lunedì 7 maggio 2018

PICCOLE DONNE: pars destruens (parte 1 di 2)


A qualche riflessione sulla nuova versione in tre puntate per il la BBC1 premetto il fatto che sono una grandissima appassionata della quadrilogia di Piccole donne (quindi anche “Piccole donne crescono”, “Piccoli uomini” e “I ragazzi di Jo”) che ho visto in numerose versioni, incluso un anime giapponese. Quella che mi è rimasta nel cuore, e che probabilmente nella memoria si sovrappone anche al libro, letto ormai moltissimi anni fa, è quella cinematografica del 1949 per la regia di Mervyn LeRoy dove Elizabeth Taylor interpreta Amy. 

Questo più recente adattamento (in Inghilterra è andato in onda il 26, 27 e 28 dicembre 2017) è uscito dalla penna di Heidi Thomas, di nuovo alle prese con una narrazione corale femminile dopo il suo apprezzato Call the Midwife. Siamo in Massachussetts (ricreata ai fini televisivi in Irlanda), nel periodo della guerra civile americana, e vediamo fiorire in giovani donne le quattro sorelle March, ovvero Meg (Willa Fitzgerald), Jo (Maya Hawke, la figlia di Ethan Hawke e Uma Thurman al suo debutto come attrice), Beth (Annes Elwy) ed Amy (Kathryn Newton, Big Little Lies), che vivono con la madre Marmee (Emily Watson), mentre il padre (Dylan Baker) è al fronte. Meg lavora come istitutrice e sogna sopra ogni cosa una famiglia, Jo aspira a diventare scrittrice e non ha interesse per le relazioni sentimentali, la timida Beth ama suonare il piano ma presto si ammala, Amy ha un grande talento artistico. La ricca zia Josephine (Angela Lansbury) critica il fratello che antepone gli ideali agli interessi economici, ma in fondo non è così aspra come sembra. Il vicino di casa, il signor Lawrence (Michael Gambon), accoglie con sè il nipote orfano Laurie (Jonah Hauer-King) che diventa presto un grande amico delle sorelle: innamorato per anni di Jo finirà per sposare Amy, mentre Meg andrà in sposa all’istitutore di lui, John Brooke (Julian Morris, Pretty Little Liars). Beth muore, Jo guadagna pubblicando racconti e si innamora di un professore di origine tedesca, il professor Bhaer (Mark Stanley), conosciuto in una breve parentesi a New York.   

Questa nuova incarnazione del romanzo di Louisa May Alcott mi ha convinta e appassionata, nonostante abbia diverse critiche da fare. Partendo da queste ultime, devo dire che l’obiezione maggiore che muovo al programma è di avere in qualche modo cancellato o comunque fortemente sminuito la povertà delle protagoniste. Fin dall’incipit, quando Jo si lamenta dell’assenza di doni a Natale, e Meg le risponde sottolineando quanto sia brutto essere poveri, si mette sotto i riflettori nel libro la difficoltà economica in cui si trovano le sorelle (di fatto anche edulcorata, pare, rispetto a quella che vivevano le sorelle Alcott su cui sono ricalcate). Il fatto di dover portare la loro colazione a persone ancor più povere di loro qui non è vissuta come un grossissimo sacrificio; le ragazze non si lamentano di avere vestiti vecchi e consunti non adeguati a una festa a cui devono andare, anzi sono tutte in tiro; quando si recano a un ballo, non soffrono delle frecciatine maligne delle coetanee che commentano con disprezzo il loro stato sociale. Meg viene guardata dall’alto in basso da una ragazza perché lavora per guadagnarsi da vivere, e le viene insinuato che la madre ha intenti da scalatrice sociale nel far frequentare alle ragazze Laurie, e quando il padre si ammala e la madre deve lasciarle per andare al fronte ad aiutarlo, non hanno così tanto denaro da affrontare una grande spesa improvvisa, e Joe deve perciò comunque vendere i propri capelli per racimolare la somma, ma sono comunque persone relativamente benestanti. Ho l’idea che rappresentarle povere avrebbe alienato una parte del pubblico contemporaneo, e mi dispiace molto, perché purtroppo la povertà è una realtà molto presente anche nella vita attuale, e trovare il modo di metterla in scena penso avrebbe fatto un gran bene. In fondo loro erano le ragazzine del loro tempo che non potevano permettersi i vestiti alla moda e che per questo subivano un po’ di bullismo da parte delle compagne.

La versione cinematografica del ‘94 con Winona Ryder nel ruolo di Jo aveva il pregio della consapevolezza che i romanzi nascevano come specchio autobiografico dell’autrice, e incorporavano perciò anche gli aspetti filosofici e culturali dibattuti nella famiglia di Louisa, il cui padre Amos Bronson era un esponente di spicco della filosofia trascendentalista. Qui, si rimane più superficiali. Non basta dire che Jo e il professor Bhaer si recano a un convegno di filosofia e citare Kant e Hegel per dare spessore filosofico alle interazioni. Ho apprezzato che, in modo inusuale nelle trasposizioni su video,  si sia scelto di chiudere con una sorta di flash-forward a quando ormai Jo e il suo innamorato sono sposati e hanno aperto la scuola che è il fulcro del terzo e quarto romanzo del ciclo, ma allo stesso tempo proprio per questo avrebbe avuto più senso dare un substrato intellettuale un po’ più pregnante alle conversazioni, facendo sì che ci fosse una base per intuire il senso di quanto vediamo poi. Una colonna portante della storia è la concezione morale della vita. La scrittrice cilena Marcella Serrano, scrivendo con “Arrivederci Piccole Donne” le vicende di quattro cugine ispirate alle protagoniste, ha sottolineato come questo classico della letteratura dell’infanzia sia ancora tanto importante per le donne perché le ha accompagnate e le accompagna tutt’ora nella loro formazione morale. È anche oggi un punto di riferimento. Lo penso anch’io, perché per me è stato così. Per questo mi rammarico che non si sia prestata più attenzione a questo aspetto, se non un po’ attraverso le conversazioni fra madre e figlia.   

Nella prima puntata ho trovato Jo un tantino maschilista. Nel libro e nelle versioni precedenti che ho visto, l’aspirante scrittrice si lamenta sempre del fatto di essere nata donna e non uomo per le opportunità mancate, però più come una sofferta discriminazione che rivendica una parità, con uno spirito femminista. Nell’originale le si rimprovera di essere un “maschiaccio”, qui mi pare diventi più una sua critica alla presunta “debolezza” e alla “femminilità” delle sorelle, che rimangono in qualche modo più contenute nel ruolo che la storia permette loro di avere. Forse è una mia distorsione della memoria vedere il personaggio come comunque fiero della propria femminilità, ma questa è la prima versione che mi ha fatto percepire che Jo si sentisse di meno, non una pari a cui è consentito di meno per ragioni arbitrarie. Per fortuna questo non c’è stato nelle puntate successive, e ho visto in lei l’eroina indipendente e femminista che ho imparato ad amare. 

Un altro elemento di rammarico per me è stato il personaggio del professor Bhaer. Intanto, in un casting che ho giudicato impeccabile, ho trovato la scelta dell’attore inadeguata, non perché gli mancasse talento, ma perché era totalmente inadatto. E fra lui e Jo non c’era alchimia, erano completamente “sbagliati”. Sono state fatte quelle scene fra loro perché bisognava, ma era evidente che non c’era investimento alcuno. Ho sempre adorato quel personaggio che appare così tardi e riesce a far capitolare Jo ai sentimenti, quando prima aveva sempre dichiarato “io non sposerò mai”, per usare la buffissima traduzione italiana utilizzata nel film di LeRoy. È naturale, sensato, organico, e molto romantico, con la scena sotto la pioggia e l’ombrello. Qui non mi è piaciuta, l’ho trovata non dico forzata, perché non lo era, ma priva del valore e dell’intensità che avrebbe dovuto avere, perché mancava una vera costruzione precedente. Il confronto sul valore della scrittura che Jo fa con il padre, avrebbe dovuto farle con lui, tanto per cominciare. È chiarissimo che qui non si è #TeamBhaer.

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giovedì 26 aprile 2018

HERE AND NOW: la nuova serie di Alan Ball


Alan Ball è tornato e, anche se la critica ha accolto in modo tiepido il suo nuovo “Here and now” (Qui e Ora) per la HBO, diventato “Una famiglia americana” in italiano (su Sky Atlantic), io l’ho trovato in forma smagliante e mi ha conquistato subito.

Siamo a Portland, in Oregon. Greg Boatwright (Tim Robbins) è un insegnante universitario di filosofia diventato celebre per un libro che porta il nome della serie. È in crisi di mezza età  e mette in dubbio i principi che lo hanno guidato finora davanti a una società che lo delude. Si sente spento interiormente e certa di trovar conforto fra le braccia di una prostituta. La moglie Audrey (Holly Hunter) è un’ex-terapeuta che lavora in un ambiente scolastico su progetti di empatia per insegnare agli studenti come comunicare meglio fra loro. Progressisti culturalmente e socialmente impegnati, hanno voluto una famiglia multirazziale e hanno tre figli adottivi, ormai adulti, e una figlia biologica adolescente. Ashley Collins (Jerrika Hinton), proveniente dalla Liberia, è sposata con una figlia e ha ideato e gestisce un sito web di acquisti di capi d’abbigliamento. Duc (Raymond Lee), adottato dal Vietnam quando aveva 5 anni, è un life coach di successo che ha grossi problemi irrisolti di sessualità: si mantiene casto perché tormentato dai ricordi della madre biologica che si prostituiva. Ramon (Daniel Zovatto), adottato da un orfanatrofio della Colombia, studia design dei videogiochi, la sua grande passione, e ha una relazione con un uomo che consoce ancora poco, Henry (Andy Bean). Comincia ad avere allucinazioni e a vedere ovunque il numero 11. La madre, che ha un fratello schizofrenico, pensa possa avere lo stesso problema e lo spinge a vedere uno psichiatra, il dottor Farid Shokrani (Peter Macdissi), di origine iraniana, con il quale Ramon stabilisce subito una connessione molto forte, legata anche al difficile passato dell’uomo. Kristen (Sosie Bacon), la sola figlia biologica, è al terzo anno di liceo e fa le sue prime scoperte di vita adulta. Stringe amicizia in particolare con il compagno di scuola Navid (Marwan Salama), figlio di Farid, che è gender-fluido e sebbene al mondo esterno si presenti come maschio, in casa preferisce vestirsi da donna.

Quello che viene messo in scena in questa serie è uno spaccato dell’America, con da un lato una realtà sempre più multietnica e portatrice di aspirazioni molto variegate, dall’altro un ambiente intollerante che si percepisce come una costante minaccia; c’è riflessione sul senso profondo della vita, sia come suo significato che su come andrebbe vissuta; c’è riflessione sull’empatia, in modo particolare come modo di superare le divisioni e su possibili alternative; c’è disillusione; c’è un meditazione sull’età e il diventare vecchi – il diverso stadio della vita in cui si trovano i vari personaggi si percepisce; c’è la percezione di come prospettive diverse facciano fare esperienza di realtà apparentemente identiche in modo diverso: penso a come vivono le due sorelle un loro arresto. Ashley, che è nera, deve sopportare il sospetto che la borsa che ha, solo perché costosa, sia rubata; quando la perquisiscono, la palpeggiano. Nei confronti di Kristen invece c’è molto rispetto. 
   
Le tematiche non emergono solo in via metaforica o obliqua, ma vengono anche verbalizzate in modo specifico. Penso che possa essere un valore aggiunto, e qui lo è sicuramente, perché certi argomenti si affrontano nella vita quotidiana anche a parole, e perché è bene sollevare certe discussioni esplicitamente e aggiungere “prospettive osservazionali” alla conversazione, con questo intendo la possibilità da parte dello spettatore di ascoltare alcune opinioni assistendo contemporaneamente agli scampoli di esperienza da cui nascono. Si ricompone la scollatura fra pensiero e vita, cosa che è coerente anche con il fatto che uno dei protagonisti è un docente universitario di filosofia, e si pongono alcune riflessioni anche sul ruolo di questa disciplina nella realtà contemporanea (la riunione di facoltà e la conversazione con la figlia in 1.05 ne sono un buon esempio).  

Mi ha molto colpito il modo in cui si è stati in grado di mettere in scena il contrasto fra i familiari e i professionisti di un paziente con problemi di natura psichiatrico-psicologica. Qui la madre, ex-terapeuta lei stessa e con un familiare che soffriva di schizofrenia, insiste per un intervento immediato farmacologico drastico. Lo psichiatra, di converso, pur prescrivendo poi anche dei farmaci, ci va più cauto e non vuole affibbiare troppo frettolosamente al proprio cliente una etichetta diagnostica. E c’è proprio uno scontro a parole con e fra i familiari, cosa veramente rarissima da vedere, con il professionista che dice di non essere un medico, ma un terapeuta. Che ci siano prospettive di questo tipo è rinfrescante. 

La serie prende una via onirico-sovrannaturale, metafisica e mistica, al di là anche di un certo realismo magico che poteva già caratterizzare “Six Feet Under”, e quella è di più difficile inquadramento, ma è un viaggio in cui ci si lascia trasportare fiduciosi della voce autoriale il cui obiettivo intende essere quello di sollevare quesiti lasciando che non vengano spiegati necessariamente, nella convinzione che i misteri nella vita siano molti, e non siamo in grado di coglierli intellettualmente tutti. “Stiamo vivendo una nuova realtà” dice la tagline dello show. Il tema centrale è davvero la crisi di identità personale e nazionale, e il senso di disorientamento che vi si accompagna. La serie sembra essa stessa un po’ confusa a momenti, su quello che vuole fare ed essere, e ha spazio per crescere e sviluppare i propri personaggi al di là dell’idea che ciascuno di loro rappresenta, ma in un certo senso sembra condividere la sorte dei personaggi che racconta.  

Mi auguro venga rinnovata per una seconda stagione. 

venerdì 13 aprile 2018

STAR TREK - DISCOVERY: la prima stagione



Premetto che ho un passato da Trekkie, anche se per me Star Trek è sempre stato la serie classica, non le altre incarnazioni: se la prima è stata quasi una religione, con le altre ho una familiarità solo superficiale. Star Trek: Discovery è stata in questa prospettiva un esperimento interessante. Credo che sia riuscito ad allargare la percezione dello spettatore di quello che questo mondo è e dovrebbe essere, in fondo in qualche caso (ma non in conclusione di stagione) anche tradendo lo spirito ultimo, ottimista e pacifico, che lo anima. Se con la “parodia” di The Orville, che ho stroncato ma poi in cuor mio rivalutato perché coglie in pieno la filosofia autentica della serie originaria, ho avuto una iniziale resistenza, qui ho avuto al contrario una reazione immediatamente positiva, pur sentendo che non si era pienamente in sintonia anche quando aderiva comunque al canone: ma va bene così. Ciascuno ha una propria idea di quello che Star Trek dovrebbe essere, ma sta bene essere trascinati fuori dalla propria “zona di conforto”. 

Ideata da Bryan Fuller (che ha lasciato presto, anche a causa dei suoi impegni con American Gods) e Alex Kurtzman per CBS All Access e disponibile sul mercato internazionale su Netflix, l’ultima nata del franchise è ambientata circa 10 anni prima della serie originaria e nel corso della prima stagione si esamina la guerra fra la Federazione e i Klingon, seguendo l’equipaggio della USS Discovery.   

Michael Burnham (Sonequa Martin-Green, The Walkind Dead, in un ruolo che incarna alla perfezione), la protagonista principale – Fuller ha il vezzo di chiamare con nomi maschili i suoi personaggi femminili, scelta che non posso dire mi faccia impazzire -,  è un ex-primo ufficiale della USS Shenzhou che, ammutinata contro il suo capitano, viene arruolata dal capitano Gabriel Lorca  (Jason Isaacs, Harry Potter) sulla sua nave. È una umana che, in seguito alla perdita dei genitori, è stata cresciuta secondo la cultura vulcaniana dal padre adottivo Sarek (James Frain, Orphan Black), cosa che la rende sorella adottiva di Spock. Si sente responsabile dello scoppio della guerra e si adopera perché vi abbia fine. I Kilingoniani, ispirati dal leader T’Kuvma, in un progetto in seguito portato avanti da Voq e L’Rell (Mary Chiefo), vogliono riunire il loro impero e sconfiggere la Federazione.  

Sulla Discovery lavora come primo ufficiale il primo kelpiano della flotta, Saru (Doug Jones) che ha sul retro della nuca dei gangli che si eccitano in caso di pericolo, caratteristica essenziale per lui che appartiene a una specie di predati: ammetto che è il mio preferito. Paul Stamets (Anthony Rapp) è l’ufficiale scientifico, esperto di astromicologia, che porta a scoprire un nuovo modo di navigazione che utilizza particele di micelio; è il primo personaggio apertamente gay nella storia di Star Trek e ha una storia con l’ufficiale medico Hugh  (Wilson Cruz). A diventare presto amica di Michael è Sylva Tilly (Mary Wiseman), una cadetta all’ultimo anno dell’accademia, mentre suo interesse sentimentale diventa il tenente Ash Tyler (Shazad Latif).

Con showrunner Grechen J Berg e Aaron Harberts, la narrazione, più dark di quanto siamo abituati e fortemente serializzata in un primo arco compatto, è molto ricca di azione e di colpi di sena, ben strutturati e calibrati, e da lasciare veramente con il fiato sospeso. Poi, in sintonia con la serialità più recente, si è poco sentimentali nei confronti della sorte dei protagonisti. Se serve meglio la narrazione la loro morte, non la si esclude. Il cast è forte. Di principio si sostengono gli ideali di diversità e giustizia e si mette in guardia contro l’arroganza culturale mostrando il rischio di fraintendimenti e la difficoltà a conoscersi e integrarsi, con una funzione di commento velato alla realtà contemporanea anche, e una riflessione sulle politiche di identità. Lungo la via ci si perde in più di un’occasione: vedere l’equipaggio assentire con soddisfazione per il fatto che si sono dimostrati bravi guerrieri in considerazione del fatto che sono in realtà scienziati fa alzare più di qualche sopracciglio: nella gioia di aver vinto, questo sarebbe contemporaneamente qualcosa di cui rammaricarsi; l’abbondante tempo trascorso in uno strip club / bordello nell’ultima puntata, le troppe scene con i klingon… Si chiude con un sottofinale un po’ troppo retorico e smaccato, che comunque ci sta, e una ultimissima scena è emozionante e toccante, con un homage che commuove. Nel complesso una serie che, almeno nella sua prima stagione, non è imperdibile, ma è godibile.   

mercoledì 4 aprile 2018

FOR THE PEOPLE: nulla di nuovo


La Corte Madre, ovvero la Corte Distrettuale Federale del distretto sud di New York, è il tribunale americano più importante insieme ala Corte Suprema: questo viene detto ai giovani avvocati che, per l’accusa e per la difesa, si prestano a fare giuramento in For the People, la serie della ABC ideata da Paul William Davies e prodotta da Shondaland (Grey’s Anatomy, Scandal, Le Regole del Delitto Perfetto) - e il marchio di fabbrica si vede.

Fra i difensori pubblici ci sono l’idealista Sandra (Britt Robertson, Life Unexpected, The Secret Circle, Girlboss); la sua migliore amica Allison (Jasmin Savoy Brown, The Leftovers); e Jay (Wesam Keesh), che viene da una famiglia di immigrati e aiuta occasionalmente i suoi nella tintoria di famiglia. Come pubblici ministeri, i loro avversari sono Kate (Susannah Flood), che ricorda una versione non umoristica di Paris Gellar in Gilmore Girls, iper-organizzata che dichiara di non aver dormito più di quattro ore per notte dalle elementari e di aver sempre pensato che in paragone a lei i suoi insegnanti fossero dei pigri; Seth (Ben Rappaport) che ha una storia d’amore con  Allison; e Leonard (Regé-Jean Page), figlio di una senatrice.

Tutti loro sono ambiziosi e determinati, fortemente focalizzati sulla carriera in un mondo dove non c‘è posto per i perdenti – la serie stessa trasmette quel genere di ansia. Cercano di essere degni del prestigioso impiego che ricoprono, e sentono fortemente la pressione nello svolgerlo, desiderosi anche di provarsi agli occhi dei loro capi e mentori, che non lesinano loro lezioni di vita: Jill Carlan (Hope Davis, Wayward Pines), per i difensori d’ufficio, che ha la passione per le metafore sul baseball; Roger Gunn (Ben Shenkman), dell’ufficio del procuratore, che non è un fan dell’umiltà nei suoi sottoposti e nella vita privata è amico di Jill; e Tina Krissman (Anna Devere Smith), rigorosa cancelliera. L’aspirazione per questi giovani è anche quella di fare la differenza e mettere la propria impronta sul mondo. E alle vite personali di mescolano brandelli di vite personali.

Dei casi, risolti nell’arco della singola puntata, autoconclusiva con rispetto ad essi, vengono enucleati gli elementi essenziali, e con velocità. Affrontano questioni spinose (terrorismo, traffico di esseri umani…) e lo fanno anche con delle soluzioni eleganti (penso alla difesa di un giovane nazista in 1.02). Si è lineari, puliti, essenziali, anche negli scambi umani. Con la sola eccezione forse di Jay, un po’ più caratterizzato, i personaggi in partenza sono sagome. Si è emozionalmente piatti, nella foga di raggiungere le tappe con cui le storie vengono snocciolate. Non si sfigura, ma non c’è nemmeno grande impatto. In grande misura, nulla di nuovo sotto il sole.       

lunedì 2 aprile 2018

Steven Bochco ci lascia a 74 anni: RIP

       Credit dell’immagine: Chris Pizzello/AP/Rex/Stutterstock – da Variety


Se ne va un gigante della TV, Steven Bochco. RIP.

Su di lui, si legga su Variety, sul New York Times, su The Hollywood Reporter.  
Per la sua autobiografia su Amazon si veda qui.  

lunedì 26 marzo 2018

LIFE SENTENCE: blanda e stucchevole


In Life Sentence, Stella Abbott (Lucy Hale, Pretty Little Liars) ha trascorso gli ultimi otto anni della propria vita a credere che sarebbe morta di cancro. Ha vissuto ogni momento come se fosse l’ultimo, trovando l’amore della sua vita a Parigi, e il supporto di tutta la sua famiglia. L’idea era che la morte le sarebbe sembrata solo la prossima grande avventura.

Quando la dottoressa Helena Chang (Anna Enger), l’oncologa che l’ha in cura, le comunica che inaspettatamente è guarita, accanto alla gioia di sapere che le rimangono presumibilmente ancora molti anni di vita si trova davanti la disillusione di scoprire che tutti quelli che la circondavano hanno mentito per proteggerla: il padre Paul (Dylan Walsh, Nip/Tuck) e la madre Ida (Gillian Vigman) si stanno separando, anche perché lei si è resa conto di essere bisessuale e ha un’amante nella vecchia amica di famiglia, Poppy (Claudia Rocaford). Il fratello maggiore, Aiden (Jayson Blair), ha usato la sua malattia per portarsi a letto le donne, e la sorella maggiore Elizabeth (Brooke Lyons), sposata con Diego (Carlos PenaVega), ha rinunciato ai suoi sogni professionali per prendersi cura della sorella. Perfino il marito Wes Charles (Elliot Knight), che ha sposato immediatamente aspettandosi di avere con lui al massimo sei o otto mesi, le ha tenuti nascosti i suoi gusti e desideri per accomodare quelli di lei, e non si conoscono davvero. Lei stessa deve capire che cosa fare della sua vita.

Questo dramedy adolescenzial-melodrammatico ideato da Erin Cardillo e Richard Keith per la CW è evidentemente favolistico in partenza. Poteva uscirne una cosa alla Hart of Dixie incontra Colpa delle Stelle, ma il problema è che è troppo infantile e stucchevole. Non è sgradevole, anzi cerca fin troppo di esser adorabile. L’attrice protagonista è una bambolina perfetta per  la parte ma, verrebbe da dire, troppo perfetta: suona falso. La realtà di una malattia terminale non è che poi semplicemente muori. Su di lei non sembrano esserci stati segni fisici.
E la realtà che di fatto la protagonista si trova a dover vivere ora non è facile – “life sentence” in fondo è “ergastolo” in inglese. Però il programma è troppo blando e generico. Non è disposto a bilanciare il lieve intento umoristico guardando in faccia allo stesso modo gli aspetti scomodi e difficili e complicati della situazione, le emozioni che si trascina dietro. Se avesse questo coraggio sarebbe stata una premessa affascinate da esplorare.

Si direbbe anche una critica ai numerosi film che romanticizzano le malattie mortali. Peccato solo che, giudicando dalla partenza, non riesca ad affrancarsene non riuscendo a scavare sotto la confettosa e innocua superficie.   

venerdì 16 marzo 2018

IMMATURI - LA SERIE: nostalgia, amicizia, amore


Nostalgia, amicizia e amore: sono state queste le colonne portanti di quella favola italiana a lieto fine che è stata la serie Immaturi (Canale5), diretta da Rolando Ravello,  degna rivisitazione per la TV dell’omonimo successo cinematografico di Paolo Genovese, qui sceneggiatore insieme a Paola Mammini e Giovanna Guidoni (a cui si aggiunge anche Marco Alessi fra i soggettisti).

Un gruppo di trenta-quarantenni riceve dal Ministero della Pubblica Istruzione una lettera che li informa che, poiché uno degli esaminatori alla loro maturità non aveva il titolo per rivestire quel ruolo, il loro esame è stato annullato e devono sostenerlo di nuovo. La gran parte di loro decide di ri-frequentare l’ultimo anno del liceo classico in modo da arrivare preparati. Lorenzo Romanini (Ricky Memphis), che rischierebbe di perdere la propria attività come agente immobiliare senza il diploma e che vive ancora con mamma Iole (Paola Tiziana Cruciani) e papà Maurizio (Maurizio Mattioli), ritrova da adulto la donna di cui era innamorato al liceo e che non ha spesso di amare, ricambiato, Luisa (Irene Ferri), single ma con una figlia piccola. Piero Mistico (Luca Bizzarri) è un conduttore radiofonico che finge di essere sposato con prole per poter scaricare con facilità la ragazza di turno con cui esce nel momento in cui si stanca, ma che finisce per innamorarsi della severa professoressa di filosofia, Claudia Russo (Ilaria Spada). Il suo migliore amico Virgilio Montesi (Paolo Kessisoglu), che ha una sua videoteca,  è in crisi con la moglie che lo ha tradito, e flirta con una sua giovanissima ora neo-compagna di classe. Francesca Coppetti (Nicole Grimaudo), apprezzata cuoca con un suo ristorante, nasconde a tutti di essere sesso-dipendente, ed è in seria difficoltà per  l’attrazione con Daniele di Giulio, (Daniele Liotti), uno dei professori, affetto da ludopatia.  Serena Serafini (Sabrina Impacciatore) è sposata a un uomo ricchissimo ed ha la puzza sotto il naso finché la scomparsa del consorte che la molla senza dirle nulla per fuggire ad accuse varie, le fa scoprire la vita da una nuova prospettiva, e l’amore con il conducente di autobus, Gigi Ferone (Paolo Calabresi), padre di Savino (Andrea Carpenzano) che è il fidanzato che lei inizialmente disapprova di sua figlia  Lucrezia (Carlotta Antonelli).

Ogni puntata si apre con Mistico che alla radio invita un ascoltatore a tornare indietro nel tempo con la memoria ad una data che vorrebbe rivivere; dell’anno scelto racconta gli eventi essenziali lanciando una canzone significativa di quel momento. E loro, da “immaturi”, quel viaggio possono farlo concretamente nell’opportunità unica di rivivere le esperienze di quell’età della vita che segna l’inizio dell’età adulta, con ancora illusioni sul futuro e sogni da realizzare. Si sa in partenza dove si arriverà, con una seconda possibilità per i protagonisti di ripercorrere le proprie scelte. È un’allegoria, in fondo, che rilette sui rimpianti che si hanno e sulle cose che si farebbero in modo diverso col senno di poi. E acutamente si vedono i personaggi allo stesso tempo adulti,  ma ancora inevitabilmente non per forza più saggi. Se non si è scoperto prima chi si è e che cosa si vuole dalla vita, è il momento di farlo ora.  

Una solida interpretazione da parte di tutti (con forse il solo Kessisoglu un po’ più debole degli altri, ma nemmeno troppo) e una sceneggiatura vagamente favolistica piena di humor e leggerezza, ma con un ritmo serrato, hanno confezionato una prima stagione che ha funzionato d’incanto. C’è molto di inverosimile e ci sono tanti stereotipi, ma poco importa. Tutti sono stati ben caratterizzati nelle loro motivazioni e sono risultati autenticamente simpatici a modo loro. Nel corso delle 8 puntate della prima stagione si è volentieri sospesa l’incredulità per farsi trasportare in una Roma dove si può sognare una seconda occasione. Ce l’avrà anche la serie, che è già stata confermata per una benvenuta seconda stagione. 

giovedì 8 marzo 2018

THE MARVELOUS MRS. MAISEL: una scoppiettante commedia



Ha meritatamente vinto il Goden Globe come miglior commedia nell’ultima edizione del premio la serie The Marvelous Mrs. Maisel (Amazon), la più recente creazione di Amy Sherman-Paladino (Gilmore Girls, Bunheads), che porta molti dei segni distintivi della sua sceneggiatura.

Siamo nel 1958, a Manhattan, New York. Miriam “Midge” Maisel (una sfolgorante Rachel Brosnahan, House of Cards) è una giovane casalinga di estrazione privilegiata, sposata con due figli, che sostiene le aspirazioni del marito Joel (Michael Zegen, Boardwalk Empire) a diventare un cabarettista. Quella con il talento per la stand-up comedy però è lei e, quando lui la tradisce con la sua segretaria, lei finisce per sfogarsi sul palco del Gaslight Cafè e per attirare l’attenzione di Susie (Alex Bornstein, Gilmore Girls) che lavora lì e che vuole lanciarne la carriera diventando la sua manager. Separata dal marito, Midge, che si confida con la migliore amica Imogene (Bailey De Young, Bunheads), torna a vivere con i suoi genitori, Rose (Marin Hinkle, Speechless) ed Abe  Weissman (Tony Shalhoub, Monk), dispiaciuti per i guai sentimentali della figlia.

Impeccabile dei costumi e nell’ambientazione, questo dramedy offre, come è tradizione per questa autrice, un dialogo veloce, spumeggiante e scoppiettante, ricco di riferimenti, anche se in questo caso forse più arcani del solito perché sono riferiti a un'epoca ormai distante, e più difficili da cogliere per l’italiano medio perché fortemente intrisi di cultura ebraica. Protagonista è una giovane donna volitiva, entusiasta, piena di energia, con un complicato rapporto con una madre molto più inserita in società e attenta a quello che la gente dice e pensa (come era per Gilmore Girls).

I punti di riferimento narrativi qui sono essenzialmente due, e si contendono la scena a pari merito. Uno è la quello della comicità, di come sia un’arte che richiede talento, ma anche tanto studio, sacrificio e dedizione per affinarsi, per capire che cosa funzioni e che cosa no, per comprendere il tipo di “persona” (se è necessaria) che funziona sul palco, per saper leggere il pubblico che si ha dinanzi, il contenuto che colpisce meglio nel segno e il ritmo da usare. Si incrocia anche Lenny Bruce (qui interpretato da Luke Kirby). L’umorismo è sottile e vivace e i due binari della comicità della serie e di quella della protagonista che cerca di essere tale si mantengono in un equilibrio ben riuscito.

Un’altra colonna portante è l’essere donne - le situazioni della vita quotidiana riverberano nelle routine comiche proposte - e in particolare la denuncia del fatto che alle donne è richiesto sempre di essere diverse da quelle che sono. La protagonista è iperconsapevole, per non dire ossessiva, del suo look (la vediamo prendesi quotidianamente le misure delle gambe: caviglia, polpaccio, coscia…), le mogli non si mostrano mai al naturale nemmeno davanti ai loro mariti (e vale tanto per Midge quanto per sua madre), nemmeno all’interno del proprio matrimonio possono essere se stesse. Sul palco, nel corso di un monologo scritto da Daniel Palladino in 1.07 (“Put that on your plate / Mettilo sul piatto”), criticando la famosa comica Sophie Lennon (Jane Lynch, Glee) che ha incontrato poco prima, si esprime in modo esplicito questa misoginia sociale

Perché le donne devono fingere di essere qualcosa che non sono? Perché dobbiamo fingere di essere stupide quando non siamo stupide? Perché dobbiamo fingere di essere inermi, quando non siamo inermi? Perché dobbiamo fingere di essere dispiaciute, quando non abbiamo nulla di cui dover essere dispiaciute? Perché dobbiamo fingere di non avere fame, quando abbiamo fame. 

C’è disillusione rispetto alle aspettative (nel matrimonio anche). E, con il personaggio di Susie, molto arrabbiata e un po’ “butch”, si presenta anche un modello alternativo di essere donna negli anni ’50, un modo che raramente viene messo sotto i riflettori. Le canzoni vintage fanno da perfetta colonna sonora e la serie cresce con il passare degli episodi. È benvenuta una confermata seconda stagione.

martedì 27 febbraio 2018

GOOD GILRS: tre anti-eroine dell'era del #MeToo


Dopo The Good Wife, The Good Fight, The Good Place e The Good Doctor arrivano le Good Girls, con una nuova serie targata NBC dalla penna di Jenna Bans (Grey’s Anatomy, Scandal) che mescola avventura e dramma familiare a humor nero.

Beth (Christina Hendricks, Mad Men) è una donna sposata con quattro figli che si rende conto che il marito Dean (Matthew Lillard) la tradisce e li sta mandando in rovina economica; sua sorella Annie (Mae Whitman, Parenthood), che lavora come cassiera in un supermercato dove il manager Boomer (David Hornsby) le fa delle avances non gradite,  ha un ex marito (Zach Gilford, Friday Night Lights) che intende ottenere la custodia esclusiva della figlia Sadie (Izzy Stannard), che è genderfluida; la loro amica Ruby (Retta, Parks and Recreation), sposata con un marito aspirante poliziotto (Reno Wilson), ha una figlia con seri problemi di reni, ma i medici non le prestano troppa attenzione perché non ha risorse finanziarie sufficienti per farla curare a dovere. Esasperate dalle proprie vite e in necessità di denaro, decidono di rapinare il negozio dove lavora Annie, puntando idealmente a una cifra di 30.000 dollari a testa, per risolvere così i loro problemi, lasciandosi poi ogni attività criminosa alle spalle. Il colpo va meglio dello sperato e si ritrovano con un mucchio di sodi, ma all’improvviso sono in un mare di guai, si verifica una complicazione dopo l’altra,  a partire da una banda di criminali professionisti, capitanati da Rio (Manny Montana), che usavano l’ipermercato per riciclare denaro sporco e che ora lo rivogliono indietro.

Le tre donne protagoniste, interpretate in modo superbo da tutte e tre le attrici, potenti nelle parti drammatiche quanto impeccabili nei momenti comici, sono anti-eroine dell’epoca del #MeToo. Degli abusi fisici e psicologici degli uomini ne hanno abbastanza – una scena per tutte nel pilot vede Beth difendere Annie da un tentato stupro in un momento che incapsula la costante minaccia della vita di Annie e fa esplodere tutta la rabbia di quella di Beth e le unisce in una “sorellanza” che non è solo biologica, ma spirituale. Sono tutte e tre mamme, in senso vero e in senso forte, orgogliose e contemporaneamente vincolate al proprio ruolo il cui ideale finiscono per sovvertire. Qui la loro esasperazione prima e il panico per conseguenze che non hanno anticipato fino in fondo poi, uniti alla scarsa considerazione sociale, scatenano il comportamento criminale, un po’ alla Breaking Bad e alla Weeds. Non si approverà il loro comportamento, ma non si può non simpatizzare per loro.  
 
Ambientata nei sobborghi di Detroit, la serie altalena fra momenti thriller e momenti comici, in un equilibrio delicato su cui per il momento riesce a mantenersi, ma con indecisioni, e non è chiaro per quanto riuscirà a sostenerlo. Quanto buona sarà la narrazione lo si capirà da quanto si riusciranno ad approfondire i personaggi, nella misura in cui intenzioni buone, azioni meno nobili e risultati terribili riusciranno a rivelare le protagoniste a se stesse e a noi. Il ritmo è buono però e con una recitazione di tale livello eventuali lacune di sceneggiatura vengono superate senza batter ciglio. 

giovedì 22 febbraio 2018

THE YOUNG POPE: onirico e destabilizzante


È vagamente onirico e fortemente destabilizzante The Young Pope, la serie scritta e diretta da Paolo Sorrentino (una co-produzione internazionale in Italia andata in onda su Sky Atlantic nel 2016).

Lenny Belardo (Jude Law) è il primo americano eletto al soglio pontificio con il nome di Pio XIII: è giovane, bello, prestante, apparentemente mite, ma megalomane; e non crede in Dio, pur pregandolo con un tono che è più di pretesa che altro. Lo hanno scelto conoscendolo poco, pensando di poterlo facilmente manipolare, e lui invece si rivela presto un ultraconservatore dittatoriale, che rifugge da qualunque attenzione pubblica (non vuole farsi fotografare né vedere), adotta una linea intransigente e viene percepito come una via di mezzo fra un pazzo esaltato e un santo. Suo mentore è il cardinale Michael Spencer (un James Cromwell che, come sempre, è in grado di incutere terrore come pochi), un religioso che aspirava lui stesso al ruolo di capo delle chiesa cattolica e che è adirato di non esserlo. A consigliare Lenny, e a istruirlo sui meccanismi dello Stato Vaticano c’è il potente cardinale Angelo Voiello (un convincente Silvio Orlando, che è gustoso sentire recitare in inglese), Segretario di Stato della Santa Sede. Non gli sfuggono le finezze diplomatiche per ottenere ciò che vuole, ma si rivela presto anche molto umano. Dopo un iniziale scontro di venute, Sofia Dubois (Cécile de France), responsabile del marketing e della comunicazione, riesce a cogliere lo spirito del neopapa. Ad ascoltarne le confessioni è don Tommaso (Marcello Romolo), mentre a monsignor Bernardo Gutierrez (Javier Cámara) viene affidato il compito di indagare sui casi di pedofilia.

Lenny, abbandonato in orfanatrofio da piccolo e cresciuto dalle suore, viene accompagnato nel suo nuovo ruolo dalla religiosa che da bimbo ha finito per diventare per lui una figura materna, suor Mary (Diane Keaton, nell’unico ruolo femminile davvero corposo della serie), e presto chiama a sé come prefetto per la Congregazione per il Clero anche il suo più caro amico d’infanzia, il cardinal Dussolier (Scott Shepherd). Pio XIII si interessa della sorte di Esther (Ludvine Sagnier)  moglie di una guardia svizzera, che agogna di diventare madre nonostante sia sterile. 

La serie, che si muove per evanescenti suggestioni, è spiazzante fin dall’esordio: dal pilot si esce con un’idea di papa che poi è diversa per come si costruisce nelle puntate successive, facendo fare al pubblico lo stesso percorso dei cardinali, ovvero lasciando l’impressione di aver riposto la propria fiducia sulla base di una prima impressione che si dimostra in seguito erronea. Si indaga innanzitutto la figura di un uomo potente, al vertice di una macchina che pende dalle sue labbra e che è a lui completamente sottomessa, e dell’esaltazione e dei rischi che questo genere di ruolo può provocare. Non ci si tira indietro intimoriti dai vizi di uomini (e donne) e dai peccati della chiesa, alcuni tali per le regole che la chiesa si autoimpone: menzogne, abuso di sostanze, relazioni sessuali di ogni genere e tipo, arroganza, violenze…

La solitudine è un elemento catalizzatore di molta della realtà dello schermo. Lenny è ossessionato dal fatto di essere stato abbandonato dai propri genitori, e il fatto di essere inarrivabile come pontefice amplifica questa sensazione. Gli altri personaggi (Voiello, Mary e Dussolier in particolare) pure riflettono molto sulle proprie scelte e quello che comporta in termini di rapporti umani. L’amore è anche un tema forte.

Il confine fra potere, macchinazioni politiche e ideali è sempre presente, così come la riflessione su quali valori la società attuale sia disposta ad accettare e che cosa susciti interesse, ed eliciti mistero e devozione. Speculazioni filosofiche impregnano tutto il tessuto narrativo ed è anche illuminante osservare la modalità in cui certe discussioni vengono portate avanti. Quando verso la fine della stagione Lenny e il cardinale Spencer trattano il tema dell’aborto, il loro ping-ping verbale è fatto di citazioni alle scritture e alla tradizione: le donne e le loro vite sono irrilevanti, inascoltate. 

La regia è un tutt’uno con la sceneggiatura, ne compartecipa lo spirito  - e se il primo ruolo è sempre e solo di Sorrentino, il secondo lo condivide con altri autori – con il personaggio principale molto spesso inquadrato solo dalla vita in su, a dare l’impressione che si innalzi e troneggi (con una tecnica che pare sia stata ereditata da Spike Lee).

La sigla vede il protagonista incedere diretto con sullo sfondo una serie di quadri della traduzione cattolica -  qui quali sono -  che “si animano” al passaggio della stella cometa che li attraversa. Si chiude con Pio XIII che si gira verso la telecamera facendo un occhiolino e, mentre lui esce di scena, quella “stella cadente” diventa un meteorite che colpisce una statua di Giovanni Paolo II (citazione di un’opera di Cattelan che questo mostra). È a un tempo simbolica (una camminata attraverso secoli di storia della chiesa) e irriverente.
 
Inevitabile, in un certo qual modo, la conclusione. È prevista una seconda stagione.  

lunedì 12 febbraio 2018

THE DEUCE: una serie sociologica sulla nascita dei porno


Ha un taglio che potremmo definire sociologico The Deuce, la nuova serie firmata da David Simon, già celebrato autore di quella che è considerata una delle opere più riuscite nella storia del piccolo schermo, The Wire, e George Pelecanos che con Simon ha collaborato sia a The Wire che a Treme. Qui siamo negli anni ’70, a New York, intorno a Times Squadre  -  il titolo è il nomignolo dato alla 42esima strada, fra la sesta e la ottava avenue – e si guarda alla prostituzione e allo sviluppo dell’industria pornografica in quagli anni – indicativamente il sottotitolo italiano è diventato “La via del porno” – e le connessioni con la vita notturna, la mala, l’attività della polizia, l’indifferenza o la connivenza e la corruzione delle istituzioni… Secondo la più classica cifra estetica di Simon ci sono molti personaggi, spesso nemmeno collegati fra loro, e solo alcuni, specie inizialmente, ricevono sufficiente attenzione da costruire una connessione autentica con lo spettatore, la trama è in apparenza quasi assente, ma un luogo e un mondo emergono con vigore attraverso l’accostamento e la sovrapposizione di molti elementi minuti, quotidiani, prima facie banali.
     
I fili delle vite di molte persone si intrecciano in trame e orditi che tessono un quadro via via più dettagliato: Vincent e Frankie Marino (James Franco), due fratelli gemelli, il primo abile gestore di un bar, il secondo un perdigiorno giocatore d’azzardo pieno di debiti con le persone sbagliate, vengono assoldati dal boss mafioso locale, Rudy Pipilo (Michael Rispoli) che propone loro di espandersi aprendo anche locali di massaggi, in realtà case chiuse, alla cui gestione di offre il cognato di Vincent, Bobby (Chris Bauer), con un passato di costruttore edile. Vincent, che è sposato con due figli, ma è di fatto separato dalla moglie, frequenta occasionalmente Abigail ‘Abby’ Parker (Margarita Levieva), che lascia gli studi universitari per lavorare da lui al bar, insieme anche a Paul Hendrickson (Chris Coy), giovane gay che aspira ad aprire un locale tutto suo per una clientela LGBT. Per la strada, Eileen ‘Candy’ Merrell (Maggie Gyllenhaal, The Honorable Woman, che è anche produttrice esecutiva), con un figlio cresciuto dalla madre che va a trovare di tanto in tanto, lavora per contro proprio e vede nell’emergente industria della pornografia una via di uscita a una professione che troppo facilmente la lascia piena di lividi. Comincia ad affiancare il regista Harvey Wasserman (David Krumholtz), che la prende in simpatia e la introduce progressivamente negli ingranaggi della produzione. La gran parte delle sue colleghe si affida a protettori più o meno brutali: C.C. (Gary Carr), che ha come sua prostituta fissa Ashley (Jamie Neumann), sempre meno interessata a lavorare, e recluta presto Lori (Emily Meade), una neoarrivata che proviene dal Minnesota; Larry Brown (Gbenga Akinnagbe), che ha nella sua scuderia Loretta, Barbara e Darlene (Dominique Fishback), che al paese dove viveva dice di aver sfondato come modella e che passa tutto il tempo libero a leggere e ha fra i suoi clienti un anziano che la paga per guardare vecchi film con lui; Rodney (Method Man); Reggie (Taruq Trotter)… La giornalista Sandra Washington (Natalie Paul) vorrebbe fare un pezzo sulla fitta rete che tiene in equilibrio il sistema, e per questo chiede l’aiuto dell’agente Chris Alston (Lawrence Gilliard jr) che è però più interessato ad avere una storia con lei che ad essere la sua fonte.

“Il santo vero mai non tradir”, per usare una citazione manzoniana, è la vocazione essenziale di Simon, e le rimane fedele anche in questo contesto. Il suo passato di reporter per il Baltimore Sun perspira in un approccio che punta quasi a dare apparentemente solo una registrazione dei fatti. La scrittura, sismografo di un eterno presente, è quasi trasparente, nasconde i propri artifici narrativi. Realizzato con la finezza di cui è capace, ha una forza sbalorditiva e penetrante. Uno dei rari momenti in cui questo non è riuscito è stato per me nell’episodio “My name is Ruby” (1.08) e questo perché, nel momento in cui si vede Candy salutare Ruby “Cosce Tuonanti” (Pernell Walker) da distante dall’interno di un taxi, senza essere sentita, si capisce troppo in anticipo quale sarà la sorte di quella passeggiatrice. L’evento finale è troppo telefonato. Quella vicenda però ha altri pregi. Non di meno, infatti, il personaggio di Ruby è mirabile sotto molti aspetti – per quello che dice del corpo femminile, del desiderio, della sessualità e dell’identità – e la sua fine mette il dito sull’indifferenza, come testimonia una successiva scena fra Vincent ed Abby che la riguarda, e sulla sopravvivenza.

Si evita qualunque sensazionalismo, e il tema pruriginoso non è mai utilizzato per titillare, ma piuttosto per indagare le narrative su sesso, potere, violenza, e su come si integrano. Il sesso è una delle merci della macchina economica. Richard Price, produttore esecutivo, la descrive come una serie storica il cui senso è quello di capire come quella realtà si sia metastatizzata e che cosa ci dica sul presente. Se essere lì da giovani a quell’epoca era come cercare di comprendere l’oceano guardandone la superficie standosene sulla spiaggia, quello che viene messo sullo schermo è l’equivalente di indossare una maschera da sub. E se da ventenne “non hai un cervello, hai un organo”, nella sua esperienza, ora “Vai giù fino alle placche tettoniche, l’economia, le interazioni. Pensi alla roba sessuale come a un business. Per cui guardando a un peep show, dove va a finire quel quarto di dollaro se lo segui? Lì c’è una ragazza, e sei intimidito ed eccitato. Ma chi è quella ragazza, dove va, che cosa trova a casa?” (Newsweek)
    
Nell’epoca dei Trump e degli Weinstein, la serie dà un’opportunità di riflettere sulla misoginia e lo sfruttamento, e sul rapporto anche fra il potere e la consapevolezza. Chi ha la seconda non necessariamente ha la prima, e non è in grado di operare i cambiamenti che vorrebbe solo sulla base di quella coscienza: lo si vede nella giornalista Sandra, il cui exposé sulla corruzione del sistema, è sgonfiato di valore nel momento in cui non può pubblicarlo come vorrebbe, lo si vede in Candy e nel rapporto con la pornografia, al contempo degradante ed empowering, in Darlene… E si portano alla luce i determinanti del potere, con scelte e compromessi.

La visione è artisticamente riuscita, anche perché è epidermicamente sgradevole nel trasmettere il senso di squallore e sudiciume, di violenza espressa o incombente, ma non per questo rinuncia ad andare al cuore dell’umanità dei personaggi, e riesce a dissezionare oggettificazione e mercificazione del corpo femminile senza diventare a sua volta oggettificante e mercificante, evitando quello che gli autori chiamano il “tableaux pornografico” (Fresh Air). Quello che si vede è triste e illuminante ma, a dispetto del sesso, di certo non è sexy. 

sabato 3 febbraio 2018

OUTLANDER: la terza stagione


In mezzo a una distesa di cadaveri giace il corpo agonizzante di Jamie (Sam Heughan), un altro corpo sopra di lui; il suo volto è mostrato in primissimo piano, cala la notte, scende la neve. Rivive in flashback i momenti della battaglia di Culloden che si è appena consumata, e in questa modalità scopriamo i momenti più intensi e vediamo lo scontro con il nemico di sempre: ci è rivelato ora così che il corpo sopra di lui è quello del capitano Jack Randall (Tobias Menzies). Appare un coniglio, l'immagine della donna amata... così inizia la terza stagione di Outlander, andata in onda in Italia a breve distanza dagli Stati Uniti, fra il settembre e il dicembre del 2017, appassionante, dopo la deludente seconda. Jamie vorrebbe morire, ma la sorte vuole diversamente.

Le vite dei due amanti protagonisti hanno ormai percorsi diversi. A Boston, anno 1948, Claire (Caitriona Balfe) è incinta, inizia una vita domestica con il ritrovato marito Frank (Tobias Menzies), subisce  i commenti maschilisti del capo di lui, per cui deve sforzarsi di mantenere l'autocontrollo, e quando lei deve partorire parlano con il marito e non con lei: sobrio ritratto di un’epoca che in questi aspetti non ci siamo lasciati alle spalle mai troppo in fretta. Anche se sono separati, lo spettatore non percepisce Jamie e Claire comunque come due realtà staccate perché si pensano, si amano al di là de tempo e dello spazio e questo trasmette una forte sensazione di unità.

“All Debts Paid – Io che sono prigioniero tuo” (3.03) è stata una puntata particolarmente riuscita. Vengono mostrate infatti in parallelo le vicende dei due. Di Claire, nel ventesimo secolo, si mostra un’intera vita con fugaci incursioni in momenti topici, come la sua laurea (in medicina – nella puntata precedente l’avevamo vista iscriversi all’università), i 16 anni di Brianna (Sophie Skelton), o ancora il diploma della figlia, la morte per incidente di Frank che le aveva appena chiesto il divorzio, intenzionato a tornare in Inghilterra… Di Jamie si guarda alla permanenza nella prigione di Ardsumuir, dove rivediamo in vita Murtagh (Duncan Lacroix) e dove approfondisce la conoscenza del giovane a capo della prigione, John William Grey (David Berry), a cui da ragazzino aveva risparmiato la vita e che si sente in debito d’onore con lui. In incontri successivi, il loro rapporto si fa di reciproco rispetto, quasi di amicizia e si fanno delle confidenze. Jamie  racconta di Claire, Grey rivela la sua omosessualità raccontando del lutto in battaglia di un uomo per lui speciale, qualcosa che deve tenere nascosto per vergogna. In un momento assolutamente perfetto, Grey appoggia la sua mano su quella di Jamie e la reazione verbale di quest’ultimo è molto forte: minaccia di ucciderlo se solo lo rifà. La scena è davvero impeccabile e quello che la rende tanto riuscita è che ha un senso doloroso molto forte per entrambi: per Grey è l’ennesimo scontro con la realtà che deve tenere nascosto il suo orientamento sessuale, per Jamie sappiamo che la reazione non è di omofobia, come Grey l’ha letta, ma è di reazione allo stupro subito dal comandante Randall. Questa è una di quelle situazioni in cui è solo la visione pregressa che riesce a dare profondità alle emozioni in gioco in quel momento. Nell’episodio successivo, “Of Lost Things – Delle cose perdute” (3.04), vediamo come fra Jamie e Grey si sia creata davvero una solida amicizia e le circostanze sono tali per cui quest’ultimo declina l’offerta di Jamie che questa volta, di sua iniziativa, gli offre il suo corpo.

Dopo Claire, è stato il turno di Jamie di mostrarsi in tappe essenziali della propria vita, con la nascita di un figlio. Ricattato a fare sesso dall’ereditiera Geneva (Hannah James), sposata con un nobiluomo, la mette incinta e lei lascia credere che il figlio sia del marito. Jamie però ha comunque la possibilità di stargli vicino nei primi anni della sua crescita.

Osserva bene il podcast di Pop Culture Happy Hour (qui) quando dice che una rarità sul piccolo schermo, che è frequente nella vita e che viene messo in scena in questa serie, è il fatto che l'avere un grande amore che per qualche ragione non si può soddisfare in uno specifico momento non preclude ai protagonisti di fare del sesso appagante con altre persone. Questo è stato evidente nella 3.04.  Pur essendo di fatto stato ricattato a copulare con lei, Jamie alla fine comprende le ragioni della giovane donna, e cerca con lei di essere molto tenero, rendendole la prima volta la migliore possibile.  La scena di sesso, che ha la regia di Brendan Maher, è stata veramente spettacolosa, e anche originale. Spesso, questo genere di  momenti non hanno inquadrature o mosse che in qualche modo meraviglino.  Qui si è riusciti a sorprendere, risultando delicati e spinti allo stesso momento, come quando Jamie le ha succhiato il capezzolo e leccato il seno. Davvero audace senza essere volgare.

Lo stesso si può dire della scena, o meglio le scene, dell’atteso re-incontro fra Jamie e Claire in “A. Malcolm” (3.06), con la regia di Norma Bailey. Il momento in cui si spogliano l’un l’altra sembra durare in eterno, ed è perfetto. Quando finalmente i due protagonisti si danno l’uno all’altra, in una stanza sopra a un bordello di tutti i luoghi, non lo fanno una volta sola, ma due e poi tre. Non è un mero segno che sono di nuovo insieme fisicamente (spiritualmente sono sempre stati connessi), ma è proprio il lento ri-appropriarsi l’uno del’altra e godere l’uno dell’altra; al di là dell’atto, è esplorazione di intimità. Questo è raro in TV al di fuori delle soap opera del daytime. La forza della serie sta proprio anche nel non vergognarsi della propria natura romantico-sentimentale, pur essendo anche parecchio altro.   

In quell’episodio ci si  godono anche gli anacronismi che Jamie incontra per mano di Claire (le fotografie, la zip, la menzione di una bicicletta), peccato per quella fine di una minaccia di stupro, l’ennesima che si poteva trattenere fino all’episodio successivo, almeno. Non credo che nessuno del pubblico, dopo quella puntata, continui a vedere solo perché teme della sorte dell’eroina in pericolo. Non ci si dimentica mai peraltro quanto qui i costumi siano ricercati – curati nella serie dalla moglie dell’ideatore Ronald D. Moore che, come è noto, ha sviluppato la serie su soggetto di Diana Gabaldon che ne ha scritto i libri.

La stagione, divisa idealmente in due parti (dalla 3.09 si cambia la sigla), si chiude dopo un lungo viaggio verso la Giamaica, insieme anche a Fergus (César Domboy) e Marsali (Lauren Lyle), con numerose avventurose vicende che vedono anche il ritorno del personaggio di Geillis Duncan (Lotte Veerbeck), fino al naufragio finale. Appagante.