzi). I miei sogni non sono più abbastanza, commenta amareggiato il padre. Non è il sogno americano, sono i sogni americani in un’epoca in cui la stessa retorica del sogno è stata basilare (pensiamo a Martin Luther King).

L’azzeccatissima canzone “Generation” è stata premiata come miglior sigla televisiva del 2003 (sotto).


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