sabato 29 ottobre 2016

THE A WORD: l'autismo in primo piano


Già rinnovata per una seconda stagione, The A Word (BBC1), ha come protagonisti un bimbo autistico – la A del titolo sta appunto per ‘autismo’ - e i suoi familiari ed è stata sviluppata e interamente scritta da Peter Bowkers sulla base di una serie israeliana, Yellow Peppers di Keren Margalit.

Joe Hughes (Max Vento) ha 5 anni. Trascorre gran parte del suo tempo con delle enormi cuffie sulle orecchie, ascoltando canzoni di cui conosce testi e autori, e cantandole a voce alta – la colonna sonora che accompagna le vicende ha una certa pregnanza. Lo fa per tagliare fuori il mondo. Lo incontriamo la prima volta che cammina solo per una solitaria via immersa nella rigogliosa, fredda, silenziosa natura del Lake District nel nord-ovest dell’Inghilterra, finché un camioncino non lo va a riprendere e lo porta a casa. Glielo vedremo fare più volte nel corso delle 6 puntate della prima stagione, così come lo vedremo chiudere ogni volta la porta del tutto prima di aprirla per entrare da qualche parte. È un bambino diverso. E i familiari inizialmente non vogliono accettarlo, ma alla fine devono ascoltare le parole degli esperti. È bravo, gentile e affettuoso, ma ha significativi problemi di comunicazione, ha difficoltà nel processo uditivo, non nel senso di non riuscire a sentire, ma nel dar senso a ciò che sente e del dare priorità a quel che sente, ha difficoltà nella risposta emozionale e comportamenti di auto-rassicurazione. In una parola è autistico, ho meglio è nello spettro dell’autismo perché, spiegano e ribadiscono, non si tratta di un singolo disturbo e non è una malattia, ma si tratta di una serie di comportamenti che creano difficoltà nella comunicazione sociale. La diagnosi è dura per tutta la famiglia.

Mamma Alison (Morven Christie) in particolare non vuole l’etichetta, perché teme che la comunità del paese dove vivono finisca per ridurre suo figlio solo a quello. Cerca di fare il meglio per il piccolo, a rischio di prevaricare gli altri, e trascurando anche la figlia sedicenne Rebecca (Molly Wright) i cui problemi diventano invisibili.  Dopo che la sua prima storia di sesso e amore finisce male riesce a confidarsi più che con i genitori con gli zii che sono venuti a vivere vicini, Eddie (Greg McHugh) che ora gestisce il birrificio di famiglia, fratello della madre, e sua moglie Nicola (Vinette Robinson), che cerca la riconciliazione dopo averlo tradito. Per papà Paul (Lee Ingleby) si tratta del primo figlio biologico e quasi vorrebbe farne un altro per avere una seconda possibilità, pur essendo oberato di lavoro per l’imminente apertura di un gastropub. Nonno Maurice (il sempre eccellente Christopher Eccleston, in un cast tutto molto solido) non sempre ha il miglior rapporto con i figli (Alison e Eddie), pur cercando a modo suo di essere presente per il nipotino e la famiglia. Non  ha ancora superato del tutto la morte della moglie e instaura una relazione con la sua insegnante di musica Louise (Pooky Quesnel), che ha un figlio con la sindrome di Down.

Si comincia a parlare parecchio di autismo in TV, e il modello più vicino che viene alla mente in questo caso è quello di Parenthood, visto anche il similare approccio attraverso la lente del nucleo familiare. Ci sono diversi parallelismi. Qui in The A Word spesso ci sono domande e non risposte. Quale è il tipo di scuola migliore? Meglio lasciare Joe in una scuola “normale”, educarlo in casa o mandarlo in una scuola specializzata a trattare casi simili al suo? (1.02) Che tipo di sentimenti prova il piccolo? Troppi, troppo pochi? Bisogna forzarlo a provarne, a mostrarli? (1.05) Che tipo di relazioni e di vita potrà avere? C’è un Joe più reale di quello che si vede dentro quello che traspare? Per un momento (1.04) Alison si illude che possa essere miracolosamente guarito – gli aneddoti e qualche articolo di letteratura parlano di situazioni in cui, in momenti di febbre alta, i soggetti hanno una diminuzione della loro sintomatologia, cosa che accade a lui. Quale delusione risvegliarsi la mattina successiva e vedere che quella gioia era un’illusione, frammenti di una realtà che devono rassegnarsi a non poter avere. Il grande tema di fondo, legato alla sua situazione specifica, ma anche a quella di tutti i familiari, è quello della comunicazione, di come sia difficoltosa e poco lineare. Messi intorno a un tavolo da una terapeuta, le modalità di ciascuno di gestire il relazionarsi reciproco, talvolta disfunzionale, emergono esplicitamente.

La serie non ha soluzioni facili. È stata criticata perché manca di umorismo, quando certi comportamenti degli autistici spesso provocano involontaria ilarità, e perché nell’essere accurata è stata troppo da manuale, quando il fatto che c’è uno spettro dell’autismo significa proprio che c’è una certa varietà di fenotipi comportamentali, diciamo così, che hanno la propria specifica individualità. (The Guardian) Rimane spazio per superare questi eventuali limiti in stagioni successive. Il prisma dei rapporti familiari e interpersonali in generale sono quello che brilla in questa serie. Spesso i momenti migliori si hanno non quando si guarda direttamente alla tematica scelta, ma quando si mostra la quotidianità che nulla ha a che vedere con quello, ma che ne viene condizionata.

giovedì 20 ottobre 2016

Un Natale BLACKISH: "Stuff - Roba" (2.10)


Devo ammettere che una delle riflessioni più originali e stimolanti della seconda stagione di Black-ish è stata quella sul Natale. Il senso della puntata natalizia standard è molto simile a quella del senso comune in cui si lamenta che si è perso lo spirito del Natale facendolo diventare una cosa puramente commerciale, e si finisce grosso modo con la stessa quantità di doni sotto l’albero solo conditi di maggiore consapevolezza del senso ultimo della festa. Qui sembra prima facie che accada la stessa cosa, ma il discorso messo in scena è molto più sottile. 

Gli adulti della famiglia si lamentano della scarsa considerazione che i ragazzi danno a qualunque cosa ce non sia avere moltissimi regali e per di più quelli che vogliono loro. Sono interessati solo alla roba – “Stuff” (2.10), roba, è proprio il titolo della puntata. Il nonno (Laurence Fishburne) propone un Natale alla vecchia maniera in cui ciascuno ha un solo regalo e la cena è pollo fritto ordinato pronto e mangiato dal cartone, proprio come quelli dell’infanzia di Dre (Anthony Anderson). Lui li detestava. Riceveva sempre e solo cetriolini sottaceto e difende il diritto e il piacere di avere tutti quei doni – sia per il lui stesso che adora vedere il volto soddisfatto dei suoi figli sia per loro che se li godono. Entrambi i genitori trovano triste che ci sia un solo oggetto sotto l’albero e, sebbene ufficialmente si segua il piano del nonno, alternativamente organizzano nella cabina-armadio un Natale segreto, più contenuto ma comunque “commerciale”. Il Natale alla vecchia maniera è un fallimento, nessuno ne coglie il senso, ma quando cercano di ripiegare sul Natale alla nuova maniera il risultato non è migliore. Non c’è soddisfazione nel volto dei giovani, irriconoscenti. Zoe (Yara Shahidi), ad esempio, si lamenta che ha ricevuto un iPhone 6 e non un iPhone 6S. come aveva espressamente richiesto. Come uscire dall’impasse?

È il confronto dalle due generazioni di adulti che porta alla soluzione. Nonno Earl confessa al il figlio che anche a lui non è mai piaciuta la celebrazione della festa così come la facevano, ma non poteva permettersi altro e si vergognava troppo per ammetterlo, così cercava di spacciarlo per il modo migliore. Regala al figlio i pattini che per anni da bambino questi gli aveva chiesto e i figli a turno promettono che cercheranno di apprezzare di più quello che ricevono.

La radicalità della puntata sta nella sua laicità. I Johnson, come molte persone, festeggiano il Natale come una sorta di ricorrenza civile volta a mostrare l’affetto fra le persone attraverso lo scambio di doni, più che non nel suo significato cristiano. Qui accade proprio questo, e senza scuse o finzioni. Questo fatto è enfatizzato da nonna Ruby (Jenifer Lewis). Lei è l’unica del gruppo che si può considerare effettivamente religiosa. E come festeggia il Natale? Dal momento che è il genetliaco di Gesù, prepara una torta di compleanno con tanto di candeline, e non solo canta “happy birthday” al  “Gesù nero”, come lo chiama lei, di fronte alla faccia perplessa e vagamente disdegnata della nuora Bow (Tracee Ellis Ross), ma intona anche  “perché è un bravo ragazzo” al suo Salvatore nella perplessità generale. Il distacco da qualunque idea di religiosità è piuttosto marcato.

Non a tutti piacerà, ma devo dire che io, che ne condivido lo spirito, lo apprezzo molto. Questo testo comunque si innesta su un discorso più ampio sulla religiosità che meriterebbe un approfondimento separato.

sabato 15 ottobre 2016

DIVORCE: intrappolati e infelici


Si identificherà anche come comedy, per quanto magari nera, ma non c’è praticamente nulla di umoristico in Divorce (HBO), la nuova serie ideata da Sharon Horgan (autrice dell’esilarante Catastrophe) che vede Sarah Jessica Parker (la ben nota Carrie di Sex and the City) nel ruolo di Frances, una newyorkerse matura con due figli adolescenti che decide in divorziare dal marito Robert (Thomas Haden Church).

Che finisca per comunicarglielo mentre stanno letteralmente portando via in barella dietro di lei il marito di un’amica, Diane (Molly Shannon), e che abbia l’illuminazione di non amare più il consorte, pur avendo di fatto da tempo una relazione extraconiugale con un professore (Jemaine Clement, Flight of the Conchords), nel momento in cui Diane spara al marito che non sopporta in occasione della festa per il proprio cinquantesimo compleanno, è il segno evidente da principio di quanto irrealistica si presenti la serie e di quanto viscidi si concepiscano i rapporti. Più e più volte in corso di via viene da esclamare “ma andiamo!”. Forse sono questi i momenti che si suppone debbano essere divertenti. E quando il marito le fa della avances di sesso orale in modo esplicito per farle cambiare idea, la messa in scena lascia perfino disgustati. Lei in realtà si ritira infastidita, e forse provocare questa sensazione era l’obbiettivo, ma invece di segnalare una perdita di intimità fisica, il risultato finale è solo quello di creare repulsione. Non aiuta il fatto che i due attori sembrino recitare con “tonalità” diverse e, forse sono io, dato che leggo ovunque opinioni diverse dalla mia, ma il suo stile distaccato e vagamente sarcastico non mi provoca ilarità, me lo fa sentire annoiato.

Non che sia tutta da buttare. Pepite preziose qui e lì ci sono anche – una di queste c’è quando un’amica le dice che divorziare in questo momento della vita significa solo essere soli da più vecchi, sebbene la conversazione che segue pure permetta ben poco di empatizzare con il personaggio della protagonista. Dal pilot si ha una distinta, precisa percezione di come ci si può trovare intrappolati in una vita che non si vuole in un’età in cui le prospettive altre non sono così brillanti, e in un momento in cui non si è forse ancora disperati, ma non si è felici. Che le cose possano essere diverse forse è solo un’illusione per andare avanti. Questo è il nucleo pregnante che magari si riuscirà a esplorare meglio in puntate successive, ma la narrativa è altrimenti priva di immaginazione quando si tratta di svelare che cosa si perda nel divorziare o che cosa di guadagni, umanamente parlando.

L’ambientazione è di grande atmosfera e il rapporto con i figli è promettente, ma nella pletora di proposte allettanti nel panorama televisivo autunnale, non vale la pena riservare a questa serie un secondo sguardo.  

lunedì 10 ottobre 2016

BLACK-ISH: una brillante seconda stagione


La celebrata “Hope” (2.16) è con ogni probabilità il vertice della eccellente seconda stagione di Black-ish. Papà Dre (Anthony Anderson), Mamma Rainbow (Tracee Ellis Ross), la primogenita Zoey (Yara Shahidi), il figlio Junior (Marcus Scribner), i gemelli Jack (Miles Brown) e Diane (Marsai Martin) e i nonni Pops (Laurence Fishburne)  e Ruby (Jenifer Lewis) sono in soggiorno davanti alla TV e gli adulti cercano di spiegare a figli e nipoti come mai ci sono molti giovani arrabbiati, come reazione all’ennesimo evento di violenza da parte di poliziotti nei confronti di neri disarmati. Punteggiano la puntata riferimenti a “Between the world and me” di Ta-Nehishi Coates, libro mostrato anche fisicamente. E si discute seriamente, fra le molte battute. È stata una volta in più quello che la sit-com è riuscita spesso ad essere sin dal suo esordio e in modo acuto in questo secondo round: attuale, pregnante, rilevante. Lo è in generale per la cultura americana e anche specificatamente in questo caso per la cultura Afro-Americana. I Johnson sono neri, e giustamente non vogliono fingere di non esserlo anche se si è nella cosiddetta società post-razziale.

In “The Word” (1.01) si è discusso su chi e quando può usare l’epiteto fortemente razzista e insultante che inizia con la lettera enne, in americano, quella che appunto chiamano “the n word”, dopo che il piccolo usa la parola in uno spettacolo scolastico; in “Rock, Paper, Scissors, Gun” (2.02) si è affrontato il tema dell’opportunità di tenere o meno un’arma in casa, per ragioni di sicurezza per la propria famiglia, con Dre favorevole, e Bow contraria; in “Keeping up with the Johnsons” si sono trattate questioni di danaro, tema in realtà trasversale in molte delle puntate – la serie ripudia la romanticizzazione facilona della povertà, visto come cosa sofferta in più occasioni (si pensi anche alla 2.10, su cui farò un post apposito, o a 2.22 o alla finale 2.24); in “Sink o Swim” (2.14), oltre a posizionarsi contro gli stereotipi razziali – dei neri come mangiatori d’anguria o incapaci di nuotare, attività che non avrebbero mai avuto il tempo di apprendere impegnati nel loro “tirocinio non pagato”, come scherzosamente è definita la schiavitù – ci si scaglia anche contro gli stereotipi di genere: i gemelli, seguendo le proprie inclinazioni, si scambiano le attività che la nonna e la comunità vuole loro imporre in base al loro sesso, lui cucina e lei si dà al salvataggio; Dre si definisce un femminista, ma in casa si discute ferocemente se sia opportuno o meno per la moglie prendere il cognome del marito in “Johnson & Johnson” (2.20), perché lui lo vorrebbe, ma lei no; il ruolo della paternità (2.04) e della maternità, le cure mediche e i check up dei neri (2.03), il ruolo del barbiere della comunità (2.08), l’amicizia (2.11), l’educazione dei figli (2.19)…

C’è una prospettiva multi-generazionale e spesso, con foto dei tempi andati, si dà proprio anche una prospettiva storica. Si riportano fatti veri, spesso con molta ironia. Le risate infatti sono abbondanti, anche per i commenti spesso esageratamente razzisti o comunque fuori dalla realtà nera dei colleghi di lavoro di Dre, esilarante coro greco sulle vicende, anche per le reiterate situazioni di assoluto egoismo della vendicativa e tremendissima piccola Diane, anche per le disfunzionali dinamiche suocera-nuora che elevano l’insulto a arte umoristica nella tradizione de I Jefferson,  anche infine per l’autentica capacità espressiva attoriale, e penso in particolare alla magnificamente plastica Ross, o Deon Cole, che interpreta Charlie, a cui basta un’espressione degli occhi per elicitare il riso. Non sono mancate nemmeno parodie su modalità narrative specifiche, come quella del documentario (in 2.17 con Diane che deve fare un documentario appunto su Jack che gioca a basket) o quella del promo elettorale (in 2.18, con Diane impegnata in una sua personalissima campagna).

Un tema emerso in modo esplicito è la pressione a essere un modello per una comunità nera in mancanza di una pluralità di opzioni. Gli Obama vengono menzionati in più di un’occasione  - e i Johnson si vestono anche come  la famiglia Obama per Halloween (2.06) – ma è alla TV che molto si guarda. Casi giudiziari recenti a parte, pure menzionati, ci si inchina dinanzi a “I Robinson” che sono stati un faro da cui si vuole raccogliere la staffetta – ne ripropongono perfino  la sigla, con loro stessi come protagonisti, in pochi secondi che mostrano una volta di più la loro eccellenza (2.21). In alcuni di questi dibattiti, davvero il metatesto si fa testo. Si menzionano comunque altri show “neri”, che siano i più recenti Scandal (2.03) ed Empire (2.08) o i più vintage Arnold o Good Times (2.24). È chiaramente uno show con una propria consapevole identità televisiva, conscio anche dell’eredità che reclama.

Nominata all’Emmy come miglior serie comica, Black-ish, non ha portato quest’anno a casa una statuetta che avrebbe facilmente meritato per una stagione che è stata vincente su tutta la linea: vibrante, appassionata, intelligente, amorevole, esilarante.

martedì 4 ottobre 2016

MACGYVER (2016): stantio


I cosiddetti MacGyverismi ammetto che lasciano sempre un po’ di stucco, ma il nuovo MacGyver, reboot dell’omonima serie TV degli anni ’80 con Richard Dean Anderson, delude moltissimo, anche se alla fine del pilot si spiega l’origine della Phoenix Foundation per cui l’eroe ha sempre lavorato e anche se si intravedono alcune delle sue caratteristiche distintive (la sua riluttanza all’uso delle armi da fuoco, ad esempio). Non è solo che non si rende giustizia all’iconico personaggio ideato da Lee David Zlotoff, è che il risultato è proprio pessimo.

Il giovane Angus MacGyver (Lucas Till), che qui non ha problemi a presentarsi col suo nome di battesimo, mentre nell’originale questo è un gran segreto per lungo tempo, dopo studi all’MTI, esperienza militare e trofei vari vinti in campo scientifico, lavora ora per il segretissimo Dipartimento di Servizi Esterni, al cui vertice c’è Patricia Thornton (Sandrine Holt, Hostages), che deve occuparsi dei soliti progetti di distruzione o conquista del mondo da parte di cattivi di turno. Accanto a lui troviamo Jack Dalton (George Eads, CSI), abile con le armi, e la sua ragazza Nikki (Tracy Spirikados, Revolution). Per la fine del pilot lei è uscita di scena (o forse no?) e al suo posto come analista informatica entra l’hacker fino ad allora tenuta in carcere di massima sicurezza, Riley Davis (Tristin Mays). Mac, come lo chiamano come nomignolo, ha poi un compagno di stanza (il cui ruolo sembra quello di consentire un momento leggero-comico), Wilt (Justin Hires).

Non si capisce davvero perché la CBS abbia deciso di riesumare quello che ha tutta l’aria di uno zombie, se non voleva impegnarsi a fare sul serio. Nessuno si aspetta cronaca vera, ma i personaggi sono così inverosimili da apparire risibili (un esempio per tutti Riley e la sua uscita dal carcere), quasi parodistici. Le vicende sono trite e il dialogo sono puramente di servizio – e nella prima puntata che esordisce con delle scene girate sul lago di Como non si ha avuto nemmeno l’accortezza di assumere degli under-five (così nel sistema americano vengono contrattualmente definiti quegli attori che sono più di mere comparse, ma hanno meno di 5 battute) che sapessero pronunciare l’italiano in modo decente.


Un primo pilot era stato cestinato perché non convinceva. Forse sarebbe stato meglio fare lo stesso con questo. Il cast è anche più che dignitoso, ma la qui non si dice nulla che non sia stato già detto, e meglio, in passato. Questa incarnazione sviluppata da Peter M. Lenkov  odora già di stantio. 

domenica 25 settembre 2016

THE NIGHT OF: tensiva, intensa, trascinante


È dedicata alla memoria di James Gandolfini The Night Of, eccellente limited series della HBO ideata da Steven Zaillian (Shindler’s List, che ha firmato la regia di 7 puntate su 8) e Richard Price (The Wire, che ha scritto o comunque co-scritto insieme al collega tutti gli episodi) sulla base della serie della BBC Criminal Justice. Il compianto attore qui doveva avere una parte (un diverso pilot era già stato girato) e risulta comunque tutt’ora fra i produttori esecutivi.
Un mite giovane studente universitario americano di origine pakistana, musulmano che vive con i genitori Salim e Safar (Peyman Moaadi e Joorna Jagannathan) nel Queens, Nasir “Naz” Khan (Riz Ahmed) una sera decide di prendere in prestito per andare a una festa il taxi che il padre usa per lavoro. Scambiandolo per un effettivo taxista, sale sul veicolo una ragazza, Andrea (Sofia Black D’Elia), e dopo aver conversato finiscono a casa di lei. Su istigazione della ragazza lui consuma delle droghe e fanno sesso. La mattina dopo lui si sveglia in una stanza diversa dalla camera da letto, ricordando molto poco. Vi si reca per salutare la giovane, ma la ritrova riversa sul letto morta, in un bagno di sangue, accoltellata numerose volte. Preso dal panico, scappa, portandosi dietro l’arma del delitto. Al suo arresto, quasi fortuito, lo interroga il detective Dennis Box (Bill Camp), ormai prossimo alla pensione. L’accusa è portata avanti dall’assistente procuratrice distrettuale Helen (Jeannie Berlin). Si prende a cuore il suo caso e si offre a difenderlo l’avvocato John Stone - John Turturro, nel ruolo che doveva appunto essere dell’amico scomparso Gandolfini, che doveva essere inizialmente sostituito da Robert DeNiro prima che questi vi dovesse rinunciare per altri impegni (SFGate) -, un uomo divorziato e solo,  un legale che si occupa di casi minori e che gode di scarsa stima presso i colleghi, e una persona che ha terribili problemi di dermatite, che colpisce prevalentemente i piedi, cosa che lo costringe ad andare in giro con i sandali, a peregrinare fra vari tentativi di soluzione e a frequentare gruppi di auto-aiuto. A prendere la direzione del suo caso per la difesa sarà poi un’avvocatessa con poca esperienza, Chandra (Amara Karan), scelta per la sua etnicità. In carcere Naz accetta presto la protezione di un potente criminale ex-campione di boxe, Freddy (Michael Kenneth Williams).
Sicuramente una delle migliori dell’anno, priva di cadute di stile o di tono, The Night Of è una criminal story con attenzione sì all’aspetto procedurale, ma non come sinonimo di “formulaico”, come troppo spesso ormai viene inteso quel termine; si avvicina filosoficamente, come ha notato il New York Times, al podcast Serial, a Making a Murderer di Netflix, alle recenti serie su OJ Simpson. Lenta, tensiva e meticolosa nella costruzione dei dettagli,  è prevalentemente un character study, uno studio su come il sistema carcerario può trasformare una brava persona in un criminale, su come gli ingranaggi della giustizia, anche quando tutti o quasi cercano di agire al meglio delle proprie possibilità, possano portare a risultati men che perfetti, e su come anche la miglior intenzionata delle persone agli occhi del mondo possa apparire come un perdente. Non sfugge a nessuno come i tormenti cutanei dell’avvocato siano una metafora di quello a cui si assiste. Secondini e carcerati vengono spesso dallo stesso ambiente, ci sono scambi di favori reciproci. Tutti i coinvolti sono esseri umani – si tiene nel rapporto il fatto che un poliziotto novellino ha vomitato sulla scena del crimine (1.03), perché è umano – e ciascuno di  loro ha la propria legittima prospettiva – una conferenza stampa in seguito all’arresto (1.03) viene proprio vista da diverse prospettive: i carcerati, i familiari, tutti i coinvolti nel perseguire o difendere l’accusato.
La realtà ritratta dietro le sbarre è brutale, severa, de-umanizzante. Un ragazzo viene preso a calci da un atro perché sta male (1.02). I secondini nel loro discorso di apertura avvisano che se qualcuno oserà alzare le mani su di loro, avranno le ossa spaccate e saranno mandati in ospedale. È un quotidiano sopravvivere, fra angherie, violenze e alleanze. A volte aiuta la droga. Ogni sguardo può fare la differenza. E gli sguardi qui contano, anche fuori dal carcere, siano quelli di Naz con Chandra, o di Naz con la madre – lui rimane ferito nel rendersi conto che lei ha dubbi su di lui e sulla sua innocenza. Noi stessi ne abbiamo. La serie lascia intendere che è innocente, anche perché lui si crede tale, ma in corso di via c’è sempre un minimo di sospetto che possa poi di fatto essere anche colpevole, dato che sotto l’effetto di droghe non ricorda tutto ciò che è avvenuto. In fondo la soluzione è irrilevante. Conta di più quello che l’evento ha provocato, nella vita di Naz, ma anche di chi lo circonda. La madre è costretta ad andare a pulire i bagni per racimolare del denaro. Il padre si trova nei guai con i co-proprietari del taxi che guida per lavoro, dal momento che il veicolo in questione fa parte delle prove e non può essere utilizzato. Vorrebbero che denunciasse il suo stesso figlio per furto. “Guarda che cosa ha fatto a tutti noi” gli dicono. È solo imputato, ma già solo questo si ripercuote sull’intera comunità, in una società già islamofobica.
Le due vere stelle, sottili quanto brillanti, sono Ahmed che interpreta Naz, e Turturro nel ruolo di Stone. Il primo è eccellente, anche attraverso dialoghi molto succinti, a mostrare la trasformazione da innocente (in tutti i sensi) ragazzo – un “unicorno” lo definisce Freddy (1.08) – a uomo indurito e disilluso, costretto per sopravvivere a comportamenti che mai avrebbe messo diversamente in atto e nel mostrare la crescente consapevolezza di quello che l’ambiente che lo circonda gli richiede. Il secondo è un uomo sconfitto e solo che sa di essere meglio di quanto gli altri non credano e che cerca di aiutare il suo prossimo (che siano i suoi assistiti, la collega o un gatto a cui vuole evitare la morte in quanto randagio, e di cui cerca di prendersi cura pur essendo allergico). È un personaggio tenero e tragico, agrodolce, che potrebbe rischiare di risultare patetico se non fosse per l’interpretazione impeccabile di Turturro, che riesce a trasmettere nella trasandatezza del suo personaggio tutta la stanchezza per le ingiustizie quotidiane. Semplicemente spettacoloso. Sostenute puntata dopo puntata queste interpretazioni realizzano un ricamo sottile e prezioso di cicatrici di vita.
Il tono è cupo, totalmente privo di glamour, ma un’ineccepibile illuminazione fa sì che ci sia molto nitore. Nell’insegnargli a sopravvivere, il grande tema di fondo, Freddy suggerisce a Naz alcuni titoli di narrativa: L’arte della Guerra di Sun Tsu (anche titolo della puntata 1.04) Il richiamo della foresta di London (titolo scelto anche per la season finale) e L’altra faccia di mezzanotte di Sidney Sheldon. L’attenzione alla narrativa, e a come le vicende vengono raccontate, si nota in filigrana nella costruzione di accusa e difesa, dove in una certa misura la verità è irrilevante, viene ribadito al di qua e al di là delle sbarre, perché non lo aiuta. Conta la storia che si racconta. E la storia, o meglio le storie in competizione che costituiscono “The Night Of” - “La notte in questione”, potremmo tradurre, parole che Stone pronuncia nella sua arringa finale riferendosi ovviamente alla notte che ha portato Naz in tribunale - sono squisitamente costruite. Una visione trascinante.

lunedì 19 settembre 2016

EMMY AWARDS 2016: i vincitori


Sono stati consegnati ieri gli Emmy del 2016, in una cerimonia presentata da Jimmy Kimmel. Sotto, l’elenco dei vincitori.

Miglior serie drammatica

Game of Thrones

Miglior attore protagonista - drama

Rami Malek (Mr. Robot)

Miglior attrice protagonista - drama

Tatiana Maslany (Orphan Black)

Miglior attore non protagonista - drama

Ben Mendelsohn (Bloodline)

Miglior attrice non protagonista - drama

Maggie Smith (Downton Abbey)

Miglior sceneggiatura – drama

David Fellowes e D.B. Weiss, Game of Thrones (Battle Of The Bastards)

Miglior regia – drama

Miguel Sapochnik, Game of Thrones (Battle of the Bastards)



Miglior serie comica

Veep

Miglior attore protagonista – comedy

Jeffrey Tambor (Transparent)

Miglior attrice protagonista - comedy 

Julia Louis-Dreyfus (Veep)

Miglior attore non protagonista - comedy 

Louie Anderson (Baskets)

Miglior attrice non protagonista - comedy

Kate McKinnon (Saturday Night Live)

Miglior sceneggiatura – comedy

Aziz Ansari e Alan Yang, Master of None (Parents)

Miglior regia – comedy

Jill Soloway, Transparent (Man on the Land)



Miglior Limited Series

The People v. O.J. Simpson

Miglior attore in una Limited Series o Film TV

Courtney B. Vance, The People v. O.J. Simpson

Miglior attrice in una Limited Series o Film TV

Sarah Paulson, The People v. O.J. Simpson

Miglior attore non protagonista in una Limited Series o Film TV

Sterling K. Brown, The People v. O.J. Simpson

Miglior attrice non protagonista in una Limited Series o Film TV

Regina King, American Crime

Miglior sceneggiatura in una Limited Series, Film o Speciale Drammatico

D.V. DeVincentis, The People v. O.J. Simpson (Marcia, Marcia, Marcia)

Miglior regia in una Limited Series, Film o Speciale Drammatico

Susanne Bier, The Night Manager

Miglior serie di varietà sketch

Key and Peele

Miglior serie di  varietà talk

Last Week Tonight with John Oliver

Miglior Regia per un  varietà

Grease: Live

Miglior sceneggiatura per uno special di varietà

Patton Oswalt: Talking for Clappping

Miglior Reality – competizione

The Voice

Miglior Film TV 

Sherlock: The Abominable Bride





domenica 11 settembre 2016

THE PATH: la religione dei Meyeristi


È la religione il fulcro dell’interesse di The Path (sul servizio Hulu), che sbircia dietro le porte chiuse di una setta, o  meglio un “movimento”, come ribadiscono loro ad ogni piè sospinto. L’ideatrice Jessica Goldberg  giura che non intende parlare di Scientology in forma mascherata, e c’è da crederle ma solo fino a un certo punto. Certi aspetti richiamano in modo diretto il controverso culto, come l’utilizzo di aggeggi elettronici alla maniera degli e-meter, gli incontri simil-auditing, la gerarchia su più livelli, lo shunning, ovvero il rigetto sociale totale dal contatto con in membri della  comunità religiosa nel momento in cui ne si rinnegano i principi, anche se è vero che che quest’ultima non è una pratica solo di Scientology (basti pensare agli Amish, che pure la praticano). Il suo punto è proprio questo: la mitologia di ciascuna religione sarà anche diversa, ma per la maggior parte hanno elementi in comune: rituali da svolgere, specie in occasione di momenti significativi della vita; aspirazioni comuni; linguaggio e immaginario condiviso;  sistemi per punire chi commette “infrazioni”; concezioni definite su quello che accadrà dopo la morte; gestione del rapporto con coloro che non credono e con i materiali che non seguono i propri principi. Questo a lei interessa indagare e, vissuta a contatto con molte religioni differenti, ha voluto idearne una sua, anche per far fronte a una sua personale profonda crisi spirituale.

I Meyeristi hanno come proprio libro sacro “La Scala”, ovvero le rivelazioni che sta facendo a tappe il loro guru, Stephen Meyer (Keir Duella), che immagina una metaforica scala verso l’illuminazione, un percorso in cui salire superando dolori e negatività verso l’autoconsapevolezza nella Luce. All’inizio della serie tutti lo credono in Perù, intento a scrivere gli ultimi “scalini” della scala, in realtà è in coma. I Meyeristi prendono i voti al compimento del sedicesimo anno di età. I loro leader sono i “Guardiani della Luce”. Il simbolo è un occhio circondato di raggi. La loro “croce” sono delle  pietre, che in qualche caso, quando intraprendono “il cammino” (1.08), mettono in uno zaino e lasciano ad ogni tappa spiritualmente significativa che fanno lungo la via. Il loro modo di confessare le trasgressioni è di “unburden”, ovvero liberarsi di un fardello, “alleggerirsi”, direi, in mancanza al momento dl mio scrivere di una traduzione ufficiale italiana. Sono divisi in una rigida gerarchia.  Quelli che non credono sono per loro gli “ignoranti sistemiti” (IS) e coloro che voltano le spalle alla propria religione i “negatori”. Si aspettano un’apocalisse causata dall’uomo. Dopo la morte si riuniranno insieme nel “Giardino” che hanno costruito insieme sulla terra. La sceneggiatura spiega questi principi in modo naturale attraverso le dinamiche che si creano fra i  personaggi.

Siamo in una piccola comunità del nord-est degli Stati Uniti. Eddie (Aaron Paul, Breaking Bad e Big Love, per citare una serie di cui ha fatto parte che pure aveva la religiosità come tema forte) è un convertito con un passato difficoltoso che ora è sposato con una delle leader del movimento in cui è sempre cresciuta, Sarah (Michelle Monaghan), di cui è di fatto innamorato anche il numero due dei Meyeristi (secondo solo a Meyer stesso), Cal (Hugh Dancy, Hannibal), ex-alcolista che ha trovato redenzione nella fede e che ha un altissimo R10 nella gerarchia. Tutti e tre sono consapevoli del difficile, delicato equilibrio che c’è fra loro, dovuto al profondo legame di Sarah con Cal. Sarah, una R8,  è la più ardente dei tre nella fede. Eddie, un R6,  è in un momento di grande crisi spirituale, perché ritiene, dopo l’estasi  e le visioni causate delle droghe che gli sono state date in Perù, che la Luce in realtà sia una bufala, e il sospetto accresce quando lo contatta la moglie di un ex-fedele, Alison  Kemp (Sarah Jones), che si è tolto la vita e che lei non crede possa averlo fatto se non spinto. Fino a poco prima della finale, Eddie arriva alla conclusione che per lui sua moglie e i suoi figli, la sua famiglia, sono la sua verità, mentre Sarah vuole disperatamente che anche lui creda che la loro importanza sta anche nel fatto che sono parte di qualcosa di più grande di loro stessi (1.09). Lei vede codardia nelle persone che mancano di convinzione, lui ritiene naturale e salutare il dubbio, l’interrogarsi se si stia operando secondo i propri ideali. Cal, estremamente carismatico, da un lato vive la pressione della politica che si accompagna all’essere il leader del gruppo, dall’altra deve resistere al forte richiamo autodistruttivo del suo passato. A vedere chiaro questo suo aspetto è la giovane Mary Cox (Emma Greenwell) che lui ha salvato dalle grinfie del padre che la costringeva a prostituirsi da quando era ragazzina e per cui lei ha una attrazione molto forte. Eddie e Sarah hanno due figli, una bimba e un giovanotto, Hawk (Kyle Allen) per cui sta arrivando il momento in cui deve lasciare la scuola per prendere i voti, cosa che scalpita per fare finché non si innamora di una compagna di scuola, Ashley (Amy Forsyth) che non ne condivide la fede. Intanto un agente dell’FBI, Abe Gaines (Rockmond Dunbar, The Mentalist), la cui figlia appena nata ha problemi di cuore potenzialmente fatali, cerca di infiltrarsi nel movimento perché sospetta che le loro attività non siamo legali.

La serie, che ha fra i produttori esecutivi Jason Katims (Friday Night Lights, Parenthood), ha la sua forza nell’analisi psicologica dei personaggi, recitati in modo spettacoloso da tutti gli interpreti principali, ma anche nell’analisi sociologica del fenomeno della fede, sia negli aspetti positivi che negativi, non divisi in modo manicheo, ma integrati l’uno all’altro. Tutti i personaggi quanto meno si sforzano di essere onesti e di vivere in modo autentico la propria fede facendo una differenza positiva nel  mondo. Tutti loro hanno aspettative e interessi personali che li mettono in conflitto con quanto la religione chiede loro. L’amore, il matrimonio, l’adolescenza, l’identità, l’indottrinamento, il rapporto fra sè e struttura sociale, l’ambizione, il potere, il dolore, la natura umana… sono tutti aspetti che vengono indagati.  Non è tutto bene, come non è tutto male. Una serie notevole, che a dispetto di un tono in fondo quasi sommesso, scava con molta forza e acquista vigore con il procedere delle puntate.  


sabato 3 settembre 2016

SUPERGIRL: una "clintoniana" prima stagione


Una storia orizzontale continuata su microarchi che fluidamente si collegano l’uno all’altro mixata con storie verticali autoconclusive per il singolo episodio con il kick finale di un cliffhanger che concatena un episodio all’altro ha costruito la struttura della prima stagione di Supergirl. A esclusione di qualche guizzo, la narrativa è stata didascalica, quando non proprio pedestre, nella maggior parte degli episodi, ma non peggiore di tanta fiction seriale degli anni Ottanta e nella sua essenza anche gradevole nonostante l’imbarazzante livello di alcune scene. Non è mancato un certo intento pedagogico.

Fedele agli intenti pilot, le puntate hanno regalato molti momenti di benvenuto, necessario “femminismo” in pillole. Viene quasi da commuoversi a sapere che le bambine e i bambini di oggi possono ricevere questi messaggi positivi e propositivi guardando una propria eroina sul piccolo schermo. E il lavoro e l’impegno per l’uguaglianza lavora su più fronti. In modo esplicito e no le donne sono sempre in primo piano e, aspetto fondamentale, non solo perché la protagonista è una donna, ma perché i personaggi secondari sono ugualmente donne e non di default uomini, come troppo spesso accade (si pensi a questo proposito alla critica che viene mossa ai film Disney con le varie principesse di turno, lasciate sole a rappresentare il proprio genere). Ci sono vari tipi di donne, non sono tutte intercambiabili o fatte con lo stampino. Alle donne è permesso di coprire tutto lo spettro, nemiche (Astra, Siobhan/Silver Banshee, Indigo…) e amiche (Alura, Cat, Lucy), di ricoprire ruoli in cui solitamente siamo più abituati a vedere uomini (Alex, Lucy). Se famiglia (biologica e acquisita) e amicizia (James, Winn) sono importanti, c’è molto anche il senso della sorellanza specificatamente e il legame fra le effettive sorella Kara (Melissa Benoist) e Alex (Chyler Leigh) è uno delle forze maggiori all’interno dello show.

Ma si oltre, perfino in piccoli dettagli. In un riuscito cross-over che ipotizza mondi paralleli (1.18), il supereroe Flash (Grant Gustin) dell’omonima serie, aiuta l’eroina proveniente da Krypton in uno scontro con altre due donne. Si augura che si possa risolvere il problema “da donne”. Venendo la frase da parte di un uomo, alla stessa Supergirl suona strano: siamo abituati a sentire frasi come “affrontare una situazione da uomini”. Lui difende la sua scelta terminologica facendo notare che sono tre donne e un uomo, di fatto. Fa riflettere: le parole contano. Quando (1.19) Maxwell Lord (Peter Facinelli), ora nemico ora amico dei “buoni” fa una osservazione dicendo “se ci fosse un Dio…”, il pronome personale che segue è femminile “she”, lasciando intendere di concepire Dio al femminile.

E ancora, nella season finale (1.20) il capo della DEO Hank Henshaw (David Harewood), che era stato trattato come un criminale dopo che si era scoperto essere un marziano mutaforma unico sopravvissuto del suo pianeta, J’onn J’onzz, viene reintegrato nel suo ruolo. Questo, gli dice l’ufficiale Lane, dopo averne parlato con “the President” e che cosa segue a quel “presidente”? Il pronome personale “she”. Che qui non si stia pensando solo a un femminile generico, ma a la possibile futura presidentessa degli Stati Uniti Hillary Clinton? Non è azzardato pensarlo, anche perché bisogna ammettere che in tutto il corso della stagione risuonano parole chiave del partito democratico americano. Se nella prima parte della stagione l’eroina d’acciaio deve vedersela con la zia Astra (Laura Benanti), ecologista che, pur di salvare il pianeta Krypton poi distrutto e ora la Terra, si macchia di gravi crimini, in seguito alla sua scomparsa il nemico è il marito della zia, Non (Chris Vance). Grazie alla tecnologia Myriad, questi riesce a piegare alla propria volontà tutti gli abitanti di National City (tranne Cat e Maxwell).  L’eroina riesce a liberarli dal giogo del controllo della mente grazie ad un accorato discorso che elicita speranza. “Hope” è la parola che ricorre, associata al logo di Supergirl. Non è un mistero per nessuno che quella fosse la parola chiave della campagna elettorale di Obama. E non sfugge che in più puntate (in 1.19, ma non solo) ricorra il concetto quando proprio non la dicitura “Stronger Together”, ovvero “più forti insieme”, che è uno dei motti più significativi della campagna elettorale della Clinton in queste elezioni del 2016, e che i personaggi in contesti diversi ritengono sia la via migliore per essere vincenti. Non si è così ingenui da non vedere che si cerca di dire che se Supergirl votasse, la sua preferenza andrebbe alla ex-Segretario di Stato ed ex-First Lady.  

La serie riflette in più occasioni anche parecchio sugli “alieni”, gli immigrati del pianeta Terra, termine usato in inglese anche per indicare i non-Americani,  proprio attraverso la protagonista, e attraverso Hank/J’onn, estendendo la riflessione alle questioni di genocidio e di fuga da Paesi in guerra. La detenzione di alieni criminali alla DEO senza “due process”, senza garanzie legali, è comparata esplicitamente a Guantanamo. James Olsen (Mehcad Brooks) insiste perché Kara si renda conto di quanto sia sbagliato procedere in questo modo e di come non c’è solo un scontro fra forze opposte, ma in gioco c’è anche una “battaglia di valori” (1.15). Discorsi seri e impegnativi per una serie sufficientemente stupidotta e scaldacuore. Ci si gode anche l’aspetto sentimentale, i riferimenti alle altre serie, le battutine, che si può essere sempre certi escano dalla bocca di Cat Grant (Calista Flockhart), la visibile consapevolezza del potere della comunicazione.

Supergirl, rinnovata per una seconda stagione, volerà non più sulla CBS, ma sulla più giovanile e adatta CW (di co-proprietà della CBS) - e le riprese saranno fatte nella più economica Vancouver e non a Los Angeles. È atteso l’arrivo di Superman, e un cross-over con altre serie dell’Arrowverse (Arrow, The Flash)  - grazie al fatto che Greg Berlanti è produttore esecutivo di tute e tre - compreso un episodio musical che dovrebbe avere la regia niente meno che di Joss Whedon (Buffy). La serie nel tempo è cresciuta in spessore, e così le capacità recitative dell’attrice protagonista, e una ragione o due per continuarla a vedere ci sono.  

giovedì 25 agosto 2016

PENNY DREADFUL: la terza stagione


La terza, e confermata ultima, stagione di Penny Dreadful, che ha sempre rivolto uno sguardo poetico sulla condizione umana attraverso un filtro gotico e una sensibilità in una certa misura neo-vittoriana (The Victorianist), si è chiusa con Mr Clare (Rory Kinnear) che cita la quarta stanza dell’Ode dell’Immortalità di Wordsworth -  “dove sono ora la gloria e il sogno?” – mentre porge il suo ultimo saluto sulla tomba di Vanessa Ives. John Logan, ideatore della serie, ha dichiarato: “Dal momento che lo show per me ha sempre riguardato la lotta di una donna con Dio e la fede, ho pensato che l’idea di lei che con le unghie ritrovava  la sua via verso Dio e finalmente raggiungeva un qualche tipo di apoteosi fosse la fine appropriata”. (THR)

Questa stagione, partita con i vari personaggi isolati l’uno dall’altro, ciascuno coinvolto in una storia autonoma, è stata vibrante come sempre, con vertici impensati come la straordinaria “A blade of grass – Un filo d’erba” (3.04), interamente imperniata sui due personaggi sopracitati, una volta che lei in psicoterapia con la dottoressa Seward (Patti Lupone) scava nel proprio io e nei propri ricordi.

Nuove entrate sono state Dracula (Christian Camargo), che nella sua veste quotidiana aveva l’identità del dottor Sweet, uno zoologo, e con lui il suo storico “aiutante”  Renfield (Samuel Barnett); Catriona (Perdita Week), una  tanatologa con esperienza di sovrannaturale (e un aspetto quasi fuori dal tempo – ammetto che mi è tanto sembrata una “cacciatrice” alla Buffy-maniera); e il dottor Jeckyll / Hyde (Shazad Latif, un attore poco convincente in un cast di eccelenze), amico di Victor (Harry Treadaway).

In questo arco si sono rincorsi e intrecciati diversi lietmotiv. L’abbracciare il proprio lato oscuro contro il combatterlo per rimanere puri è stato un tema dominante, per Ethan (Josh Hartnett) in bilico fra l’essere il Salvatore o il Lupo (3.05), per il dottor Jeckyll, sebbene non sia stato esplorato attraverso di lui, ma bensì attraverso le ricerche da lui condotte su pazienti di un manicomio che lui cerca di curare, e naturalmente in Vanessa, nella sublime già menzionata 3.04, ma in tutto il suo percorso e nel cedere finale alle lusinghe di Dracula.

Altro fulcro è stata la riflessione su che cosa ci renda dei mostri e specificatamente se siano i nostri ricordi a renderci tali. Qui di nuovo tornano in campo Ethan, e gli esperimenti medici di Jeckyll, ma il tema è stato affrontato moltissimo anche attraverso Lily (Billie Piper). Le vicende di quest’ultima, che ha anche arruolato fra le sue fila la giovane prostituta Justine (Jessica Barden), sono state un’esplicita allegoria del femminismo, contro la cultura patriarcale dominante e contro la chiesa cattolica che vede le donne autonome come streghe (3.07). Il vassoio di mani tranciate via a uomini prepotenti sulla tavola di Dorian Grey che ospita queste tavolate di donne ribelli è un’immagine potente. Le donne che si battono per i diritti propri e delle proprie sorelle sono viste come mostri. Vogliono togliere a Lily legittimi rabbia e dolore per trasformarla un una donna decorosa, appropriata, in una “obbediente mogliettina” (3.08). Justine preferisce la morte. E alla fine Victor rinuncia a rendere tale Lily perché lui stesso, che la ama, cerca di essere umano, quando sarebbe troppo facile essere mostri (3.08). C’è, nel corso delle vicende, una costante rivendicazione al diritto al proprio dolore, alle proprie perdite, alle proprie cicatrici e ferite, alla propria tristezza, da Vanessa che riconosce che questi sentimenti a volte sono tutto ciò che è (3.06), a Lily che nel supplicare Victor di non cercare di cambiarla contro la sua volontà si sviscera emotivamente davanti a lui e dichiara che “ci sono cicatrici che ci rendono chi siamo, e senza di essere non esistiamo” (3.08)

Infine c’è stata la riflessione e la tensione fra una fine necessaria e un’eternità che ci rende meno umani. La Creatura preferisce che il figlioletto malato muoia piuttosto che riportarlo in vita come il mostro che lui stesso è, anche se questo significa rinunciare alla donna amata che lo mette davanti all’ultimatum di ritornare con il piccolo in vita o non tornare affatto; Dorian Grey (3.09) soffre un’immortalità che lo condanna alla solitudine perenne, bellissimo e “morto”, “un perfetto immutabile ritratto” di se stesso e anche nel confronto con Lily si ammette che una vita di passione per quanto porti alla tragedia, sia comunque preferibile a una senza, privati di affetto e interessi, desideri e connessioni umane; Vanessa (3.09) si rassegna alla sua fine e quasi la cerca, pronunciando parole che suonano come un monito anche per noi per la chiusura della serie: “Let it end – lascia che finisca”.

mercoledì 17 agosto 2016

LIFE IN PIECES: godibile commedia familiare


Ideata da Justin Adler, Life in Pieces racconta le vicende della famiglia Short in quattro piccole vignette autonome (ciascuna con un proprio titolo) per ogni puntata, in un buon equilibrio e riuscendo a gestire e far interagire con storie collegate un ampio cast. Questo formato – a quanto apre ispirato ai Looney Tunes - permette agli autori di tagliare tempi morti e compattare gli accadimenti in momenti che sono estremamente frizzanti, senza cadute di tono.  C’è anche la libertà di usare esterni e di muoversi propria delle commedie single-camera.

I nonni sono John (James Brolin) e Joan (Dianne Wiest): lui è un pilota d’aereo in pensione, lei una terapeuta. Hanno tre figli. Heather (Betsy Brandt, Breaking Bad), la figlia più grande, è sposata con un otorinolaringoiatra, Tim (Dan Bakkedahl), da cui ha tre figli: Tyler (Niall Cunningham), Samantha (Holly J Barrett) e Sophia (Giselle Eisenberg, Flesh and Bone). Matt (Thomas Sadoski, The Newsroom), il secondogenito,  divorziato e senza lavoro, torna a vivere dai genitori, nel garage, e frequenta Colleen (Angelique Cabral) che ha un cagnetto maschio di nome Princess (Principessa). Il figlio minore Greg (Colin Hanks) è sposato con un’avvocatessa, Jen (Zoe Lister-Jones), e hanno appena avuto una bimba, Lark.  

Autenticamente esilarante proprio nelle situazioni più che non nelle battute, la serie mescola tradizione a originalità, raccogliendo anche le lezione di Modern Family, e rispetto a quest’ultima ha personaggi più amabili. Non è raro ritrovarsi a sghignazzare della grossa, e in modo costante, ma capita anche di commuoversi.  La recitazione è buona su tutta la linea, con Hanks e Lister-Jones sono particolarmente efficaci nella commedia fisica. Una loro espressione è sufficiente per rimanere genuinamente divertiti. Diverse sono anche le guest-star. La prima stagione è partita in modo solido ed è cresciuta in forza nel tempo: se le puntate iniziali spingevano a proseguire, ma con il dubbio di farlo a lungo termine, con il susseguirsi delle puntate si è fugato ogni dubbio e alla chiusura già si desidera la seconda stagione che, per fortuna, ci sarà.    

lunedì 8 agosto 2016

TCA Awards 2016: i premi dei critici televisivi


Lo scorso 6 agosto sono stati rivelati i vincitori dei TCA Awards, i premi dati dalla Television Critics Association, l’associazione dei critici televisivi composta da più di 220 professionisti di Stati Uniti e Canada.

Di seguito i vincitori.

Programma dell’anno: The People v. OJ Simpson: American Crime Story
Miglior nuovo programma: Mr Robot
Miglior drama: The Americans
Miglior Comedy: black-ish
Miglior Film, Miniserie e Special: The People v. OJ Simpson: American Crime Story
Miglior attore/attrice in un drama: Sarah Paulson (The People v. OJ Simpson: American Crime Story)
Miglior attore/attrice in una comedy: Rachel Bloom (Crazy Ex-Girlfriend)
Miglior programma di News e Informazione: Full Frontal with Samamntha Bee
Miglior Reality: Making a Murderer
Miglior programma per ragazzi: Daniel Tiger’s Neighborhood
Premio alla carriera: Lily Tomlin