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domenica 20 febbraio 2022

INVENTING ANNA: non mi gabba

C’era trepidante attesa per Inventing Anna (disponibile su Netflix dallo scorso 11 febbraio), la nuova miniserie di nove episodi uscita dalla penna di Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy, Scandal), e mi ci sono fiondata con gran curiosità. Ho visto la prima puntata e… posso non continuare? Se colpevole deve essere, almeno che sia piacere. Questo per me non si qualifica come tale. Ora, l’autrice sa il fatto suo e sa come rendere accattivante e pimpante una storia trash, ma questa per me finisce nello scatolone etichettato “la vita è troppo breve”. 

La serie, liberamente basata su un articolo del New York magazine "How Anna Delvey Tricked New York's Party People" ("Come Anna Delvey ha ingannato i festioli di New York"), include un disclaimer: "Tutta questa storia è completamente vera. Tranne tutte le parti che sono totalmente inventate". Protagonista è Anna Sorokin (Julia Garner, Ozark, The Americans), conosciuta anche con il suo pseudonimo, Anna Delvey, artista della truffa trasformista che si è fatta strada nelle alte sfere della società di New York, facendosi pagare hotel e viaggi e truffando finanzieri, collezionisti d’arte e ricchi frequentatori del bel mondo spacciandosi per un’ereditiera tedesca. È stata condannata per furto di servizi e furto aggravato. Sua comprimaria, che comprende il suo desiderio di diventare famosa, è la giornalista Vivian Kent (Anna Chlumsky, Veep) che lavora per una fittizia rivista di Manhattan, basata sulla vita e il lavoro di Jessica Pressler, la reporter della rivista su cui è stato pubblicato quell’articolo nella vita vera, che da quanto si legge in giro non avrebbe concesso i diritti sulla sua storia, mentre Netflix avrebbe pagato alla vera Sorokin 320.000 dollari per i suoi. La fittizia Kent è stata relegata in “Scriberia”, come la chiama lei, la Siberia degli scrittori, dove ci finiscono autori bravi, ma alla fine della propria carriera, e lei che ha un fiasco sul lavoro da cui vuole riabilitarsi e che ancora non conosciamo. Vogliono affidarle un pezzo sul #metoo, ma lei si oppone per la tempistica: è salire sul carro del vincitore solo come clickbait, senza cambiare le cose. Decide perciò di fare di testa sua e alla fine i suoi redattori acconsentono anche perché lei è molto incinta e dubitano possa fare granché prima della nascita del bebè. Quando la storia inizia, Anna è già in prigione a Rikers Island, dove è in attesa del processo, e Kent inizia a farle visita.

Anna, da cui Vivian è così intrigata, è da subito spocchiosa e pretenziosa. Uno dei concetti che vengono reiterati è che tutti la ritraggono come una stupida, una semplice mondana arrivista, mentre quello che ha fatto richiede cervello. Io non metto minimamente in dubbio che riuscire a far funzionare un simile piano riesca solo a una mente brillante, solo che penso sia intelligenza mal indirizzata e che la storia glorifichi qualcosa che va condannato. Non ho dubbi che la serie sia un grado di puntare il dito contro realtà e pregiudizi della vita contemporanea: mostra due donne che cercano di cavarsela a dispetto del patriarcato; fa notare come una donna bianca e bella sia vista come incapace di commettere crimini; ricorda la potenziale falsità dei social media dove puoi venderti per quello che non sei; riflette sulla la fallacia del sogno americano; critica la generazione dei millennials, che si pensa essere troppo speciale per lavorare; osserva cinicamente come le relazioni sono una transazione; smaschera l’élite autocentrata che si crede il centro dell’universo; riguarda in realtà, come ha osservato qualcuno, le disuguaglianze nel sistema di immigrazione degli Stati Uniti…  Art News scrive (qui) che “La storia della Delvey è, tra le altre cose, una bruciante caricatura del mondo dell'arte dove devi pagare per partecipare. È vero che se sei un bianco vestito in un certo modo, e se ti presenti a un numero sufficiente di inaugurazioni e serate di gala a New York, la gente probabilmente darà per scontato che sei ricco. In tutto il programma, l'arte è in realtà un pensiero di second’ordine. La cultura è di fatto solo una ragione per organizzare feste di lusso e ospitare eventi esclusivi”.

Glamour, gossip e scandali, sono solo mascherati come una narrazione con potenziale femminista, che ragiona su rapporti fra classi, mobilità sociale e identità in un contesto capitalista, per usare alcune delle parole usate dalla serie stessa. L’odiosa antieroina vorranno anche vendercela come una sorta di Robin Hood dei nostri giorni, ma non mi faccio gabbare, a differenza delle sue vittime. 

domenica 25 agosto 2013

SCANDAL: la prima stagione

 

Volevo gettare la spugna dopo aver visto i primi venti minuti di Scandal (in Italia su FoxLife), la serie politico-scandalistico-investigativa di Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy), dove Olivia Pope (Kerry Washington) è una specie di super-eroina, colei che può risolvere tutti i problemi, la più brava, la più tosta. Se c’è una crisi si chiama lei, perché lei può. Risibile. Ne ho viste tante di serie con questi principio da ragazzina, mi sono detta. Poi però quello che mi ha fatto continuare a verla è che, sì ne ho viste anche troppe su questo principio, ma mai con una donna. E sono una gran fan delle pari opportunità, anche quando si tratta di cose risibili, anzi proprio queste sono un buon segno di parità, in fondo.

E così ho seguito la prima stagione delle investigazioni dell’ufficio di gestione delle crisi di Olivia Pope, ex-direttrice del Dipartimento delle Comunicazioni della Casa Bianca – si dice che la sua figura sia ispirata a quella di Judy Smith, assistente alle comunicazioni durante l’amministrazione di George W. Bush, e qui produttrice esecutiva -, e a capo di una squadra di Associati: il donnaiolo Stephen Finch (Henry Ian Cusick, Lost); Harrison Wright (Columbus Short), un avvocato che ritiene che loro non siano altro che gladiatori vestiti bene; Abby Whelan (Darby Stanchfield), investigatrice che ha un passato di abuso da parte dell’ex-marito; Huck Finn (Guillermo Diaz, Weeds), hacker che vuol cercare di dimenticare il suo violento passato con la CIA, organizzazione per cui torturava e ammazzava i traditori degli Stati Uniti; e Quinn Perkins (Katie Lowes), la neoassunta del gruppo, giovane avvocato. Tutti sono ferocemente leali a Olivia per un motivo o per l’altro. Un po’ rivale, un po’ amico è il procuratore David Rosen (Joshua Malina, The West Wing).

Le vicende si dipanano fra le storie autoconclusive di investigazione e la storia multi-episodica che coinvolge la Casa Bianca, con il Presidente repubblicano Fitzgerald Grant (Tony Goldwyn), con cui Olivia ha avuto una storia, e il suo capo del personale Cyrus Beene (Jeff Perry). La prima stagione in particolare si focalizza su un intrigo che inizia un po’ alla Monica Lewinksy, ma poi prende una direzione diversa, con Amanda Tanner come l’amante del presidente. A interpretarla è Lisa Weil (la Paris di Gilmore Girls che ora recita in Bunheads) che dimostra di essere tanto ferrata nei ruoli drammatici quanto lo è da sempre nei ruolo comici. Il finale è andato in crescendo con colpi di scena non da poco, tanto che con la seconda stagione la serie è di molto cresciuta affermandosi come un vero piacere colpevole per molti.

Scandal si lancia negli intrighi con forza e senza vergogna, senza a benché minima autoironia e forse ha ragione Vulture quando afferma che questo programma è come un pacchetto di patatine, difficilmente se si apre se ne mangia solo una. Il valore salutistico-nutritivo pure è lo stesso.   

venerdì 28 settembre 2012

GREY'S ANATOMY: l'ottava stagione

 
È terminata con il botto l’ottava stagione di Grey’s Anatomy. La tradizionale puntata di megadisastro a cui questo telefilm ci ha abituato è stata riservata per la fine, in quest’occasione. La serie diventa ogni giorno più soapy, ovvero introduce elementi inverosimili alla maniera delle soap: uno per tutti, il compagno della Bailey (Chandra Wilson), Ben (Jason George), che le fa trovare un tavolo imbandito di tutto punto per una cena romantica in ospedale visto che lei ha operato fino all’ultimo e ogni prenotazione al ristorante è andata a farsi benedire – tanto deliziosamente romantico quanto completamente poco credibile. Ma se Grey ci piace è anche per questo. Anche quando vedi che non è chissà quale grande televisione, sei affezionato ai personaggi e non ti importa. 
Questa stagione è partita un po’ in sordina, con il licenziamento subito rettificato di Meredith (Ellen Pompeo) a seguito del suo aver compromesso la ricerca sull’Alzheimer di Derek (Patrick Dempsey): che le abbiano di fatto impedito di subire le conseguenze di una decisione tanto grave, sia eticamente che professionalmente, mi ha lasciato l’amaro in bocca. E le ripercussioni sull’adozione della coppia della piccola Zola, che soffre di spina bifida, sono forse la sola cosa degna di nota collegata. La tensione narrativa però è stata fiacca. Più interessanti le conseguenze per Richard (James Pickens, jr) -  che ha dovuto cedere il posto di capo del personale a Owen – per il quale la storia con la moglie Adele (Loretta Devine) è stata portata alle sue naturali conclusioni, con lei affidata a una casa di cura.
La storia davvero potente dell’ottavo arco, quella che ha funzionato sotto ogni punto di vista, è stata quella dell’aborto di Christina (Sandra Oh) e delle conseguenze che ha avuto nel suo rapporto con Owen (Kevin McKidd). Qui la serie è stata soap nel senso migliore del termine: ha esaminato con onestà emozionale le posizioni di entrambi e solo con il necessario pizzico di melodrammaticità ha ritratto la coppia con integrità, mettendone a nudo vulnerabilità e forze. Gli attori sono stati superbi in ogni passaggio. Bisogna poi applaudire anche solo la presenza di un personaggio femminile che non vuole figli, per il semplice fatto che non desidera averne. Sono così rari che sembra talvolta che non esistano. In questo senso Christina davvero è un originale e rende visibili molte donne là fuori che sullo schermo sono decisamente sottorappresentate.
La storia di Teddy (Kim Raven, ora entrata nel cast di Revolution) che, inaspettatamente, perde (8.09) il marito Henry (Scott Foley) è stata fatta con garbo, ma ha avuto più forza per il tipo di dinamiche create con Owen e Christina che alto. Dopo la storia di Izzy (Katherine Heigl), sulla cui falsariga era concepita,  in questo senso non ce n’è per nessuno. Arizona (Jessica Capshaw) e Callie (Sara Ramirez) sono state in secondo piano, quest’anno, e Lexie (Chyler Leigh) e Mark (Eric Dane) ormai hanno dato quello che potevano. A concepire i personaggi come segnaposto, i loro ruoli sono ora coperti da April Kepner (Sarah Drew) e Jackson Avery (Jesse Williams). La prima inizia la stagione con la difficoltà a imporre la sua autorità come chief resident e termina con una fortissima crisi personale: sembra inadeguatamente un po’ troppo il bersaglio dello scherno generale, e il tentativo di demolire la sua gioiosità con le difficoltà della vita non l’ho troppo gradito come tipo di retorica sottesa, né come risultato sul personaggio. Jackson dal canto suo, oltre a rendere onore al suo mentore professionalmente, tiene alto senza sforzo il quoziente di quello che l’ideatrice chiama man-whoreness  (“puttanità maschile”), ma che io mi accontento di definire “gnocchitudine”. La comparsa della madre di lui, sempre troppo presente nella sua vita, introdotta con una puntata sul trapianto del pene, è stata una mossa vincente. Karev (Justin Chambers) che si è avvicinato alla interna Morgan (Amanda Fuller), e al suo bebè nato prematuro, ha mostrato una volta in più che questo personaggio è sempre un po’ sotto-sfruttato. 
Questo era il quinto anno per la gran parte dei residenti e questo ha portato decisioni da prendere per la rispettiva specializzazione, esami finali e cose così: uno sguardo interessante a come funziona il sistema americano. Puntata “speciale” della stagione è stata quella di realtà alternativa  “If/Then” / “E se…” (8.13). Gradevole, ma non di più, anche perché arrivava esplicitamente a due conclusioni opposte, da un lato che siamo noi gli artefici del nostro destino, dall’altro che se è destino che accada qualcosa, non importa quel che facciamo, accadrà.    

mercoledì 24 agosto 2011

GREY'S ANATOMY: la settima stagione


È partita in modo anticlimatico la settimana stagione di Grey’s Anatomy, che in definitiva è stata discreta. La strage compiuta da un assassino di massa nel finale della precedente stagione si ripercuote nella quotidianità dei protagonisti, che, riprese le proprie vite, rivivono a flash le atrocità a cui sono stati costretti ad assistere, meditano sul senso della propria vita al punto attuale e nel farlo hanno l’appoggio di un terapeuta, una nuova entrata, il dottor Andrei Perkins (James Tupper, Men in Trees) che esce di scena abbastanza presto per poi rientrare solo brevemente alla fine. Il disturbo post traumatico da stress è l’iniziale filo conduttore di una stagione che comincia con il matrimonio di Christina (Sandra Oh), in abito rosso, e Owen (Kevin McKidd), e poi con la difficile temporanea rinuncia di lei alla professione, proprio perché non riesce a superare lo shock di quello che è successo.
La puntata “These Arms of Mine – Queste mie braccia” (7.06), scritta da Stacy McKee e con la regia di Stephen Cragg, è stata costruita come una sorta di documentario per la TV dal titolo Seattle Medical: Road to Recovery, ed è stata probabilmente la migliore della stagione, anche perché ha mostrato la ferrea consapevolezza dei diversi registri narrativi che si usano nei differenti generi, lasciando riflettere sulla forma di quello che guardiamo, e ha affrontato uno degli argomenti a cui si è accennato in questa stagione, quello della comunicazione attraverso la tecnologia – nella seconda metà di questo arco si è trattato dell’opportunità di raccontare via Twitter le operazioni in corso di via, esprimendo un’opinione favorevole nei confronti di una simile pratica.  

 La seconda metà di questo settimo ciclo si è concentrata su diversi filoni. Il trial clinico sui pazienti affetti da Alzheimer condotto da Derek (Patrick Dempsey) e Meredith (Ellen Pompeo), che avendo perso la madre per la malattia ha un interesse specifico in proposito, è stata la storia medica portante. Ha coinvolto un numero elevato di pazienti che ne sono affetti e ha dato uno spaccato maggiore sulla problematica, anche quando le vicende umane loro e dei loro familiari sono state viste solo di striscio. Storie di Alzheimer se ne sono viste parecchi nelle serie TV. La primissima che io rammento di aver visto risale agli inizi degli anni ’80 in Family Ties – Casa Keaton. E, curiosamente, una di quelle che mi sono rimaste più impresso si deve all’inedito, da noi, The Book of Daniel. Anche nelle scorse stagioni Grey ha sempre prestato una attenzione particolare a questa patologia. Quando ora si è scoperto che anche la moglie di Richard (James Pickens Jr), Adele (Loretta Devine), ha cominciato a mostrarne i sintomi inizialmente mi è sembrata una scelta ridondante, ma ha avuto senso nel prosieguo della storia con Meredith che mette a rischio la ricerca per far sì che la donna che Richard ama abbia l’effettivo medicinale e non un placebo. Anche vedere il tipo di ricerca medica che stanno conducendo nel suo svolgimento non è un percorso narrativo usuale, ed è benvenuto. Ha anche intersecato un'altra delle linee narrative portanti, quella degli specializzandi che competono fra loro per il ruolo di capo, ruolo chealla fine  va ad April Kapner.

 Altra linea narrativa portante è stata la maternità (Arizona e Callie che hanno una bambina che viene chiamata Sophia,  Meredith e Derek che cercano di adottare una bimba africana, Christina che non vuole a nessun costo un bambino e scopre di essere rimasta incinta. E il senso della famiglia. La rottura fra Arizona (Jessica Capshaw) e Callie (Sara Ramirez) è stata un po’ brutale e apparentemente immotivata, ma con la riappacificazione si è  data davvero preminenza alle due con molteplici risvolti. L’incidente stradale di Callie incinta, che ha rischiato di perdere la vita sua e della bimba che portava in grembo, è stata l’occasione dell’attesa puntata musical “Song Beneath the Song – Una canzone per rinascere” (7.18). Scritta da Shonda Rhimes, confesso che non mi è affatto piaciuta. Ho trovato bravi gli attori come interpreti, e le scelte registiche (di Tony Phlean) sono anche state originali (con parlato e cantato che si sovrapponevano, ad esempio), ma invece di aumentare l’impatto emotivo della storia i momenti canori si sono trasformati in una distrazione, salvo che nel numero finale. Spesso le canzoni sembravano non avere senso, o meglio non essere veramente legate a quello che accadeva se  non incidentalmente. E anche un numero apparentemente così ben realizzato come quello in cui tutte le coppie amoreggiavano, è risultato emotivamente stonato rispetto a quello che stava capitando. Uno dei principi fondanti di questo genere consiste nel fatto che quando le emozioni sono troppo forti per essere espresse a parole, interviene il canto. Qui appunto l’effetto è stato di diminuire la portata emozionale e l’espediente stilistico alla fine ha fallito il suo compito risultando pretestuoso. Dovevano fare un numero musicale e lo hanno fatto. Altro senso non c’è stato.

 Che la serie abbia a cuore i diritti dei gay è più che evidente. Come personaggi secondari ne sono apparsi diversi - ad esempio un ragazzo che ha rinunciato all’amore a Londra per consentire alla madre di partecipare al trial clinico  di Derek, una coppia che si doveva sposare e uno degli sposi è stato travolto da dei cavalli - e nello specifico si è prestata attenzione alla questione del matrimonio omosessuale, sia attraverso la suddetta coppia sia attraverso il parallelismo fra le nozze di Callie e Arizona e quelle fra Derek e Meredith (7.20 - “White Wedding – Tempo di matrimoni): lungamente desiderate, osteggiate dai familiari e faticosamente ottenute e celebrate secondo la tradizione e piene di gioia le prime, che non hanno valore legale, frutto della decisione del momento, rapide il tempo di una firma o poco più e asettiche le seconde, legali… L’iniquità della disparità è stata resa auto-evidente con una giustapposizione. Il senso dell’essere una famiglia poi e dei “nuovi modelli di famiglia” è stato costruito in modo forte in tutti i rapporti fra Mark (Eric Dane), padre biologico della bambina di Callie, Callie e Arizona.   

 Grey’s Anatomy si è sempre tanto concentrata sulle relazioni sentimentali dei protagonisti e si è tornati in carreggiata su questo fronte con solide storie non solo per i protagonisti storici. Teddy (Kim Raven) sposa un paziente che non ha l’assicurazione sanitaria, Henry (il sempre fascinoso Scott Foley) e finisce per innamorarsene. Lo scorbutico Stark (Peter MacNicol) corteggia la virginale April (Sarah Drew). Jackson (Jesse Williams) si fa avanti con Lexie (Chyler Leigh). Si è trattato di coppie per cui si è fatto il tifo facendosi trascinare nelle evoluzioni, nei piccoli ostacoli, nel pizzico di romanticismo.

 La finale di stagione poi ha assicurato sia colpi di scena che commozione, con un disastro aereo i cui passeggeri non arriveranno mai in ospedale perché morti, tranne una. Da tirar fuori i fazzoletti in puro stile Grey’s Anatomy che non è più da tempo una serie davvero buona, ma che qualche trucco dalla manica ancora lo sa tirar fuori e che ha personaggi a cui nonostante tutto non si riesce a non essere affezionati. 

sabato 15 gennaio 2011

OFF THE MAP: medici senza camicie



Invece di chiamarli Medici Senza Frontiere, il New York Times ha scherzato chiamandoli Medici Senza Camicie: Off the Map, il telefilm che ha appena debuttato sull’americana ABC, è dopotutto prodotto da Shonda Rhimes, la nota autrice di Grey’s Anatomy, ed è ideato da una delle sceneggiatrici di quest’ultima serie, Jenna Bans. Ma Off the Map Grey’s Anatomy non è, nemmeno in quell’aspetto, anche se un po’ di fanservice indubbiamente c’è. Magari per loro. Ne esce una serie sciacquetta, insipida e finta.

Siamo da qualche parte nel sud dell’America – l’ambientazione è volutamente vaga, ma le riprese, mozzafiato, sono fatte alle Hawaii – e nel mezzo della giungla alcuni medici americani lavorano nella clinica Cruz de Sur a Ciudad de las Estrellas. Il pilot si apre come tre dei personaggi principali che osservano semi divertiti, quasi fosse un gioco, alcune persone che rischiano di affogare per essere state sbalzate fuori da un gommone, prima di buttarsi ad aiutarli. Vorrebbe essere vagamente umoristico, ma ne esce sbruffone e basta. Sono il dottor Ben Keeton (Martin Henderson), il fondatore dell’avamposto medico, il dottor Otis Cole (Jason George, Sunset Beach, Eastwick) e la dottoressa il cui nome, Zitajalehrena Alvarez, risulta impronunciabile un po’ per tutti per cui finiscono per chiamarla "Zee". È l’unica non americana e l’unica a guardare con un po’ di sufficienza l’ennesimo americano arrivato a salvare il mondo.


Le vicende partono con l’arrivo alla clinica di altri tre giovani che cercano qui un nuovo inizio, lasciandosi ciascuno una dolorosa vicenda alle spalle: Lily Brenner (Caroline Dhavernas, Wanderfalls) che ha perso il fidanzato; Tommy (Zach Gilford, Friday Night Lights) un chirurgo plastico che dice di aver perso la sua famiglia per orgoglio; e Mina (Mamie Gummer), che per eccessiva stanchezza dovuta a superlavoro non si è accorta di una “zebra della medicina”, un caso di meningite batterica che lei ha scambiato per comune influenza, con la conseguenza che un bambino è morto e lei si è vista sbattere fuori dal suo corso di specializzazione. Le condizioni in cui lavoreranno, vengono subito informati, non sono ideali: si è nel Terzo Mondo ed è come trovarsi negli anni ’50, bisogna usare il cervello e l’istinto, e il più delle volte non ci sono farmaci perché dipendono dalle donazioni: Ben tira un pugno a un paziente che si è infilato la coda di un enorme pesce in un piede, come forma di distrazione e anestesia; sempre Ben, in mancanza di fluidi, pianta tutto nel bel mezzo di un’operazione per arrampicarsi su una palma e prendere delle noci di cocco il cui latte viene poi utilizzato per una trasfusione, come si faceva durante la Seconda Guerra Mondiale, informa; un inalatore per l’asma lo ha portato da casa Mina, e come pagamento si vede portare dalla riconoscente paziente una gallina…

Sono subito buttati nella mischia: salvare e operare un turista americano che si è impigliato sul cavo di una funivia (Lily); convincere un padre a non rifiutare i farmaci per i familiari che stanno morendo di tubercolosi (Tommy), anche grazie alla mediazione di un ragazzo, Charlie (Jonathan Castellanos) che si adopera come traduttore; aiutare una donna asmatica (Mina)… Ho apprezzato che, nel pilot, le vicende più d’azione siano state date a una donna e quelle più di famiglia a un uomo: penso che in passato difficilmente sarebbe accaduto. Le storie però sono come tante, non troppo ben scritte, nemmeno nel dialogo, e i personaggi sono sufficientemente piatti e anonimi. Tutto suona finto, forzato, messo lì ad hoc. Anche lì dove gli elementi ci sarebbero  - vedi la storia del turista che vuole spargere le ceneri della moglie in un lago che sembra accendersi di luci, sempre nel pilot - alla fine mancano la poesia e l’ispirazione.

E la questione linguistica è molto irritante. Il tema della incomunicabilità per il fatto di parlare idiomi diversi e il riuscire a superarla pur non avendo la competenza linguistica necessaria è stato un tema ricorrente anche in Grey’s Anatomy, e con la società multi-culturale americana è un tema che viene affrontato anche troppo poco, ma un conto è Seattle, dove aspettarsi che la gente parli inglese è anche ragionevole. In un Paese in cui la lingua principale è lo spagnolo mostrare irritazione per il fatto di non venire capiti è ignorante e immaginare che una dottoressa che tanto ha studiato e che decide di andare all’estero non abbia nemmeno il buon senso di chiedere a qualcuno come si dice in spagnolo “casa”, una parola che continua a ripetere alla paziente che vuol dimettere, è risibile e alla fine indisponente. La richiesta implicita sembra essere quella di chiederci di identificarci con la frustrazione di questi giovani, e non ci si riesce. Potrebbe essere l’occasione invece di affrontare il problema degli americani che si aspettano che gli altri parlino la loro lingua e che non fanno alcuno sforzo per imparare quella degli altri, ma non è questo che si sta facendo. Apprezzo che provino ad ambientare un telefilm in una parte del mondo diversa dagli Stati Uniti, cosa tradizionalmente molto rischiosa e di scarso successo, oltreoceano. Vorrei però che la ABC avesse deciso di ammortizzare i costi delle strutture impiantate alle Hawaii per girare Lost, con telefilm con una maggiore personalità del dimenticabile Off the Map.