martedì 10 maggio 2016

MASTER OF NONE: contemporanea e universale


A ragione Master of None (su Netflix), ideata da Aziz Ansari (Parks and Recreation) e Alan Yang,  è stata considerata una delle migliori serie del 2015, per il modo originale in cui riesce a parlare di rapporti familiari e interpersonali, e questioni identitarie, razziali e culturali coniugando un’universalità di temi alla capacità di cogliere la specificità del momento in cui viviamo, legato anche ai cambiamenti tecnologici, cosa che Ansari ha affrontato sia nel suo recente libro Modern Romance: An Investigation che, da anni, nel suo materiale di stand-up.  
Dev Shah (Ansari) è un attore trentenne che fatica a sfondare, figlio di immigrati indiani, che naviga la realtà newyorkese contemporanea. Per tanti versi è ancora un uomo-bambino, di cui ha i pregi, ma anche i difetti: è gioioso e ha un entusiasmo quasi infantile per le cose, ma tende ad essere anche superficiale ed egocentrico. La sua vita personale è divisa fra la fidanzata Rachel (Noël Wells), che lavora nel campo della musica – e in modo tanto curioso per questo formato televisivo quanto riuscitissimo, quasi due anni della loro relazione vengono esaminati in una puntata di circa mezz’ora (1.09); i genitori Ramesh e Nisha (interpretati dai veri genitori di Ansari); e gli amici Brian (Kelvin Yu), taiwanese-americano che vive dei paralleli con Dev nel suo rapporto con i propri genitori,  Denise (Lena Waithe), afro-americana lesbica che gli dà il punto di vista femminile sulle ragazze con cui esce prima di trovare Rachel, e Arnold (Erir Wareheim), il gettone-presenza di un bianco fra gli amici, come è stato inteso, la cui amicizia è basata su quella della vita reale dei due interpreti.
Lo stile è rilassato, e le interazioni con i suoi amici sono molto naturali. Sotto i riflettori sono le  varie situazioni e insicurezze della vita. Al suo meglio è stato concepito come un Louie senza l’amarezza e le spigolosità caratteriali di quest’ultimo, ma più dolce e ben intenzionato; al peggio è stato valutato come troppo smaccato, nell’affrontare ogni volta una tematica diversa in quello che sembra un enunciare una serie di tesi una dopo l’altra poi spiegate via via, quasi un’esercitazione di studente in cinema che ha appena fatto un’immersione in Woody Allen (su questa argomentazione, che io capisco ma non condivido, si veda il ben ragionato dialogo fra i partecipanti al podcast  Pop Culture Happy Hour del 20 novembre 2015).
La serie mostra sul serio in che modo vuole raccontare la vita a partire da “Parents” (1.02) in cui Dev e Brian si rendono conto di non sapere molto dei propri genitori e della loro esperienza pre e post immigrazione e decidono perciò di trascorrere del tempo con loro. Le autentiche difficoltà e i sacrifici affrontati dalla generazione precedente viene messa in contrasto con le banali difficoltà, in paragone, dei due giovani, o quanto meno messa in prospettiva, con anche il possibile senso di colpa che i due ragazzi possono provare nel confronto con i propri genitori. Sono trattate in più puntate tematiche connesse, come l’invecchiare (1.08) o l’abbondanza di scelte attuale rispetto al passato, che può risultare paralizzante (1.10), o la difficoltà a capire quando si è veramente soddisfatti o se e quando sia giusto accontentarsi delle proprie scelte nella vita.  
Gli stereotipi razziali – e il modo di gestirli nello showbiz (campo in cui Dev lavora) sono a centro della brillante “Indians on TV” (1.04) che mostra come vi possano essere vari “gradi di razzismo”. Dev riflette come le minoranze etniche difficilmente trovino lavoro in un programma di bianchi al pari loro. Se c’è più di uno di loro, immediatamente viene etichettato come programma etnico. Si rammarica di non poter essere scelto per una parte per cui sarebbe perfetto perché c’è già un altro indiano a cui la parte è stata data. “Gli indiani non sono ancora a quel livello. Sì, ci sono più indiani che saltano fuori una volta ogni tanto, ma siamo come la decorazione del set. Non siamo quelli che hanno le storie principali, non scopiamo le ragazze e tutto quel genere di roba. Non siamo ancora a quel punto. Non ce ne possono essere due. I neri sono appena arrivati al loro ‘ce ne possono essere due’. Status, sai. Anche loro però, non  possono essercene tre, altrimenti è uno show nero, o un film nero. Gli indiani, gli asiatici, i gay, ce ne può essere uno, ma non ce ne possono essere due” (la traduzione è mia). Un’analisi acuta a accurata che provoca un riso amaro.     
La serie è anche una commedia romantica, che non si fa intimidire al punto da evitare di trattare spinose questioni di gender e femminismo che mette in scena invece con una quotidiana concretezza, e che riesce bene in una impresa davvero difficile, come acutamente ha osservato Linda Holmes (al link di cui sopra), ovvero nel far litigare sul serio i due innamorati (Dev e Rachel) e nel far risolvere bene questi scontri e recuperare bene il loro rapporto senza far ricorso al sesso o al pomiciare in senso ampio.
Dulcis in fundo. Il protagonista, grande amante del cibo, tanto che gli vediamo preparare una carbonara da zero in “Mornings” (1.09), in chiusura prende un’aereo per l’Italia perché, appunto, adora la pasta. Da italiana, come non approvare?

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