martedì 27 febbraio 2018

GOOD GILRS: tre anti-eroine dell'era del #MeToo


Dopo The Good Wife, The Good Fight, The Good Place e The Good Doctor arrivano le Good Girls, con una nuova serie targata NBC dalla penna di Jenna Bans (Grey’s Anatomy, Scandal) che mescola avventura e dramma familiare a humor nero.

Beth (Christina Hendricks, Mad Men) è una donna sposata con quattro figli che si rende conto che il marito Dean (Matthew Lillard) la tradisce e li sta mandando in rovina economica; sua sorella Annie (Mae Whitman, Parenthood), che lavora come cassiera in un supermercato dove il manager Boomer (David Hornsby) le fa delle avances non gradite,  ha un ex marito (Zach Gilford, Friday Night Lights) che intende ottenere la custodia esclusiva della figlia Sadie (Izzy Stannard), che è genderfluida; la loro amica Ruby (Retta, Parks and Recreation), sposata con un marito aspirante poliziotto (Reno Wilson), ha una figlia con seri problemi di reni, ma i medici non le prestano troppa attenzione perché non ha risorse finanziarie sufficienti per farla curare a dovere. Esasperate dalle proprie vite e in necessità di denaro, decidono di rapinare il negozio dove lavora Annie, puntando idealmente a una cifra di 30.000 dollari a testa, per risolvere così i loro problemi, lasciandosi poi ogni attività criminosa alle spalle. Il colpo va meglio dello sperato e si ritrovano con un mucchio di sodi, ma all’improvviso sono in un mare di guai, si verifica una complicazione dopo l’altra,  a partire da una banda di criminali professionisti, capitanati da Rio (Manny Montana), che usavano l’ipermercato per riciclare denaro sporco e che ora lo rivogliono indietro.

Le tre donne protagoniste, interpretate in modo superbo da tutte e tre le attrici, potenti nelle parti drammatiche quanto impeccabili nei momenti comici, sono anti-eroine dell’epoca del #MeToo. Degli abusi fisici e psicologici degli uomini ne hanno abbastanza – una scena per tutte nel pilot vede Beth difendere Annie da un tentato stupro in un momento che incapsula la costante minaccia della vita di Annie e fa esplodere tutta la rabbia di quella di Beth e le unisce in una “sorellanza” che non è solo biologica, ma spirituale. Sono tutte e tre mamme, in senso vero e in senso forte, orgogliose e contemporaneamente vincolate al proprio ruolo il cui ideale finiscono per sovvertire. Qui la loro esasperazione prima e il panico per conseguenze che non hanno anticipato fino in fondo poi, uniti alla scarsa considerazione sociale, scatenano il comportamento criminale, un po’ alla Breaking Bad e alla Weeds. Non si approverà il loro comportamento, ma non si può non simpatizzare per loro.  
 
Ambientata nei sobborghi di Detroit, la serie altalena fra momenti thriller e momenti comici, in un equilibrio delicato su cui per il momento riesce a mantenersi, ma con indecisioni, e non è chiaro per quanto riuscirà a sostenerlo. Quanto buona sarà la narrazione lo si capirà da quanto si riusciranno ad approfondire i personaggi, nella misura in cui intenzioni buone, azioni meno nobili e risultati terribili riusciranno a rivelare le protagoniste a se stesse e a noi. Il ritmo è buono però e con una recitazione di tale livello eventuali lacune di sceneggiatura vengono superate senza batter ciglio. 

giovedì 22 febbraio 2018

THE YOUNG POPE: onirico e destabilizzante


È vagamente onirico e fortemente destabilizzante The Young Pope, la serie scritta e diretta da Paolo Sorrentino (una co-produzione internazionale in Italia andata in onda su Sky Atlantic nel 2016).

Lenny Belardo (Jude Law) è il primo americano eletto al soglio pontificio con il nome di Pio XIII: è giovane, bello, prestante, apparentemente mite, ma megalomane; e non crede in Dio, pur pregandolo con un tono che è più di pretesa che altro. Lo hanno scelto conoscendolo poco, pensando di poterlo facilmente manipolare, e lui invece si rivela presto un ultraconservatore dittatoriale, che rifugge da qualunque attenzione pubblica (non vuole farsi fotografare né vedere), adotta una linea intransigente e viene percepito come una via di mezzo fra un pazzo esaltato e un santo. Suo mentore è il cardinale Michael Spencer (un James Cromwell che, come sempre, è in grado di incutere terrore come pochi), un religioso che aspirava lui stesso al ruolo di capo delle chiesa cattolica e che è adirato di non esserlo. A consigliare Lenny, e a istruirlo sui meccanismi dello Stato Vaticano c’è il potente cardinale Angelo Voiello (un convincente Silvio Orlando, che è gustoso sentire recitare in inglese), Segretario di Stato della Santa Sede. Non gli sfuggono le finezze diplomatiche per ottenere ciò che vuole, ma si rivela presto anche molto umano. Dopo un iniziale scontro di venute, Sofia Dubois (Cécile de France), responsabile del marketing e della comunicazione, riesce a cogliere lo spirito del neopapa. Ad ascoltarne le confessioni è don Tommaso (Marcello Romolo), mentre a monsignor Bernardo Gutierrez (Javier Cámara) viene affidato il compito di indagare sui casi di pedofilia.

Lenny, abbandonato in orfanatrofio da piccolo e cresciuto dalle suore, viene accompagnato nel suo nuovo ruolo dalla religiosa che da bimbo ha finito per diventare per lui una figura materna, suor Mary (Diane Keaton, nell’unico ruolo femminile davvero corposo della serie), e presto chiama a sé come prefetto per la Congregazione per il Clero anche il suo più caro amico d’infanzia, il cardinal Dussolier (Scott Shepherd). Pio XIII si interessa della sorte di Esther (Ludvine Sagnier)  moglie di una guardia svizzera, che agogna di diventare madre nonostante sia sterile. 

La serie, che si muove per evanescenti suggestioni, è spiazzante fin dall’esordio: dal pilot si esce con un’idea di papa che poi è diversa per come si costruisce nelle puntate successive, facendo fare al pubblico lo stesso percorso dei cardinali, ovvero lasciando l’impressione di aver riposto la propria fiducia sulla base di una prima impressione che si dimostra in seguito erronea. Si indaga innanzitutto la figura di un uomo potente, al vertice di una macchina che pende dalle sue labbra e che è a lui completamente sottomessa, e dell’esaltazione e dei rischi che questo genere di ruolo può provocare. Non ci si tira indietro intimoriti dai vizi di uomini (e donne) e dai peccati della chiesa, alcuni tali per le regole che la chiesa si autoimpone: menzogne, abuso di sostanze, relazioni sessuali di ogni genere e tipo, arroganza, violenze…

La solitudine è un elemento catalizzatore di molta della realtà dello schermo. Lenny è ossessionato dal fatto di essere stato abbandonato dai propri genitori, e il fatto di essere inarrivabile come pontefice amplifica questa sensazione. Gli altri personaggi (Voiello, Mary e Dussolier in particolare) pure riflettono molto sulle proprie scelte e quello che comporta in termini di rapporti umani. L’amore è anche un tema forte.

Il confine fra potere, macchinazioni politiche e ideali è sempre presente, così come la riflessione su quali valori la società attuale sia disposta ad accettare e che cosa susciti interesse, ed eliciti mistero e devozione. Speculazioni filosofiche impregnano tutto il tessuto narrativo ed è anche illuminante osservare la modalità in cui certe discussioni vengono portate avanti. Quando verso la fine della stagione Lenny e il cardinale Spencer trattano il tema dell’aborto, il loro ping-ping verbale è fatto di citazioni alle scritture e alla tradizione: le donne e le loro vite sono irrilevanti, inascoltate. 

La regia è un tutt’uno con la sceneggiatura, ne compartecipa lo spirito  - e se il primo ruolo è sempre e solo di Sorrentino, il secondo lo condivide con altri autori – con il personaggio principale molto spesso inquadrato solo dalla vita in su, a dare l’impressione che si innalzi e troneggi (con una tecnica che pare sia stata ereditata da Spike Lee).

La sigla vede il protagonista incedere diretto con sullo sfondo una serie di quadri della traduzione cattolica -  qui quali sono -  che “si animano” al passaggio della stella cometa che li attraversa. Si chiude con Pio XIII che si gira verso la telecamera facendo un occhiolino e, mentre lui esce di scena, quella “stella cadente” diventa un meteorite che colpisce una statua di Giovanni Paolo II (citazione di un’opera di Cattelan che questo mostra). È a un tempo simbolica (una camminata attraverso secoli di storia della chiesa) e irriverente.
 
Inevitabile, in un certo qual modo, la conclusione. È prevista una seconda stagione.  

lunedì 12 febbraio 2018

THE DEUCE: una serie sociologica sulla nascita dei porno


Ha un taglio che potremmo definire sociologico The Deuce, la nuova serie firmata da David Simon, già celebrato autore di quella che è considerata una delle opere più riuscite nella storia del piccolo schermo, The Wire, e George Pelecanos che con Simon ha collaborato sia a The Wire che a Treme. Qui siamo negli anni ’70, a New York, intorno a Times Squadre  -  il titolo è il nomignolo dato alla 42esima strada, fra la sesta e la ottava avenue – e si guarda alla prostituzione e allo sviluppo dell’industria pornografica in quagli anni – indicativamente il sottotitolo italiano è diventato “La via del porno” – e le connessioni con la vita notturna, la mala, l’attività della polizia, l’indifferenza o la connivenza e la corruzione delle istituzioni… Secondo la più classica cifra estetica di Simon ci sono molti personaggi, spesso nemmeno collegati fra loro, e solo alcuni, specie inizialmente, ricevono sufficiente attenzione da costruire una connessione autentica con lo spettatore, la trama è in apparenza quasi assente, ma un luogo e un mondo emergono con vigore attraverso l’accostamento e la sovrapposizione di molti elementi minuti, quotidiani, prima facie banali.
     
I fili delle vite di molte persone si intrecciano in trame e orditi che tessono un quadro via via più dettagliato: Vincent e Frankie Marino (James Franco), due fratelli gemelli, il primo abile gestore di un bar, il secondo un perdigiorno giocatore d’azzardo pieno di debiti con le persone sbagliate, vengono assoldati dal boss mafioso locale, Rudy Pipilo (Michael Rispoli) che propone loro di espandersi aprendo anche locali di massaggi, in realtà case chiuse, alla cui gestione di offre il cognato di Vincent, Bobby (Chris Bauer), con un passato di costruttore edile. Vincent, che è sposato con due figli, ma è di fatto separato dalla moglie, frequenta occasionalmente Abigail ‘Abby’ Parker (Margarita Levieva), che lascia gli studi universitari per lavorare da lui al bar, insieme anche a Paul Hendrickson (Chris Coy), giovane gay che aspira ad aprire un locale tutto suo per una clientela LGBT. Per la strada, Eileen ‘Candy’ Merrell (Maggie Gyllenhaal, The Honorable Woman, che è anche produttrice esecutiva), con un figlio cresciuto dalla madre che va a trovare di tanto in tanto, lavora per contro proprio e vede nell’emergente industria della pornografia una via di uscita a una professione che troppo facilmente la lascia piena di lividi. Comincia ad affiancare il regista Harvey Wasserman (David Krumholtz), che la prende in simpatia e la introduce progressivamente negli ingranaggi della produzione. La gran parte delle sue colleghe si affida a protettori più o meno brutali: C.C. (Gary Carr), che ha come sua prostituta fissa Ashley (Jamie Neumann), sempre meno interessata a lavorare, e recluta presto Lori (Emily Meade), una neoarrivata che proviene dal Minnesota; Larry Brown (Gbenga Akinnagbe), che ha nella sua scuderia Loretta, Barbara e Darlene (Dominique Fishback), che al paese dove viveva dice di aver sfondato come modella e che passa tutto il tempo libero a leggere e ha fra i suoi clienti un anziano che la paga per guardare vecchi film con lui; Rodney (Method Man); Reggie (Taruq Trotter)… La giornalista Sandra Washington (Natalie Paul) vorrebbe fare un pezzo sulla fitta rete che tiene in equilibrio il sistema, e per questo chiede l’aiuto dell’agente Chris Alston (Lawrence Gilliard jr) che è però più interessato ad avere una storia con lei che ad essere la sua fonte.

“Il santo vero mai non tradir”, per usare una citazione manzoniana, è la vocazione essenziale di Simon, e le rimane fedele anche in questo contesto. Il suo passato di reporter per il Baltimore Sun perspira in un approccio che punta quasi a dare apparentemente solo una registrazione dei fatti. La scrittura, sismografo di un eterno presente, è quasi trasparente, nasconde i propri artifici narrativi. Realizzato con la finezza di cui è capace, ha una forza sbalorditiva e penetrante. Uno dei rari momenti in cui questo non è riuscito è stato per me nell’episodio “My name is Ruby” (1.08) e questo perché, nel momento in cui si vede Candy salutare Ruby “Cosce Tuonanti” (Pernell Walker) da distante dall’interno di un taxi, senza essere sentita, si capisce troppo in anticipo quale sarà la sorte di quella passeggiatrice. L’evento finale è troppo telefonato. Quella vicenda però ha altri pregi. Non di meno, infatti, il personaggio di Ruby è mirabile sotto molti aspetti – per quello che dice del corpo femminile, del desiderio, della sessualità e dell’identità – e la sua fine mette il dito sull’indifferenza, come testimonia una successiva scena fra Vincent ed Abby che la riguarda, e sulla sopravvivenza.

Si evita qualunque sensazionalismo, e il tema pruriginoso non è mai utilizzato per titillare, ma piuttosto per indagare le narrative su sesso, potere, violenza, e su come si integrano. Il sesso è una delle merci della macchina economica. Richard Price, produttore esecutivo, la descrive come una serie storica il cui senso è quello di capire come quella realtà si sia metastatizzata e che cosa ci dica sul presente. Se essere lì da giovani a quell’epoca era come cercare di comprendere l’oceano guardandone la superficie standosene sulla spiaggia, quello che viene messo sullo schermo è l’equivalente di indossare una maschera da sub. E se da ventenne “non hai un cervello, hai un organo”, nella sua esperienza, ora “Vai giù fino alle placche tettoniche, l’economia, le interazioni. Pensi alla roba sessuale come a un business. Per cui guardando a un peep show, dove va a finire quel quarto di dollaro se lo segui? Lì c’è una ragazza, e sei intimidito ed eccitato. Ma chi è quella ragazza, dove va, che cosa trova a casa?” (Newsweek)
    
Nell’epoca dei Trump e degli Weinstein, la serie dà un’opportunità di riflettere sulla misoginia e lo sfruttamento, e sul rapporto anche fra il potere e la consapevolezza. Chi ha la seconda non necessariamente ha la prima, e non è in grado di operare i cambiamenti che vorrebbe solo sulla base di quella coscienza: lo si vede nella giornalista Sandra, il cui exposé sulla corruzione del sistema, è sgonfiato di valore nel momento in cui non può pubblicarlo come vorrebbe, lo si vede in Candy e nel rapporto con la pornografia, al contempo degradante ed empowering, in Darlene… E si portano alla luce i determinanti del potere, con scelte e compromessi.

La visione è artisticamente riuscita, anche perché è epidermicamente sgradevole nel trasmettere il senso di squallore e sudiciume, di violenza espressa o incombente, ma non per questo rinuncia ad andare al cuore dell’umanità dei personaggi, e riesce a dissezionare oggettificazione e mercificazione del corpo femminile senza diventare a sua volta oggettificante e mercificante, evitando quello che gli autori chiamano il “tableaux pornografico” (Fresh Air). Quello che si vede è triste e illuminante ma, a dispetto del sesso, di certo non è sexy. 

sabato 3 febbraio 2018

OUTLANDER: la terza stagione


In mezzo a una distesa di cadaveri giace il corpo agonizzante di Jamie (Sam Heughan), un altro corpo sopra di lui; il suo volto è mostrato in primissimo piano, cala la notte, scende la neve. Rivive in flashback i momenti della battaglia di Culloden che si è appena consumata, e in questa modalità scopriamo i momenti più intensi e vediamo lo scontro con il nemico di sempre: ci è rivelato ora così che il corpo sopra di lui è quello del capitano Jack Randall (Tobias Menzies). Appare un coniglio, l'immagine della donna amata... così inizia la terza stagione di Outlander, andata in onda in Italia a breve distanza dagli Stati Uniti, fra il settembre e il dicembre del 2017, appassionante, dopo la deludente seconda. Jamie vorrebbe morire, ma la sorte vuole diversamente.

Le vite dei due amanti protagonisti hanno ormai percorsi diversi. A Boston, anno 1948, Claire (Caitriona Balfe) è incinta, inizia una vita domestica con il ritrovato marito Frank (Tobias Menzies), subisce  i commenti maschilisti del capo di lui, per cui deve sforzarsi di mantenere l'autocontrollo, e quando lei deve partorire parlano con il marito e non con lei: sobrio ritratto di un’epoca che in questi aspetti non ci siamo lasciati alle spalle mai troppo in fretta. Anche se sono separati, lo spettatore non percepisce Jamie e Claire comunque come due realtà staccate perché si pensano, si amano al di là de tempo e dello spazio e questo trasmette una forte sensazione di unità.

“All Debts Paid – Io che sono prigioniero tuo” (3.03) è stata una puntata particolarmente riuscita. Vengono mostrate infatti in parallelo le vicende dei due. Di Claire, nel ventesimo secolo, si mostra un’intera vita con fugaci incursioni in momenti topici, come la sua laurea (in medicina – nella puntata precedente l’avevamo vista iscriversi all’università), i 16 anni di Brianna (Sophie Skelton), o ancora il diploma della figlia, la morte per incidente di Frank che le aveva appena chiesto il divorzio, intenzionato a tornare in Inghilterra… Di Jamie si guarda alla permanenza nella prigione di Ardsumuir, dove rivediamo in vita Murtagh (Duncan Lacroix) e dove approfondisce la conoscenza del giovane a capo della prigione, John William Grey (David Berry), a cui da ragazzino aveva risparmiato la vita e che si sente in debito d’onore con lui. In incontri successivi, il loro rapporto si fa di reciproco rispetto, quasi di amicizia e si fanno delle confidenze. Jamie  racconta di Claire, Grey rivela la sua omosessualità raccontando del lutto in battaglia di un uomo per lui speciale, qualcosa che deve tenere nascosto per vergogna. In un momento assolutamente perfetto, Grey appoggia la sua mano su quella di Jamie e la reazione verbale di quest’ultimo è molto forte: minaccia di ucciderlo se solo lo rifà. La scena è davvero impeccabile e quello che la rende tanto riuscita è che ha un senso doloroso molto forte per entrambi: per Grey è l’ennesimo scontro con la realtà che deve tenere nascosto il suo orientamento sessuale, per Jamie sappiamo che la reazione non è di omofobia, come Grey l’ha letta, ma è di reazione allo stupro subito dal comandante Randall. Questa è una di quelle situazioni in cui è solo la visione pregressa che riesce a dare profondità alle emozioni in gioco in quel momento. Nell’episodio successivo, “Of Lost Things – Delle cose perdute” (3.04), vediamo come fra Jamie e Grey si sia creata davvero una solida amicizia e le circostanze sono tali per cui quest’ultimo declina l’offerta di Jamie che questa volta, di sua iniziativa, gli offre il suo corpo.

Dopo Claire, è stato il turno di Jamie di mostrarsi in tappe essenziali della propria vita, con la nascita di un figlio. Ricattato a fare sesso dall’ereditiera Geneva (Hannah James), sposata con un nobiluomo, la mette incinta e lei lascia credere che il figlio sia del marito. Jamie però ha comunque la possibilità di stargli vicino nei primi anni della sua crescita.

Osserva bene il podcast di Pop Culture Happy Hour (qui) quando dice che una rarità sul piccolo schermo, che è frequente nella vita e che viene messo in scena in questa serie, è il fatto che l'avere un grande amore che per qualche ragione non si può soddisfare in uno specifico momento non preclude ai protagonisti di fare del sesso appagante con altre persone. Questo è stato evidente nella 3.04.  Pur essendo di fatto stato ricattato a copulare con lei, Jamie alla fine comprende le ragioni della giovane donna, e cerca con lei di essere molto tenero, rendendole la prima volta la migliore possibile.  La scena di sesso, che ha la regia di Brendan Maher, è stata veramente spettacolosa, e anche originale. Spesso, questo genere di  momenti non hanno inquadrature o mosse che in qualche modo meraviglino.  Qui si è riusciti a sorprendere, risultando delicati e spinti allo stesso momento, come quando Jamie le ha succhiato il capezzolo e leccato il seno. Davvero audace senza essere volgare.

Lo stesso si può dire della scena, o meglio le scene, dell’atteso re-incontro fra Jamie e Claire in “A. Malcolm” (3.06), con la regia di Norma Bailey. Il momento in cui si spogliano l’un l’altra sembra durare in eterno, ed è perfetto. Quando finalmente i due protagonisti si danno l’uno all’altra, in una stanza sopra a un bordello di tutti i luoghi, non lo fanno una volta sola, ma due e poi tre. Non è un mero segno che sono di nuovo insieme fisicamente (spiritualmente sono sempre stati connessi), ma è proprio il lento ri-appropriarsi l’uno del’altra e godere l’uno dell’altra; al di là dell’atto, è esplorazione di intimità. Questo è raro in TV al di fuori delle soap opera del daytime. La forza della serie sta proprio anche nel non vergognarsi della propria natura romantico-sentimentale, pur essendo anche parecchio altro.   

In quell’episodio ci si  godono anche gli anacronismi che Jamie incontra per mano di Claire (le fotografie, la zip, la menzione di una bicicletta), peccato per quella fine di una minaccia di stupro, l’ennesima che si poteva trattenere fino all’episodio successivo, almeno. Non credo che nessuno del pubblico, dopo quella puntata, continui a vedere solo perché teme della sorte dell’eroina in pericolo. Non ci si dimentica mai peraltro quanto qui i costumi siano ricercati – curati nella serie dalla moglie dell’ideatore Ronald D. Moore che, come è noto, ha sviluppato la serie su soggetto di Diana Gabaldon che ne ha scritto i libri.

La stagione, divisa idealmente in due parti (dalla 3.09 si cambia la sigla), si chiude dopo un lungo viaggio verso la Giamaica, insieme anche a Fergus (César Domboy) e Marsali (Lauren Lyle), con numerose avventurose vicende che vedono anche il ritorno del personaggio di Geillis Duncan (Lotte Veerbeck), fino al naufragio finale. Appagante.

venerdì 26 gennaio 2018

DEAR WHITE PEOPLE: una serie arrabbiata e militante


È una serie arrabbiata e con toni satirici Dear White People (Netflix), basata su un film di Justin Simien dallo stesso titolo e ambientata in un immaginario college della Ivy League, la Winchester University. Segue un gruppo di studenti neri in un contesto istituzionale prevalentemente bianco, con le conseguenti questioni di ineguaglianze sociali. Parla di integrazione e (auto)segregazione, di tensioni razziali e politiche identitarie e sociali, di assimilazione e di appropriazioni culturali, di pregiudizi e di ipocrisie, di diritti e di entitlement, di cultura e di proteste, di privilegio bianco, di potere, dell’essere inermi e del fare la differenza, con anche in primo piano quello che Coates chiama la distruzione del corpo nero, a cui sono (nei fatti, se non sulla carta) autorizzate le forze di polizia.

Ogni puntata si concentra su un personaggio diverso, ma come protagonista spicca la studentessa Samantha White (Logan Browning) che conduce un programma radiofonico studentesco che porta il titolo della serie stessa (Carissimi Bianchi, in italiano). Le stoccate della sua lingua affilata non risparmiano nessuno. Frequenta Gabe (John Patrick Amedori), un bianco, e questo la mette in una posizione delicata, tanto più che suscita le gelosie di Reggie Green (Marque Richardson), innamorato di lei, e a sua volta oggetto dell’interesse di Joelle (ashley Blaine Featherson), che non si fa illusioni sulla situazione. All’esordio delle vicende motivo di scontento e di contrasto è il Pastiche, un giornale satirico scritto da ragazzi bianchi che organizza una festa blackface (il tipo di trucco teatrale usato dai non-neri per rappresentare i neri), giudicata prontamente razzista. Presto le unioni studentesche nere, e  l’intera scuola, si ritrovano a discutere animatamente della questione anche per capire come risolvere l’incidente. Uno di questi gruppi è guidato da Troy Fairbanks (Brandon P. Bell), figlio del rettore, oppresso dal padre che lo vuole far diventare una figura politica di spicco contro i suoi desideri. Ha una ragazza, Colandrea “Coco” Conners (Antoinette Robertson), molto ambiziosa, che ha programmi molto precisi – ha già deciso il nome dei figli che avranno, ad esempio - per il loro futuro come power couple - punta alla casa Bianca. Per Troy ha una cotta segreta il suo compagno di stanza, il timido, ma risoluto Lionel Higgins (DeRon Horton), che scrive per il giornale scolastico, The Winchester Indipendent.

Se le 10 puntate della prima stagione debuttano con una rivolta sdegnata contro una festa razzista, con il progredire delle puntate il dibattito si fa più rovente e dolente affrontando l’attualissima problematica delle violenze della polizia nei confronti di neri innocenti presi di mira solo perché tali. Black-ish (in “Hope”, 2.16) aveva parlato della questione in una memorabile puntata; qui la si mette in scena coinvolgendo proprio uno dei protagonisti. Durante una festa al campus (1.05), un ragazzo bianco usa un epiteto razzista nel ripetere le parole di una canzone. Alla richiesta di non farlo, seguono spintoni, scoppia una rissa e la polizia interviene. Contro Reggie, innocente, la guardia di sicurezza del campus punta la pistola, che non abbassa finché non vede il tesserino identificativo che lo qualifica come studente. Tutti sono ragionevolmente sconvolti dall’evento,  che è sezionato da un punto di vista sociale e politico e razziale, e da un punto di vista umano, psicologico e personale  - Reggie, uno degli studenti più bravi, si isola e in una serata a microfono aperto in un locale, si esibisce in uno slam di poesia intitolato “una pallottola”.

In una locandina, la serie ritrae Sam con un megafono. È un riferimento all’ultima puntata della stagione in cui viene organizzata una protesta, ma è un simbolo di quello che i protagonisti (e la narrazione) cercano di fare: far sentire la propria voce più forte, amplificare perché venga notato il dolore (un tema forte e ripetuto) che li fa scendere in strada, invitare a essere svegli, consapevoli. Perché il passo fra l’affermazione razzista apparentemente innocua e la brutalità non è poi così lungo.

Se c’è predica, è infarcita di umanità e umorismo, non è pedante. C’è una quasi irreale iper-consapevolezza da parte dei personaggi delle sottostanti dinamiche filosofico-politico-culturali, con scoppiettanti dotti riferimenti, anche ermetici (almeno per me, bianca, forse troppo ignorante di cultura nera), me se lo si accetta da Aaron Sorkin o Kevin Williamson non si vede perché non lo si possa fare qui. Molti personaggi si prendono un po’ nelle frange del narrazione – ma non il delizioso cane (bianco) Sorbet (o Sorbetto, in italiano), devo dire, sulla cui sorte si rimane in ansia alla fine, pur con una punta di umorismo – ma quella che rimane distintiva è la voce autoriale che spinge a una maggiore consapevolezza. Si tratta di una voce che si riascolterà con piacere nella confermata seconda stagione, e che molti bianchi, come del resto io stessa, penso abbiano probabilmente la necessità di sentire.     

venerdì 19 gennaio 2018

EPISODES: la quinta e ultima stagione


La quinta e ultima stagione di Episodes esordisce con Matt (Matt LeBlanc) che, pur agognando di recitare ancora, è bloccato a condurre un orribile gioco, The Box,  in cui i concorrenti sono confinati in un cubicolo di vetro e subiscono punizioni di vario tipo. Parallelamente Beverly (Tamsin Greig) e Sean  (Stephen Mangan) sono loro stessi bloccati nel loro inferno personale, a dover collaborare con un capo sceneggiatore inetto che li tiene tutti ostaggi nella sala sceneggiatura a scrivere un programma che è chiaramente incompetente a dirigere, bloccandoli per ore su minuzie inutili. Carol (Kathleen Rose Perkins) è senza lavoro e al verde e si sente miserabile, tanto da non uscire mai di casa.

Già da subito la serie si mostra come è una riflessione graffiante sulla cattiva televisione: guardare il nuovo caposceneggiatore Tim che si incaponisce su una battuta che ha a che fare con dei biscotti (5.01) e che ha sotto di sé una squadra che non lo sopporta, ma che è costretta piegata ai suoi voleri, nella malcelata insofferenza, è un piccolo capolavoro, e si ride di gusto nel vedere i colleghi che sputano un lungo elenco di marche di biscotti quando viene schioccata la metaforica frusta della richiesta di sentirne elencati alcuni tipi specifici. E, proferita dalla sua bocca, non si può non compartecipare alla riflessione critica nei confronti delle molte commedie attuali che, pur definendosi tali spesso non fanno affatto ridere, quando gli fanno dire, di fronte allo sguardo atterrito di Sean e Beverly: “Oh, voi due siete così vecchia-scuola. Le commedie non devono più essere divertenti. Alcune delle maggiori commedie non sono nemmeno lontanamente divertenti. Il pubblico non ha più bisogno delle vostre battutine e delle vostre risate e del vostro humor. Dovete solo finire dopo 30 minuti. Tutto qui, bang, siete una commedia”. Che ilare frecciata. Questa frase da sola, vale tutta la stagione.

Ci si sofferma su come talvolta alcune decisioni nascano molto prosaicamente da rospi da mandare giù e rivalità ripicche reciproche e continua la tradizione di cavare umorismo dal pene di Matt LeBlanc che, per una piccola vendetta di Merc Lapidus (John Pancow),  qui si ritrova involontariamente a masturbarsi pubblicamente, e dal suo egocentrico menefreghismo. Non si temono terreni spinosi  - la conversazione fra Carol e Berverly sul sembrare o meno ebrei in 5.01) è un buon esempio così come la morte del padre di Matt (5.05).

La chiusura, che in realtà è apparsa un po’ precipitosa, ha concesso in lieto fine. È stato un bel tocco, anche se lo avevo sospettato dal momento in cui Sean ha dichiarato di aver scritto una nuova idea di cui era entusiasta e quindi non è stato proprio una sorpresa, che l’ultima scena vedesse tutti i protagonisti in un sala di proiezione a guardare la sigla del nuovo programma che era in realtà la sigla di Episodes stesso, solo con autori Sean e Berverly al posto di Jeffrey Klarik (sceneggiatore di tutte le puntate della stagione) e David Crane.


domenica 14 gennaio 2018

9-1-1: un procedurale solido, ma perdibile


“9-1-1, qual è la sua emergenza?”: la frase di risposta del 113 americano punteggia, ricorrente, la nuova serie di Ryan Murphy, Brad Flachuck  (entrambi di Glee e American Horror Story) e Tim Minear (Angel, American Horror Story), intitolata 9-1-1 appunto (sull’americana Fox), e raggruma intorno a queste chiamate i casi professionali intrecciati alle vicende personali dei first responders di Los Angeles, ovvero di pompieri, paramedici, poliziotti, e in generale di tutti coloro che lavorano nel primo soccorso raccogliendo per primi le richieste di aiuto più disparate. Viene in mente ER, viene in mente Third Watch.

Abby Clark (Connie Britton, Friday Night Lights, Nashville) è la centralinista del 911 che ha a casa la madre con l’Alzheimer avanzato; Bobby Nash (Peter Krause, Six Feet Under, Parenthood) è pompiere cattolico che ogni settimana confessa di aver avuto problemi di dipendenza con l’alcool per ricordarsi di non ricaderci; Athena Grant (Angela Bassett, American Horror Story) è la poliziotta in crisi con il marito Michael (Rockmond Dunbar, The Path) che le ha da poco confessato di esser gay; Evan “Buck” Buckley (Oliver Stark) è il giovane testa calda troppo irruento e irrispettoso dell’autorità; Howie “Chimney” Han (Kenneth Choi) e Genrietta “Hen Wilson” (Aisha Hinds) sono i pompieri/paramedici di cui dobbiamo ancora conoscere meglio le storie.

Si debutta con casi memorabili: un bebè intrappolato in una tubatura perché partorito e buttato nello scarico del water, e a seguire una ragazza quasi soffocata da un serpente e una bimba intrappolata in una casa dopo che sono entrati dei ladri.

La recitazione, come si comprende dal cast, è di primo’ordine e il ritmo è serrato, la narrazione chiara, decisa, dai contorni netti e le tinte forti. Non ci sono molte sottigliezze e c’è un tono da “eroi senza macchia e senza paura”, ma umani e vulnerabili, con un pizzico di potenziale predicozzo di vernice.  È un procedurale convenzionale con soluzioni veloci per in casi, solido, ma niente di cui entusiasmarsi.  

venerdì 12 gennaio 2018

CFP di Osservatorio TV



Riporto di seguito quanto indicato sul sito di “Osservatorio TV”. 

“Osservatorio TV è un progetto di ricerca indipendente che pubblica un ebook gratuito ogni anno per analizzare le serie TV realizzate indicativamente nei 2/3 anni precedenti. Arrivato al sesto anno, Osservatorio Tv ha già in programma per il 2018 saggi sulle seguenti serie:

Alias Grace, Bates Motel, Black-ish, Black Mirror 4, Crisis in Six Scenes, Dark, Defenders, Easy, Feud, Happy Valley, How to get away with murder, Mindhunter, Mr.Robot, Ozark, Outlander, Shameless US, Stranger Things, The Girlfriend Experience, The Good Place, The People vs. O.J. Simpson: ACS, You Me Her.

Per chi fosse interessato a partecipare, il prossimo numero verrà pubblicato a settembre 2018. Per proporre una collaborazione, inviare a barbaramaio@osservatoriotv.it una proposta per una serie ancora disponibile e una breve bio o cv.

La proposta dovrà arrivare entro marzo 2018 e il saggio di circa 4/5000 parole dovrà essere inviato entro giugno 2018”.

Solo a titolo indicativo, sul sito si elencano di seguito serie ancora disponibili ma si accettano proposte anche su altre serie, possibilmente prodotte non prima del 2014.

lunedì 8 gennaio 2018

GOLDEN GLOBES 2018: i vincitori

Photo credit: abcnews

Sono state consegnate la notte scorsa le statuette dei Golden Globe, in una cerimonia presentata da Seth Meyers (qui il monologo introduttivo).  Sotto, i vincitori:

Miglior serie TV - Drama
The Handmaid's Tale

Miglior performance di un’attrice in una serie TV – Drama
Elisabeth Moss, "The Handmaid's Tale"

Miglior performance di un attore in una serie TV – Drama
Sterling K. Brown, "This is Us"


Miglior serie TV - Musical o Comedy
Marvelous Mrs. Maisel

Miglior performance di un attore in una serie TV - Musical o Comedy
Aziz Ansari "Master of None"

Miglior performance di un’attrice in una serie TV - Musical o Comedy
Rachel Brosnahan, "The Marvelous Mrs. Maisel"


Limited Series o Film per la TV 
Big Little Lies

Miglior  Performance di un attore in una Limited Series o Film per la TV
Ewan McGregor, "Fargo"

Miglior  Performance di un’attrice in una Limited Series o Film per la TV
Nicole Kidman, "Big Little Lies"


Miglior  Performance di un attore non protagonista  in una Limited Series o Film per la TV
Alexander Skarsgard, "Big Little Lies"

Miglior  Performance di un’attrice non protagonista in una Limited Series o Film per la TV
Laura Dern, "Big Little Lies"

Golden Globe alla Carriera: Oprah Winfrey (qui il suo apprezzato discorso).



Chi non ricordasse le nomination, le trova qui.

Come migliori film hanno vinto Tre manifesti a Ebbing, Missouri (drammatico) e Lady Bird (commedia). Per la lista di tutti i vincitori anche in questa categoria si veda qui.

Qui, su The Hollywood Reporter,  è possibile vedere i discorsi dei premiati. 

sabato 30 dicembre 2017

Il MEGLIO del meglio delle serie del 2017


Qual è il meglio delle serie del 2017? Metacritic ha compilato una lista unendo le liste individuali di migliori programmi del’anno di oltre 90 critici televisivi, attribuendo 3 punti per ogni primo posto, 2 punti per ogni secondo posto, un punto per le posizione da 3 a 10, e mezzo punto per le posizioni fra 11 e 20.  

L’elenco completo lo trovate al link, qui sotto vedete le prima 10 posizioni (NB. La lista viene aggiornata fino a gennaio, per cui potrebbe subire delle variazioni rispetto a quanto riportato qui sotto in questo momento, per cui, per una versione aggiornata, consiglio di seguire eventualmente il link).


  1. The Leftovers
  2. Twin Peaks
  3. Big Little Lies e, a pari merito, The Good Place

  1. The Handmaid’s Tale
  2. Better Things
  3. The Deuce
  4. Better Call Saul
  5. Legion
  6.  Master of None e, a pari merito, GLOW

giovedì 28 dicembre 2017

Le MIGLIORI NUOVE SERIE del 2017, secondo me


Come ogni anno scelgo quelle che per me sono state le migliori nuove serie dell’anno,  anche se questo significa che lascerò fuori serie potenzialmente ottime che non ho ancora avuto modo di guardare. L’offerta televisiva è sempre più generosa e si affoga nella quantità di materiale. Meglio così, di fatto, ma è frustrante ugualmente non riuscire a stare dietro a tutto. Ugualmente, mi rammarico di non poter segnalare serie davvero ottime – The Leftovers, The Good Place (qui parlavo della prima stagione), The Young Pope, Insecure, American Crime, Master of None… - che hanno debuttato in altre annate, ma per queste le varie liste dei molti critici televisivi credo possano essere un buon faro.  

Fra le migliori serie dell’anno scelgo:

  • The Handmaid’s Tale: ne ho parlato qui, dove c’è anche il link al saggio che ho scritto in proposito per Osservatorio TV. Parecchi hanno ritenuto che la serie subisse un calo nella seconda parte e che avesse episodi poco convincenti (la puntata in cui si parla del marito, ad esempio), ma io non ho avuto la stessa percezione.

  • Big Little Lies: ne ho parlato qui. E sono lieta della recente notizia che conferma una seconda stagione.

  • The Deuce: ne parlerò a breve (e semmai successivamente metterò un link anche qui), ma l’approccio sociologico di David Simon regala una gemma anche in questa nuova opera che parla di prostituzione e pornografia negli anni ’70.

  • Legion: ne ho parlato qui. Più di qualcuno alla fine è rimasto deluso. Io non ci ho solo visto una storia di “David è pazzo / non è pazzo”, come sono state spesso percepite le vicende. Direi che parla di come ciò che definiamo pazzia a volte è genio, e la serie si interroga se sappiamo riconoscerlo; della labilità del confine fra normalità e pazzia; del ruolo della famiglia nella definizione di chi siamo cognitivamente e psicologicamente; dei vari abbandono/adozione (e anche della componente genetica / ambientale); dell'infanzia come terreno in cui seminare e far germogliare paure e strategie per affrontarle; del fatto che i mostri peggiori sono quelli interiori; della "coabitazione" con i propri mostri; di alienazione; dei luoghi di fantasia come porto sicuro, ma come possibili trappole seduttive; del mettersi nei panni degli altri (anche con la coppia che divide il corpo); della mutabilità dei ricordi; della gestione di rabbia/paura; in fondo anche della capacità di ospitare diversi personaggi nella propria mente... Concordo con chi rimprovera il fatto che contenutisticamente si è stati forse un po’ superficiali e che si poteva approfondire di più, ma mi pare che carne al fuoco ne sia stata messa parecchia. E la forma è anche contenuto e formalmente la serie ha osato molto e con successo. Dan Stevens poi, con il suo tono vagamente ironico-umoristico, ha fatto un lavoro davvero egregio.

  • The Marvelous Ms Maisel: è arrivata in coda d’anno, non ho terminato di vederla e mi riprometto di scriverci in futuro, ma per quello che ho potuto vedere, la nuova serie Amazon firmata da Amy Sherman Palladino (Gilmore Girls, Bunheads) è fra le sue migliori.

  • Alias Grace: narrativamente non ho apprezzato la fine, ma la “colpa” non è della versione televisiva ma dall’omonimo testo di Margaret Atwood da cui è tratta, ma le vicende della domestica accusata di omicidio della coppia per cui lavorava ambientata nel Canada di metà dell’’800 è stata impeccabilmente recitata e girata, ed è stata coinvolgente e sottile.

  • Back: ho scoperto questa sit-com britannica di 6 puntate ideata da Simon Balckwell (Veep) grazie alla entusiasta recensione di Tim Goodman su The Hollywood Reporter, che lo ha posizionato addirittura quarto nella sua scaletta (di 46 titoli) delle migliori serie dell’anno. Il titolare di un pub, Stephen (David Mitchell), in seguito alla perdita del padre dovrebbe diventarne il gestore unico, sennonché si presenta un (presunto?) figlio affidatario, Andrew (Robert Webb), che per la famiglia sembra fare e dire sempre la cosa giusta e diventa l’eroe di tutti, lasciando il protagonista schiacciato dall’insignificanza e dell’invidia, perenne perdente su ogni fronte, defraudato del ruolo che gli spetta di diritto. Rimiamo sempre nel dubbio che Andrew sia un imbroglione. Tanto amaro quanto esilarante.

Menzioni onorevoli per me vanno a:

Tredici (che non credo sia entrato nella lista di migliori serie di nessuno, ma che per me ha trattato un argomento solitamente tabù in modo intelligente, ed è diventato un importante argomento di discussione); 
Downward Dog (cancellato troppo presto); 
Chiamami Anna (sarà che non ne ho viste altre versioni, ma questa, per ragazzi, si è saputa distinguere ai miei occhi);
GLOW; 
Dear White People (di cui parlerò prossimamente).


E voi? Quali giudicate le migliori serie del 2017?

mercoledì 27 dicembre 2017

I programmi USA più visti nel 2017


Quali sono stati i programmi americani della TV dei network più visti (negli USA) nel 2017? Entertainment Weekly indica i primi 75 (con tanto di numeri sugli spettatori che ciascun programma raccoglie). Sotto sono elencati i primi 10, e per la lista completa si può vedere qui.

1. NBC NFL Sunday Night Football (18.2 millioni)
2. The Big Bang Theory (18 millioni)
3. The Good Doctor (16.7 millioni)
4. This Is Us (16.6 millioni)
5. NCIS (16.5 millioni)
6. Young Sheldon (15.8 millioni)
7. CBS Thursday Night Football (14.2 millioni)
8. Bull (13.8 millioni)
9. NBC Thursday Night Football (13.4 millioni)
10. NBC NFL Sunday Night Pre-Kick (13.2 millioni)