mercoledì 27 novembre 2019

LOOKING FOR ALASKA: in cerca del senso della vita

Premetto che non ho letto “Looking for Alaska - Cercando Alaska”, ma ho comunque familiarità con la scrittura di John Green per aver letto “Colpa delle Stelle” e “Let it snow, let it snow, let it snow”, di cui è da poco disponibile su Netflix la trasposizione in film. Sono consapevole perciò del fenomeno per adolescenti che ha rappresentato, ed ero curiosa di vedere che cosa ne sarebbe uscito nella versione realizzata in accoppiata con un altro nome molto popolare della scrittura per young adults, come si dice ora, e in questo caso sul versante televisivo, ovvero con  Josh Schwartz (Gossip Girl, The OC, Nancy Drew), che ne ha ricavato un omonimo adattamento in 8 parti. Spiritualmente si percepisce che c’è affinità fra i due autori. Green è qui fra i produttori esecutivi. 

Siamo  nel 2005. Miles “Pudge - Ciccio” Hater (Charlie Plummer), un ragazzo con una fascinazione per le ultime parole pronunciate dalla gente prima di morire, lascia i genitori in Florida per frequentare in Alabama la Culver Creek Academy, alla ricerca del suo “Grande Forse”, come disse il poeta francese Rabelais in punto di morte. Suo compagno di stanza, Chip “il Colonnello” Martin (Denny Love), è una specie di istituzione nella scuola per i suoi scherzi, perpetrati soprattutto contro i Weekday Warriors – i Settimana Corta, un gruppo di ragazzi ricchi della scuola con cui c’è una forte rivalità. Chip presenta a Miles la sua migliore amica, Alaska Young (Kristine Froseth – la conosciamo per The Society, ma questa produzione è antecedente), una ragazza che non vuole tornare a casa per le feste e si interroga su “Come esco da questo Labirinto?”, citazione da un libro di Marquez. Miles si innamora di lei. I tre fanno presto comunella, insieme ad altri amici, fra cui Takumi (Jay Lee), si confidano gli uni con gli altri, e organizzano attività e scherzi insieme, nonostante l’occhio vigile del severo, ma umano direttore del liceo, Mr Starnes (Timothy Simons), detto l’Aquila. Nelle vite dei ragazzi un ruolo di rilievo lo ha anche l’anziano insegnante di religioni del mondo, il Dr Hyde (un sempre mirabile Ron Cephas Jones, This is us). 
   
Gioca sull’effetto nostalgia questa miniserie pre-cellulari – il protagonista chiama i genitori da un vecchio telefono a filo attaccato al muro. È una storia di formazione, che nella sua trasposizione televisiva non stravolge nulla, ma è solida e amabile, pur con una nota di dolore. Il punto forte sta nella trama e nei personaggi con una verbalità un po’ alla Dawson’s Creek, ovvero con adolescenti che parlano molto, con molta appropriatezza linguistica e riferimenti letterari e con una consapevolezza che dimostra una maturità notevole per la loro età, anche rispetto alla capacità di guardare e ammettere onestamente le proprie emozioni. Più prosaica è la regia, nonostante noti bene LaToya Ferguson su Indiwire quando osserva che Schwartz ricrea qui quella che è uno delle sue iconiche scene di The OC, ovvero quella del pilot in cui Ryan, diretto a Chino, passando in auto, dal sedile posteriore della macchina vede Marissa – qui è Miles che vede Alaska, sebbene Miles sia più un Seth Cohen che un Ryan Atwood.

I protagonisti vengono mostrati nella vulnerabilità dovuta alla loro età, nell’incertezza di sapere quello che vogliono essere e di cercare un senso alla vita, e il valore delle relazioni. La vena filosofico-riflessiva viene sia resa più esplicita che più incisiva all’interno della diegesi attraverso quello che i ragazzi studiano a scuola.  Ricevono dal loro insegnante il compito di rispondere a un quesito: qual è la domanda più importante a cui gli esseri umani devono rispondere? Ci interroghiamo sul senso della vita, su quale sia il miglior modo di vivere, sulla morte, sul valore della sofferenza. Le varie tradizioni spirituali rispondono a proprio modo e ciascuno lo fa con la propria vita. In questo gli adulti rappresentati sono particolarmente riusciti, nel senso che loro stessi hanno e contemporaneamente non hanno la risposta. Sono più maturi, ma non completi, potremmo dire. È fin troppo facile rappresentare gli adulti presenti nella vita di persone di quest’età come bidimensionali, macchiette distanti e poco in contatto con la realtà, ma non qui, dove gli adolescenti stessi sono in grado di vederli sì come delle autorità che li limitano, ma con una propria storia e le proprie difficoltà. Questo equilibrio fra le generazioni pure è un elemento di sintonia con The OC.    

Il confine fra scherzi e bullismo avrebbe potuto essere approfondito di più, specie in un momento storico come questo, e sono ragazzi che bevono e fumano, ma condivido l’osservazione di Kathryn VanArendonk su Vulture, quando dice che ovviamente non si arriva agli eccessi di un Euphoria, ma che la differenza è che queste dissolutezze sono rappresentate più come un dato di fatto che non con intenti allarmisti o celebrativi.

Looking for Alaska in versione TV (Hulu) non è una folgorazione, ma nemmeno una perdita di tempo. La nota distintiva alla fine è l’ordinarietà delle vicende, in un certo senso, ma forse proprio in questo c’è pregnanza, c’è umanità. Quello che è messo a fuoco in modo notevole, anche perché permea in modo diffuso tutto l’arco narrativo, è il senso che  la vita è un “to be continued” con margini non sempre definibili, con tante incertezze e sbavature, che sono fuori dal nostro controllo, è fatta di rimpianti e delusioni, e nonostante questi si va avanti, conservando i ricordi belli. Crescere, diventare adulti, è impararlo, anche se non diventa mai più facile affrontarlo. 

domenica 17 novembre 2019

GENTLEMAN JACK: la "prima lesbica moderna"

Basata sui diari (di 4 milioni di parole - qui in proposito – molta parte dei quali scritti in codice – inseriti nel programma UNESCO Memoria del Mondo) di una persona realmente esistita, Gentleman Jack (HBO, BBC1) racconta le vicende di quella che possiamo definire “la prima lesbica moderna”, Anne Lister, interpretata con acume e passione da un’impeccabile Suranne Jones (Coronation Street, Vanity Fair) che si mostra in un notevole spettro – arcobaleno forse, potremmo dire – di emozioni.   

Siamo nel 1832, ad Halifax, nel West Yorkshire, in Inghilterra. La volitiva Anne torna in città dagli zii e dalla sorella Marian (Gemma Whelan, Game of Thrones) dopo che la sua amante, Vera Hobart, la lascia per sposare un uomo. È ben nota a tutti, sia per il look androgino e gli atteggiamenti che sfidano le convenzioni, sia per la sua fermezza nel curare in prima persona gli affari di famiglia e rimettere in sesto la tenuta di Shibden Hall (che originariamente doveva essere il titolo della serie), trascurata in sua assenza. La seguiamo nelle vicende personali, e nel crescere del suo amore per la ricchissima Ann Walker (Sophie Rundle), che aveva inizialmente attirato le sue attenzioni proprio per ragioni di interesse pecuniario, come in quelle di gestione economica, pronta a infilarsi in prima persona in miniere di carbone (1.04) e a contrastare rivali in affari, in particolare i fratelli Rawson, che vogliono metterle i bastoni fra le ruote.

Ideata e interamente scritta da Sally Wainwright (Happy Valley, Last Tango in Halifax), anche regista di alcuni episodi,  la serie è un dramma storico, ma con un taglio decisamente attuale, specie nel modo in cui in alcuni momenti i personaggi rompono la quarta parete e ammiccano (e parlano perfino) allo spettatore in modo complice. E da subito, la camminata, il suo incedere baldanzoso (su una specifica musica molto incisiva), ce ne mostra immediatamente il carattere, intenso e energicamente determinato. Nel corso delle puntate l’aspetto più interessante è proprio vedere questa volitività accostata alla quieta disperazione della consapevolezza di non poter avere ciò che vuole alla luce del sole, di essere sempre sul punto di ottenere qualcosa che poi le sfugge: per paura, per ostilità, per convenzioni sociali, per appropriatezza… La prima stagione ci regala un lieto fine, ma è comunque una risoluzione positiva solo personale, c’è sempre una lotta con una società che la ostracizza e cerca di “metterla al suo posto” (con la violenza se necessario – 1.05) se occupa spazi che secondo i mores del suo tempo non le competono: negli affari come negli affetti.

Anne ha una consapevolezza della uguaglianza dei gay ante litteram e una notevole integrità nell’essere chi è. Alla sua ritrosa amante, Miss Walker, che si vergogna di se stessa, nei momenti di crisi trova ripugnanti e contro Dio le spinte affettuosità fra persone dello stesso sesso e teme il biasimo della società, dichiara apertamente che lei è nata così, che la natura è varietà, e lei vuole rispettare la propria e desidera una compagna per sé, non la donna di un altro uomo, perché quello sarebbe per lei mentire e tradire (1.05). Interessante anche come noti che l’omosessualità, illegale e punita con impiccagione per gli uomini, non è tale per le donne, segno di un sessismo che non si è mai molto interessato della sessualità femminile. Omofobia e omertà si rinfocolano a vicenda - “Quello di cui non si parla non è sempre quello di cui non si sa”, viene osservato, in una realtà dove certe verità è comunque meglio non dirle e stabilire distanza per evitare di esserne associati. Temi ancora contemporanei e con una sensibilità di oggi.    

Il ritratto che viene dipinto è quello di una donna “strana” per chi la circonda, ma capace di essere se stessa, spaventata dalla banalità e dalla mediocrità, intellettualmente curiosa, brillante, indipendente e audace, che ama viaggiare e conoscere il mondo, anche se per autoprotezione deve tenere segreto il più autentico sé.  Una seduttrice anche, cosciente del suo fascino e dell’effetto che ha sulle donne che ne sono sensibili.

Si riflette sull’essere donna, sull’identità e sull’amore, sul matrimonio e sui rapporti personali, anche attraverso storie secondarie di una domestica che rimane incinta e di un affittavolo patricida, Tom Sowden (per chi ha seguito le vicende viene da chiedersi se quel cognome sia stato dato di proposito, considerato che “sow” è scrofa e “den” tana).  

Alle 8 puntate della prima stagione ne farà seguito una seconda.

giovedì 7 novembre 2019

La seconda stagione di SUCCESSION: stupefacente

È la serie del momento, quella da non perdere. Avevo indicato Succession (HBO) fra le migliori nuove serie del 2019 in un mio post, anche se poi non ho mai scritto sulla prima stagione. Nella seconda si conferma come un appuntamento imperdibile, un commento graffiante sull’era Trump – la prima table read della serie pare sia stata fatta proprio il giorno delle elezioni. È shakespeariana (con il bardo anche citato esplicitamente), una morality tale alla Chaucer per dirla con uno degli interpreti (qui), è inventiva, intelligente, crudele, attuale, sottile, spavalda, spietata, satirica, umoristica…

Al centro delle vicende c’è sempre la famiglia Roy  - modellata pare sui Murdoch, ma anche con un pizzico dei Redstones e dei Kennedy -  e le manovre personali e d’affari per accaparrarsi la gestione dell’impresa di famiglia, la Waystar Royco, un conglomerato mediatico titanico. Il patriarca Logan (Brian Cox) è un umorale re Lear, al suo terzo matrimonio -  con Marcia “Marcy”, di origine libanese -, che tiranneggia non solo i suoi sottoposti, conscio del proprio potere, ma anche i suoi figli, desiderosi di compiacergli. Se nella prima stagione era in fin di vita, e appunto si cercava di capire chi gli sarebbe succeduto alla guida dell’impresa di famiglia, ora è sano e vitale e intenzionato a decidere lui. Ha un pessimo rapporto con il proprio fratello, Ewan (James Cromwell, American Horror Story, The Young Pope), che lo definisce peggio di Hitler, un uomo moralmente corrotto che ha creato un “impero di merda” (2.08).

Il figlio della prima moglie, Connor (Alan Ruck, Persons Unknown) ha poco interesse per gli affari aziendali, preferisce dedicarsi allo stimolo del momento, che sia cercare di accaparrarsi la vendita del pene di Napoleone o lanciarsi in politica come possibile candidato alla Casa Bianca, mettendo in ridicolo la famiglia con la sua inettitudine. Il primogenito della seconda moglie, Kendall (Jeremy Strong, Masters of Sex), il più interessato a prendere le redini dal padre, ha un forte problema di abuso di sostanze e un matrimonio fallito alle spalle; alla fine della prima stagione rimane coinvolto in un incidente simile a quello di Chappaquiddick, di cui è al corrente solo il padre che lo protegge, e questo lo tortura nel corso del nuovo arco narrativo, rendendolo una specie di zombie completamente asservito al genitore, a cui aveva cercato senza successo di ribellarsi. In “Vaulter” (2.02) pugnala alle spalle in modo plateale i dipendenti di una azienda che credevano in lui:  “Mio papà mi ha detto di farlo” risponde con quasi scioccante candore alla domanda sul perché lo avesse fatto.

Il fratello più giovane, Roman (Kieran Culkin), è una sorta di giullare lecchino interessato più a divertirsi che a impegnarsi davvero negli affari di famiglia – mi ha ricordato un po’ il primo Curtis Alden (Christpher Marcantel) di Quando si Ama, se non fosse che questi raccoglieva in sé anche il dolore qui incarnato da Kendall. Uno dei risvolti più affascinanti della seconda stagione è stata la costruzione del rapporto fra lui e la consigliera generale dell’azienda, che gli fa da mentore, Gerri (J. Smith-Cameron). La sorella Siobhan “Shiv” è quella politicamente più sveglia e brillante e, anche se le sue idee sono all’opposto di quelle della sua famiglia, è la possibile vera erede alla dirigenza dell’impero e nel corso di tutta la seconda stagione il suo ruolo nel futuro degli affari e come viene gestita l’eventuale successione è uno dei migliori esempi della profonda sottigliezza di cui è capace la serie - sia a livello affaristico che umano. È sposata con Tom (Matthew Macfayden) che è un dirigente nell’azienda di famiglia, e in questa stagione ha un ruolo importante in un network stile Fox-news, ma che si sente sempre l’anello debole e non ha esattamente le mani pulite. Presto diventa una sorta di mentore del cugino Greg (Nicholas Braun), nipote del fratello di Logan, che arriva come neofita nelle file di famiglia e cerca di navigarle al meglio. Un po’ ingenuo, ma non poi del tutto, è noi, in un certo senso, in quanto outsider degli intrallazzi e costantemente vagamente a disagio dalle situazioni in cui si trova coinvolto, ma in cui cerca di trovare un proprio ruolo. Il rapporto fra Tom e Greg è declinato in modo molto umoristico, e in questa stagione ancora di più.

Due volti nuovi nel secondo arco sono stati quelli di Rhea Jarrell (Holly Hunter), CEO dei Pierce Media Group (PGM), che Logan Roy intende acquisire, e Nat Pierce (Cherry Jones), la proprietaria, a capo di una dinastia mediatica di sinistra che pare sia modellata sui Sultzbergers che controllano il New York Times o i Bancroft del Wall Street Journal, i Chandler del Los Angeles Times o i Taylor del Boston Globe (per approfondire questo tema si legga Slate).   

L’ideatore Jesse Armstrong (Peep Show, In the Thick of It, ma ha fra le altre cose ha scritto anche la 1.03 di Black  Mirror, un episodio a mio avviso molto riuscito) con questa creazione può essere ritenuto, come Emily Nussbaum ha definito David Chase di The Sopranos, un iconoclasta e un profeta del disgusto, in questo caso anche con un “tono idiosincratico” e  propensione all’assurdo che dà ragione a chi ha definito la sua creazione una sorta di Arrested Development più dark, oltre che un Trono di Spade più politicamente astuto (THRl’articolo vale la pena leggerlo anche per scoprire chi sono i consulenti dello show sulle news televisive, media, finanza e affari, politica, eventi sociali, matrimoni e altro).

La serie è dolorosamente tranciante rispetto al dispotismo e il nepotismo delle oligarchie plutocratiche; tagliente nel mostrare gli aspetti più feroci e senza scrupoli degli affari, dei passi falsi e delle alleanze che si modificano, degli accordi traditi e delle inaspettate fortune o sfortune; agghiacciante nel mettere in scena il bullismo e il sadismo del potere fuori controllo – il miglior esempio è “Hunting” (2.03) in cui il patriarca umilia alcuni suoi sottoposti costringendoli a inginocchiarsi e a grugnire e competere per delle salsicce; terrificante e caustica – in “Safe room” (2.04) si riesce a ridere di nazismo, pedofilia e a un funerale, e a dolersi di un Kendall suicidario; tanto a tratti smaccata, quanto sottilissima negli scambi umani: che siano i virtuosistici passaggi verbali della cena in “Tern Haven” (2.05), Kendal che cerca di confidarsi con la propria madre (“Return” - 2.07) o Shiv e Marcy che affrontano Rhea (“Dundee” - 2.08); tutte queste cose spesso insieme come nella mirabile season finale con twist di chiusura che diverte nel flipper dei protagonisti che cercano di decidere chi sarà la persona designata al “sacrificio di sangue” (2.09) ovvero a prendersi la colpa di uno scandalo che riguardava le navi da crociera della compagnia, e sorprendente nella risoluzione ultima della faccenda con una puntata che, sullo sfondo di un ricchezza economica inarrivabile – si svolge su uno yacht che oltre a cabine di lusso, ha una piscina interna e un’area di atterraggio per l’elicottero – è costruita di fatto su una singola e sola frase molto semplice che Logan dice al figlio Kendall: “non sei un killer” (2.10).  Potrebbe ricordare una soap-opera, ma non cede mai ai toni melodrammatici. Stupefacente.  

Il poster della serie mostra la famiglia riunita con sullo sfondo a ogni stagione una diversa opera d’arte, che immagino una chiave di lettura: nella prima si è trattato della “Caccia alla Tigre” di Rubens, nella seconda di “Dante e Virgilio all’Inferno” di Bouguereau. Appropriatamente però ho visto che qualcuno su twitter ha commentato la season finale, e specificatamente il comportamento di Logan verso Kendall, usando l’immagine di “Saturno che divora i suoi figli” di Goya. Della memorabile sigla di apertura rimane come un tarlo il tema musicale di Nicholas Britell – “ha giustapposto un pianoforte tradizionale con un beat hip-hop incombente come suono principale, con corde distorte e elettronica inserita per enfatizzare ulteriormente questi contrasti” (Vulture) -  che torna ricorsivamente anche nel corso della diegesi.

Già non vedo l’ora per la terza stagione.

domenica 27 ottobre 2019

BIG LITTLE LIES: la seconda stagione


Quasi sicuramente non ci sarà una terza stagione (peccato) perché la seconda di Big Little Lies, che mi ero augurata ci fosse, ha avuto parecchio da dire e ha convinto nonostante abbia anche deluso e sia riconoscibile la criticata “disarticolazione” dovuta ad un attrito dietro le quinte: la regia è stata affidata ad Andrea Arnold, ma poi in post-produzione è intervenuto il produttore esecutivo e regista della prima stagione Jean-Marc Vallée con lo scopo unificare lo stile visivo a quello della prima, con il risultato di scene discontinue e prive di ritmo interno. Ci sono state polemiche, per la lamentata mancanza di controllo creativo, ma la dirigenza HBO ha difeso quello che è sempre stato un classico modo di operare televisivo, affermando che anche Vallée aveva dovuto lavorare collaborativamente e che comunque in questo caso non era arrivato all’ultimo in postproduzione per stravolgere il lavoro di qualcun altro, ma è stato coinvolto nella fase di sceneggiatura e aveva avuto modo di confrontarsi con la Arnold prima delle riprese. Sulla questione si legga qui e qui. Si potrebbero trarre numerose riflessioni sull’autorialità televisiva, ma non è questa la sede.

In questo arco narrativo, sempre con la storia di David E. Kelley e Liane Moriarty, e il teleplay del primo, è stata messa molta carne al fuoco per ciascuna delle protagoniste, e come non mai si è visto che è un programma al femminile, dove gli uomini sono relegati ai ruoli secondari solitamente riservati alle donne: Madeline (Reese Whitherspoon) ha dovuto ricostruire il proprio matrimonio, dopo che il marito Ed (Adam Scott) ha scoperto la sua infedeltà; Renata (Laura Dern) ha affrontato il tracollo economico dovuto alla bancarotta del marito Gordon (Jeffrey Nordling); Jane (Shailene Woodley) ha cercato di proteggere il figlio dalla scoperta che è il risultato di uno stupro e ha iniziato una relazione con un giovane collega all’acquario dove lavora, Corey (Douiglas Smith), pur nelle difficoltà a trovare l’intimità a seguito di quell’evento; Bonnie (Zoë Kravitz) si è macerata nei sensi di colpa per aver spinto Perry (Alexander Skarsgård) nella notte della sua morte, cosa che l’ha progressivamente allontanata dal marito Nathan (James Tupper),  e ha fatto i conti con il difficile rapporto con la madre Elizabeth (Crystal Fox); Celeste (Nicole Kidman), infine, ha elaborato il lutto della perdita del marito e ha dovuto combattere in tribunale la suocera Mary Louise (una smagliante Meryl Streep) che voleva toglierle la custodia parentale dei figli. Tutte, unite dal patto, tengono il segreto su quello che è accaduto quella famosa notte, mentre la polizia ancora nutre sospetti che non sia andata come hanno testimoniato.

La narrativa ha tenuto, anche con carnose riflessioni sui rapporti umani che come nucleo speculativo intersecavano le vicende, rispetto alle quali risultavano trasversali. Si è parlato di essere madre e dei rapporti madri-figli (Celeste con i suoi; Mary Louise e Perry; Jane e Ziggy; Bonnie ed Elizabeth). Si è indagato il tema della crisi dei rapporti matrimoniali (Madeline ed Ed; Bonnie e Nathan; Celeste e Perry; Renata e Gordon). Che cosa significa essere una coppia, ed essere una famiglia? Che cosa è nella vita la cosa più importante? Si è gettata luce sulla difficoltà di superare “traumi” che segnano la propria vita, fisici e no (lo stupro a Jane, le botte a Celeste e il fatto che i figli l’abbiano vista; la colpevolizzazione di Perry da parte della madre; l’infanzia di Bonnie e il tragico evento che  l’ha vista coinvolta). E poi i segreti, il conoscere davvero una persona, l’istruzione, il denaro, l’aggressività e il deflettere la responsabilità sugli altri a cui viene immediatamente attribuita la colpa (e in quest’ultimo caso, in una modalità che io personalmente vedo come molto americana, penso in particolare a Renata e al rapporto con la figlia Amabella).

La tematica forse più originale, incarnata principalmente dalla storia in cui era coinvolta una Meryl Streep davvero grandiosa, è se sia possibile conservare un buon ricordo di qualcuno che ha commesso delle azioni terribili. È giusto? Serve? La madre di Perry vuole disperatamente che la vittima di stupro abbia visto qualcosa di buono in suo figlio, che era un bambino gentile, da piccolo; Celeste discute con la terapeuta perché, anche se abusava di  lei, vuole poter mantenere dei ricordi belli del marito, che ha anche amato, come se l’essere stato un “mostro” fosse solo una finzione, quella che creava per i bambini per divertirli. Anche nella persona che si comporta nel modo più orribile ci sono dei lati umani, dei lati belli. Non dobbiamo tenerne conto? Che peso devono avere? Che cosa significa per noi e per l’opinione e il ricordo che dobbiamo avere di loro? Con disinvoltura, acume e chiaroscuri (di fatto anche in altre delle storie) si sviscerano queste questioni. Il solo rammarico che ho è che vorrei che Kelley rinunciasse alla sua coperta di Linus del scontro in tribunale per far emergere questi conflitti esteriori e interiori. È una forma che lo permette in modo esplicito, e lui la sa rendere al meglio ma, sebbene sia risultato organico, avrei voluto che la negoziazione di queste delicate emozioni avvenisse su un terreno meno definito.

Chi ha amato la prima stagione, fa bene a veder anche questa. Di fatto, ci sarebbe ancora molto da far dire alle “cinque di Monterey”.     

domenica 20 ottobre 2019

EUPHORIA: disperata e autolesionista


È una gioventù disperata, autolesionista e allo sbando, quella messa in scena con bravura da Euphoria, il primo teen drama della HBO (in Italia su Sky Atlantic) con vite di sesso, droga e social media nella seconda decade degli anni 2000. A idearlo, sulla base di una omonima serie israeliana, è stato Sam Levinson (Assassination Nation, figlio di Barry Levinson) anche sceneggiatore di tutte le puntate della prima stagione e regista di cinque delle otto puntate. Per l’autore è anche una storia profondamente personale, autobiografica per la parte che concerne le droghe (THR).

Rue (una Zendaya da cui ci si aspetta una carriera di successi) è un’adolescente che comincia il suo penultimo anno di superiori dopo che è uscita da un centro di disintossicazione per un’overdose dalla quale l’ha salvata, trovandola, la sorella minore, Gia (Storm Reid). Lotta costantemente con la dipendenza da sostanze, iniziata prendendo le pillole del padre morente. Perfino uno spacciatore che tiene a lei, Fezco (Angus Cloud), cerca di allontanarla da possibili ricadute. Presto stringe un’amicizia, che diventa anche qualcosa di più, con Jules (Hunter Schafer), una ragazza trasngender appena arrivata in città. A gravitare intorno alla sua vita ci sono la sua migliore amica d’infanzia Lexi (Maude Apatow) e i compagni di scuola: Kat è una ragazza soprappeso, che all’esordio è vergine, che diventa avventurosa in campo di sesso, anche online, e matura un nuovo rapporto col proprio corpo; Nate (Jacob Elordi) è uno sportivo che proviene da una famiglia in vista con forti insicurezze sessuali  - ha una ragazza, Maddy (Alexa Demie) con cui ha un rapporto sentimentale a intermittenza, abusante, e un padre, Carl (Eric Dane)  che nasconde un segreto che potrebbe rovinargli la reputazione, per dirla in modo eufemistico, e con cui si sviluppa in rapporto affascinante da seguire; e poi c’è la dolce Cassie (Sydney Sweeney, The Handmaid’s Tale), sorella maggiore di Lexi, dal colorito passato sessuale che continua a influenzare la sua vita, che è fidanzata con il giocatore di football Christopher (Algee Smith), che il padre spinge ad eccellere.

La sceneggiatura ci va giù pensate, riesce ad essere brutale, e scioccante, ma mai fine a se stessa, ma proprio come parte del senso che intende trasmettere. Si preme l’acceleratore su droga e sesso con molta libertà – una puntata si annunciava come quella che avrebbe mostrato ben 30 membri maschili. La regia punta su toni scuri, plumbei, ma coperti di glitter, scintillii che mascherano lo straziante squallore, umano ed emozionale di un buildungsroman che avrebbe il sapore della distopia se non fosse così crudemente autentico. Cinematograficamente è stimolante. Ci sono inquadrature insolite, sperimentali, ancora più spinte lì dove si vuole dare il senso dell’allucinazione tossica e una alterazione del vissuto. Il senso che trasmette è che questa è la realtà, ma è una realtà marcia, malata, distorta, non è quello che dovrebbe essere.   

Rue nel pilot dice come la irriti il fatto che quando trapela il nudo di una persona famosa, la gente critica che tanto per cominciare non avrebbero dovuto scattare una simile foto:  “Mi dispiace, so che la vostra generazione faceva affidamento su fiori e il permesso del padre, ma è il 2019, e a meno che tu non sia Amish, i nudi sono la moneta dell'amore. Quindi smettetela di farci vergognare. Fate vergognare gli stronzi che creano elenchi online protetti da password di ragazze minorenni nude". (1.01 – traduzione mia). Non si hanno peli sulla  lingua, non ci si fa problemi a dire cose scomode.

Gli effetti del porno, la pressione dei coetanei, l’assenza di una bussola morale, le trappole del web, le famiglie sfasciate, gli abusi fisici e verbali, le app di incontri, gli adulti assenti, le paure e le insicurezze di un delicato momento della crescita: c’è molta profondità e umanità, anche se un’umanità di cui è triste rendersi conto, in questa serie che fa anche affidamento in modo molto estensivo alla voce fuori campo di Rue. Questa, si dice sempre, è una modalità di cui si approfitta troppo e di cui si potrebbe fare a meno se non viene utilizzata con una logica specifica che la renda significava. Qui ci sono lunghi brani di monologhi, e funzionano.

Se la figura dello “spacciatore buono”, che si dà alla criminalità per sostenere la nonna in coma di cui si prende cura, nonostante il bravo interprete, mi pare un po’ favolistica, le altre le ho trovate tutte convincenti, e ho particolarmente apprezzato quella che coinvolge Nate: l’odio per se stesso e il rapporto tossico con la sua ragazza, i ricatti che mette in piedi per preservare la sua immagine di bravo ragazzo, il confronto con il padre (spettacolosa la season finale a questo proposito)…  

La prima stagione, a cui ne farà seguito una seconda, termina, in modo inaspettato ma efficace, con un numero musicale.    

domenica 13 ottobre 2019

BATWOMAN: mal recitata e scialba


È la recitazione il punto debole di Batwoman, e specificatamente quella della bella  interprete Ruby Rose (Orange is the New Black) che non brilla per abilità “tespiane”, diciamo così, ingessata e monocorde. Non c’è ammontare di spavalderia che riesca a nascondere questa pecca. E va bene raccogliere la staffetta da Batman, che nella narrazione è misteriosamente scomparso 3 anni prima, ma lui è così onnipresente che a stento lei emerge: se per la fine del pilot non si riesce nemmeno a riconoscere l’eroina per quello che è, una donna, una persona diversa, e la si vede ancora come il più famoso cugino, è certo che abbiamo un problema.  

Introdotta nella puntata crossover di Arrow “Elsewords – Altrimondi”, la nuova entrata della scuderia di Greg Berlanti, sviluppata in questa incarnazione da lui e da Caroline Dries, è basata ovviamente sull’omonima eroina dei fumetti della DC, ed in particolare sulla graphic novel del 2010 Batwoman: Elegy.  

Il passato di Kate Kane, nome civile di Batwoman, è chiaro: ha perso la madre e la sorella in un incidente d’auto da cui l’alter ego di Bruce Wayne non è riuscita a salvarle, e le lo ha sempre ritenuto responsabile di questo; è stata espulsa dall’accademia per essere lesbica e nello stesso momento ha perso così la sua ragazza, Sophie (Meagan Tandy), che ha preferito mentire per potersi invece diplomare. Ora Gotham, la cui sicurezza è mantenuta dai Crows (i Corvi), fondata dal padre Jacob Kane (Dougray Scott), viene minacciata dalla temibile Alice (Rachel Skarsten), leader della Woderland Gang  (la Gang delle Meraviglie), che rapisce Sophie. La sorellastra di Kate, Mary Hamilton (Nicole Kang), la avverte e lei, che si stava allenando per conto suo, rientra in città. Scoperta la vera identità di Batman, estorcendo forzatamente l’aiuto del giovanissimo Luke Fox (Camrus Johnson), che custodisce la Wayne Tower, decide di modificarne il costume del cugino e di ergersi lei a paladina della città. ATTENZIONE SPOILER. La scoperta maggiore che farà, alla fine del pilot, è rendersi conto che Alice, la sua nemesi simil-Joker, altri non è se non Beth, la sorella che lei credeva morta nell’incidente d’auto di anni prima.  

Da quanto traspare dal pilot, oltre ad un look genericamente non troppo accattivante – nei costumi, ma anche della scenografia (salvo solo il momento in cui Kate scopre la Batcaverna – la sceneggiatura è completamente dimenticabile e l’approfondimento psicologico dei personaggi è lasciato al caso. La storia si snoda secondo tappe narrative ben definite con un buon ritmo, e tutto è sufficientemente chiaro, ma è anche tutto piuttosto preordinato e scialbo, non vibra di passione intellettuale o emotiva. Il sottotesto, potenzialmente ricco, rimane inconsistente. Del voice-over si potrebbe facilmente fare a meno. I rapporti fra i personaggi suonano tutti forzati. Alice, ben recitata, è l’unica luce che scappa dal buco nero e che presenta del potenziale.  

Personalmente ero affezionata dall’infanzia al personaggio, ma di questa vigilante i cui dolori emotivi non sembrano più vissuti della tuta rifatta che ha deciso di indossare faccio volentieri a meno.     

martedì 8 ottobre 2019

CHERNOBYL: una ricostruzione parenetica che onora eroi senza nome


“Essere uno scienziato vuol dire essere un ingenuo. Siamo così presi dalla nostra ricerca della verità da non considerare quanto pochi siano quelli che vogliono che la scopriamo, ma la verità è sempre lì, che la vediamo o no, che scegliamo di vederla o no. Alla verità non interessano i nostri bisogni, ciò che vogliamo, non le interessano i governi, le ideologie, le religioni. Lei rimarrà lì, in attesa, tutto il tempo. E questo, alla fine, è il dono di Chernobyl. Se una volta temevo il costo della verità ora chiedo solo: qual è il costo delle bugie?” (1.05)
Ha vinto l’Emmy come miglior miniserie del 2019, ha ricevuto approvazione quasi universale dalla critica con un punteggio su Metacritic di 83, è stata biasimata dai russi come propaganda statunitense che li vuole mettere in cattiva luce tanto che vogliono girarne una contro-versione (si legga qui in proposito): Chernobyl è stata una coinvolgente coproduzione HBO-Sky sul disastro nucleare del 26 aprile 1986 che diversi di noi (sicuramente quelli che come me all’epoca erano adolescenti) ricordano bene: l’esplosione del reattore numero quattro di una centrale in Ucraina che ha diffuso una radioattività considerata pari a centinaia di volte la bomba di Hiroshima.  

Ideata e scritta da Craig Mazin, che si è ispirato al libro Preghiera per Černobyl’ della premio Nobel per la letteratura Svjatlana Alexievič, e diretta da Johan Renck, questa ricostruzione degli eventi segue lo scienziato Valerij Legasov (Jared Harris, Mad Men, The Crown), vicedirettore dell’Istituto di energia atomica Kurchatov, e il politico Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), vicedirettore del consiglio dei Ministri, a capo dell’ufficio per il combustibile e l’energia e della commissione che deve indagare sull’evento. Il rapporto fra i due, e la progressiva presa di consapevolezza degli eventi da parte di quest’ultimo, che da arrogante burocrate si trasforma facendo tutto quello che può per rimediare alla situazione, è il vero punto di forza della narrazione, uno spettacolo nel modo sottile, ma evidente, di costruzione della stima reciproca, se non addirittura amicizia, fra due uomini che la sorte ha gettato insieme. Il vero successo artistico per me sta qui. Altro personaggio di rilievo è stata Ulana Khomyuk (Emily Watson) una scienziata bielorussa dell’istituto per l’energia nucleare che indaga sul disastro. Come espresso esplicitamente in chiusura, quando vengono riportati i dati sull’evento al di là della ricostruzione della finzione, si tratta di un personaggio inventato che rappresenta tutti quei fisici e ingegneri che nella realtà si sono spesi per risolvere l’incidente.   

Il resto della trama di costruisce su personaggi minori: il pompiere fra i primi soccorritori che lascia la moglie incinta; la moglie di lui che non vuole allontanarsi dal suo amato e che finirà per perdere il bimbo che porta in grembo; il ragazzo imberbe incaricato di uccidere tutti gli animali che trova perché contaminati e, se trova il coraggio di sparare a un cane dopo che cerca di farlo scappare, non ha cuore di liberarsi di una cucciolata con la madre; i contadini costretti ad evacuare (incarnati da una donna anziana che si rifiuta di lasciare la sua casa e continua a mungere la sua mucca); i minatori mandati in missione suicida nei sotterranei; gli operai lasciati per pochi secondi sui tetti radioattivi; semplici abitanti del luogo che avevano assistito al tragico spettacolo da un ponte, di cui non ne sopravvivrà nemmeno uno, ci viene raccontato in chiusura. Qui, al di là dei volti riconoscibili che umanizzano le vicende, ci sono tanti, tantissimi volti anonimi, che bene esprimono quello che è il prezzo di quanto è accaduto, ovvero migliaia di vite a cui non riusciremo mai a dare un volto o un nome che hanno pagato un prezzo altissimo soffrendo e sacrificandosi (a loro è dedicata quest’opera). Si onorano tanti eroi senza nome.   

E il senso del racconto è poi quello di cercare e di capire il perché tutto questo sia accaduto, di mostrare la concatenazione di tanti piccoli errori – ignoranza, insabbiature, bugie, abusi, arroganza, segreti, incompetenza -  che nell’insieme hanno portato alla catastrofe, e, come fa notare la citazione finale che ho messo come cappello introduttivo, il rischio dell’omertà, che sia dovuta a ideologia o vigliaccheria, e delle menzogne. E in questo senso quest’opera ha sicuramente un senso parenetico, di monito a non ricadere nella stessa trappola, alla quale siamo inevitabilmente destinati se la situazione non cambia.

Notevole è stata l’inquietante colonna sonora di Hildur Gudnadottir. Come  ha ben scritto Randall Coburn (AVClub): “Anche se nulla spezza i nervi come un dosimetro scoppiettante, i droni elegiaci a ripetizione di Gudnadottir evocavano il lamento marcescente di una sirena lontana, fungendo da manifestazione uditiva dell'aria velenosa”. Stilisticamente è stata tesa, senza un momento sosta, ma per il resto anche è stata anche una produzione molto classica.

Se colpa significa negligenza, imprudenza e imperizia, qui ci troviamo ad un esempio lapalissiano di colpa, e di consapevolezza della necessità di prendersene la responsabilità. Una miniserie che esorta a guardare in faccia l’orrore morale perché non si concretizzi in altre forme e guarda negli occhi con altrettanta chiarezza alla forza umana di far fronte alle sue conseguenze.

lunedì 30 settembre 2019

BOB ♥ ABISHOLA: non diverte


Non fa ridere Bob Abishola (Bob hearts Abishola – Bob cuore Abishola, in italiano forse potremmo dire "Bob Lovva Abishola"), la nuova serie sull'americana CBS di Chuck Lorre (Due uomini e mezzo, The Big Bang Theory) e Eddie Gorodetsky, Al Higgins e Gina Yashere (una comica britannico-nigeriana). Nemmeno un po’. E questo la boccia come sit-com. Funziona meglio sul lato umano e di tenerezza, ma non a sufficienza.

Bob (Billy Gardel, Mike e Molly) è un uomo di mezza età che nella vita ha una fabbrica di calzini a gestione familiare, a Detroit. Fra lo stress lavorativo e quello provocatogli dalla madre Dottie (Christine Ebersole), il fratello Douglas (Matt Jones) e la sorella Christina (Meritbeth Monroe) finisce per avere un attacco di cuore. In ospedale, il Woodward Memorial Hospital, si innamora dell’infermiera di origine nigeriana che si prende cura di lui, Abishola  (Folake Olowofoyeku), che ha un figlio, Dele, per cui sogna la carriera di medico, e che vive con zia Olu (Shola Adewusi) e zio Tunde (Barry Shabaka Henley). Bob inizia a corteggiare Abishola, regalandole dei calzini. A raccogliere le confidenze di lei e a commentare la situazione ci sono anche la collega Gloria (Vernee Watson) e l’amica Kemi (Gina Yashere).

Da una sit-com che infila una scorreggia entro il primo minuto nella speranza di provocare ilarità, si capisce che non si punta troppo in alto, ma la premessa è interessante. Nel podcast di “TV’s Top Five” (puntata del 20 settembre 2019) Lorre dichiara di trovare l’immigrazione un argomento politico, ma gli immigrati un argomento semplicemente umano: vuole celebrarli perché sono loro che hanno reso grande l’America e, con loro, il loro coraggio e la determinazione che ci vogliono  per andare a vivere in un Paese straniero cercando una vita migliore. Nel confronto fra culture diverse spera di poter guardare la realtà in prospettiva fresca, scoprendo valori che magari un tempo appartenevano anche alla cultura americana, ma ora apparentemente non più. Fa l’esempio specifico del rispetto per le persone più vecchie e indica una scena del pilot che in effetti salta agli occhi (ho ascoltato l’intervista dopo aver visto la puntata e ammetto di aver notato da sola quanto diceva): Dele serve la colazione alla madre Abishola. L’intenzione perciò c’è, ed è nobile, e si potrà realizzare lì dove si riuscirà ad evitare la caricatura etnica e gli stereotipi da cui all’esordio non si sfugge (specie con gli zii).

Dove pure c’è potenziale è anche in quello che in The Kominsky Method Lorre ha dimostrato di saper esplorare bene: la vulnerabilità dell’essere umano. Un uomo sentimentalmente solo, ma con desiderio di amare e con un certo fascino gentile, e una immigrata tosta e pragmatica che deve lavorare sodo e crescere un figlio, cominciano a trovarsi interessanti a sufficienza da voler imparare a conoscersi. Può davvero essere la base di qualcosa di autenticamente romantico e questo è evidente che lo comprendono bene. Ugualmente una miniera interessante può essere l’esplorazione del rapporto fra i neri afro-americani e i neri africani. Come già in Mom (pure di Lorre) il riso non preclude parti drammatiche o comunque serie.

La recitazione è buona, i passaggi di scena con le slugline scritte a caratteri cubitali sono quantomeno originali.

Rimane, per il poco che ho visto, il problema enunciato all’esordio: non diverte. E avrà speranza di sopravvivere solo se riuscirà a farlo, presto.

lunedì 23 settembre 2019

EMMY AWARDS 2019: i vincitori

Photo Credit: Kevin Winter/Getty Images (da THR)


Sono stati consegnati ieri sera gli Emmy Awards, giunti alla loro 71esima edizione.


Sotto, i vincitori:

Miglior drama: Game of Thrones (HBO)
Miglior attrice in un drama: Jodie Comer, Killing Eve
Miglior attore in una drama: Billy Porter, Pose
Migliore attrice non protagonista in un drama: Julia Garner, Orzak
Miglior attore non protagonista in un drama: Peter Dinklage, Game of Thrones
Miglior sceneggiatura di un drama: “Nobody is ever missing” di Succession, scritta da Jesse Armstrong
Miglior regia di un drama: “Reparations” di Orzak, diretta da Jaseon Bateman

Miglior comedy: Fleabag (Amazon)
Miglior attrice in una comedy: Phoebe Waller-Bridge, Fleabag
Miglior attore in una comedy: Bill Hader, Barry
Miglior attrice non protagonista in una comedy: Tony Shalhoub, The Marvelous Mrs. Maisel
Miglior attore non protagonista in una comedy: Alex Borstein, The Marvelous Mrs. Maisel
Miglior sceneggiatura per una comedy: “Episode 1” di Fleabag, scritta da Phoebe waller-Bridge
Miglior regia per una comedy: “Episode 1” di Fleabag, diretta da Harry Bradbeer

Miglior limited series o film: Chernobyl
Miglior attrice in una limited series o film: Michelle Williams, Fosse/Verdon
Miglior attore in una limited series o film: Jharrel Jerome, When they see us
Migliore attrice non protagonista in una limited series o film. Patricia Arquette, The Act
Miglior attore non protagonista in una limited series o film: Ben Whishaw, A Very English Scandal
Miglior sceneggiatura per una limited series, film o speciale drammatico: Chernobyl, scritto da Craig Mazin
Miglior regia per una limited series, film o speciale drammatico: Chernobyl, diretto da Johan Renck

Miglior film per la TV: Black Mirror. Bandersnatch (Netflix)


Per altri vincitori, con l’elenco anche di tutti i nominati, si veda qui.

venerdì 20 settembre 2019

THE SOCIETY: adolescenti ricostruiscono la società


The Society è un teen drama di Netflix che vede un gruppo di ragazzi adolescenti che, di ritorno da una sorta di gita interrotta dal maltempo, all’improvviso si ritrovano da soli, isolati e senza adulti in genere, in quella che sembra una copia perfetta della cittadina di West Ham, in Connecticut nel New England, in cui abitavano, circondata solo da foresta, e devono cavarsela con le proprie forze e far funzionare la nuova società che sono costretti a costruire. 

Ideata da Christopher Keyser, che già aveva esplorato il tema dell’assenza dei genitori in Party of Five, questa serie è un po’ Il Signore delle Mosche (a cui è in parte ispirato), un po’ The 100, un po’ Riverdale, un po’ Persons Unknown e Wayward Pines o Under the Dome. Altre influenze, esplicitamente richiamate, sono Walden di Thoreau,  Peter Pan, e Rosencrantz e Guildersten sono morti di Stoppard.

I protagonisti che si contendono la scena sono numerosi: Cassandra Pressman (Rachel Keller, Legion) leader naturale del gruppo, che ha problemi di cuore; sua sorella Allie (Kathryn Newton, Big Little Lies), che presto diventa forzatamente il punto di riferimento della comunità; il loro cugino Sam (Sean Berdy, Switched at Birth), un ragazzo sordo gay, e la sua migliore amica Becca (Gideon Adlon), che è incinta; Il fratello maggiore di Sam, Campbell (Toby Wallace), che mostra tendenze psicopatiche e ha un comportamento abusante e intimidatorio nei confronti della sua ragazza, Elle (Olivia DeJonge); il miglior amico di Allie, Will (Jacques Colimon), cresciuto con genitori in affido e senza una sua casa; Luke (Alexander MacNicol), ex-giocatore di football, e la sua ragazza Helena (Natasha Lui Bordizzo), molto religiosa; Harry (Alex Fitzalan), un ragazzo ricco abituato a spadroneggiare in città e la sua ex Kelly (Kristine Frøseth); e Gordie (Jose Julian), un giovane con aspirazioni da medico che ha una cotta per Cassandra.

Ammetto che sono affascinata dalla premessa di fondo a prescindere, qui mi è anche piaciuto molto come è stata realizzata – a dispetto del pietoso poster. Il mistero del dove siano, perché siano lì, se i loro genitori siano ancora vivi o no (lo si scopre nella finale di stagione) e come fanno eventualmente a tornare “a casa” è un filo presente, ma tenue. È il pretesto, in fondo…

Il cuore delle vicende è più di tipo politico-sociale: qual è il modo migliore di autoregolarsi e gestirsi, la democrazia o la dittatura? Il socialismo o il capitalismo? Che poteri e che limiti deve avere un governo? E le forze dell’ordine? Quali sono le priorità in una comunità? Come cambia le persone il potere? Che confine ci sono fra interessi personali e comuni? Che sacrifici comporta spendersi a favore della comunità? Come affrontare la scarsità di risorse, alimentari, ma anche culturali? Che cosa significa costruire una nuova vita? Come arginare gli elementi distruttivi o pericolosi di una società? Come va gestito il dissenso? Come si infliggono punizioni? Come si fanno rispettare le regole? Come si decide chi comanda e fa rispettare le regole? Come si tengono in equilibrio le vicende personali e quelle della comunità? Che cosa conta nella vita?

Si dibattono perciò queste problematiche di diritto e scienze politiche, ma anche di natura etica e morale, sia esplicitamente che implicitamente, attraverso argomenti ambiziosi e inaspettati colpi di scena. Si mostrano quanto concrete e quotidiane siano queste questioni, con echi alla realtà che viviamo. Attraverso il microcosmo degli adolescenti si ha, in un certo senso, una versione del mondo che potrebbe essere definita ad usum Delphini, ma che non suona esplicitamente pedagogica, ma è più di stimolo alla riflessione in una trama avvincente. Le speculazioni intellettuali dei ragazzi, che dibattono queste questioni in arene pubbliche o privatamente sono stringentemente legate alla loro realtà, non esercizio astratto. Ne va della loro sopravvivenza e della qualità della loro vita.

I dialoghi non sono particolarmente memorabili, ma la costruzione narrativa è molto solida, e gli interpreti sono talentuosi. Al di là delle premessa fantastica è tutto molto credibile. La parte femminile del cast è servita meglio nel senso che i personaggi femminili sono approfonditi di più, mostrano più spina dorsale e sono genericamente ritratte in modo più positivo della controparte maschile, a cui per ora sono stati riservati ruoli antagonistici o di supporto. Ci sarà tempo di approfondire nella confermata seconda stagione. Un YA adatto anche agli adulti.

lunedì 9 settembre 2019

PEN15: vita di due pre-adolescenti


In PEN15 (da leggersi come “pen-fifteen”, ma anche come “penis” ovvero “pene”, dell’’americana Hulu) due attrici trentenni, Maya Erskine e Anna Konkle, co-ideatrici insieme a Sam Zvibleman. interpretano due ragazzine delle medie  – se stesse da giovani, si può immaginare, considerato anche che i personaggi hanno lo stesso nome di battesimo e che la serie è ambientata nei primi anni 2000, in un’epoca pre-cellulari ed e-mail. Con una vibrante commedia in cui si mostrano i dolori e le gioie della pre-adolescenza si porta attenzione, con rara onestà e assenza di pudore, a verità su quella fase della vita che si tendono a dimenticare o ignorare.

Maya, la cui madre (Matsuko Erskine, vera madre dell’attrice) è giapponese, vive con lei e il fratello in un nucleo familiare felice: il padre batterista (Richard Karn) è spesso via per lavoro, ma manda ogni sera un fax alla figlia per farle sentire la sua presenza; Anna è amata dai genitori (interpretati da Taylor Nichols e Melora Walters) che però fra loro non fanno che litigare e sono prossimi al divorzio. Le due amiche sono come sorelle e condividono tutto, che sia giocare coi Sylvanian, fumare la prima sigaretta, parlare delle cotte per i ragazzi o depilarsi per la prima volta…

Ci sono momenti in cui è evidente che si tratta di due adulte che interpretano delle ragazzine, ma la sospensione dell’incredulità funziona alla grande, anche perché per la gran parte del tempo risultano assolutamente credibili. Il resto del cast giovane è composto da ragazzi che hanno effettivamente l’età che si suppone debbano avere, e anche se non ce ne è bisogno perché si immagina, la serie rassicura con una scritta in sovrimpressione che in alcune scene vengono usati dei body double.

Sono partita un pochino tiepida nei confronti di questo programma apprezzato dalla critica. Avevo l’impressione che si proponesse una versione di quell’età un po’ come, quando avevo quegli anni, me la suggeriva la rivista “Cioè” ovvero donne giovanissime interessate solo ai ragazzi, al look e alla musica. Io a quell’età non mi ci ritrovavo, e ora da adulta ritengo tutt’ora che quella versione della pre-adolescenza sia stereotipata e riduttiva, ma anche che probabilmente ero uno po’ fuori dal coro, io che, di fatto, sono sempre probabilmente stata anche percepita come un po’ “strana”, rispetto alle mie coetanee. Ritengo vero, ad esempio, che le persone di quell’età fossero e siano interessate ai cantanti, per quanto a me non avesse mai potuto interessare di meno, quando avevo già un forte interesse nei confronti del piccolo schermo, che veniva all’epoca ignorato. All’inizio vedevo perciò in questa serie un ennesimo specchio distorto, un falso rispetto al mio sentire e pensare a quell’età. Presto però, e con il passare degli episodi, mi sono completamente ricreduta e penso che sia siano raggiunti livelli di profondità notevoli nello scavare nella psiche verde di quei momenti così vulnerabili e fondanti.

PEN15 non mostra adolescenti extra-cool da copertina di rivista patinata, come troppo spesso accade in TV, ma quelle della vita reale, impacciate e inesperte, che cercano di imparare a navigare le prime relazioni sociali, e a gestire situazioni più grandi di loro, il giudizio e le aspettative dei coetanei e degli adulti (1.04 in questo senso è particolarmente significativa), e a capire chi sono (in 1.06 Maya fa i conti con la parte giapponese di sé, ad esempio, e si parla di razzismo in modo sorprendentemente originale, nella misura in cui nasce in modo apparentemente innocuo e sotterraneo, non crudelmente voluto)… da un lato sono apparentemente adulte, dall’altro di un’ingenuità disarmante. Si fanno magari pesanti allusioni sessuali, contemporaneamente ci si incanta ad occhi aperti a vedere il compagno di classe che entra nella stanza, si costruiscono e distruggono amori a ritmo di bigliettini di carta passati fra i banchi di scuole, si scopre la masturbazione…

A quest’ultimo tema è dedicata la puntata “Ojichan” (1.03) e c’è una buona dose di umorismo nel mostrare l’imbarazzo di Maya, che vive questo momento di scoperta del sé come se venisse costantemente osservata da un antenato defunto. Pur consapevole del fatto che questo sia un campo della vita in cui non esiste un’età fissata per essere scoperto, personalmente mi sembrava un’età decisamente molto tardiva. Mi ero posta lo stesso interrogativo, se appunto non fosse un po’ tardi, anche guardando “Ramy” che fa fare le prime esperienze al protagonista maschile grosso modo alla stessa età. Ho cercato di indagare in proposito, ed evidentemente, ammesso appunto che non c’è mai un troppo presto o troppo tardi, è un’età in cui nella media è ragionevole iniziare.

La parte sorprendente è anche quanto espliciti si sia nel mostrare la realtà: la sostanza lubrificante della vagina viene mostrata sulle mani di Maya, che la osserva; quando le arriva il ciclo (che lei non confessa perché ha timore di diventare donna e vorrebbe rimanere ancora un po’ bambina), si vede il sangue, anche raggrumato, sulle mutante e sulla carta igienica; quando si mettono nella vasca da bagno a radersi le gambe, si vedono i peli lunghi. Non ci si nasconde da realtà quotidiane della vita delle giovani donne insomma, quando normalmente queste sono aspetti ancora tabù, che raramente si mostrano senza imbarazzo. Non  ci sono sterilizzazioni e addolcimenti, si aspira all’autenticità.

Lo stesso vale per i sentimenti, le prime cotte e simpatie, delicatissimi e appena abbozzati, tante volte, e proprio per questo forse così difficili da rendere con la pregnanza e l’acume con cui ci si riesce. Qui c’è un lavoro di messa in scena, ma ancora prima di scrittura, davvero lodevole. Le puntate della prima stagione sono 10.