venerdì 28 luglio 2023

MO: un rifugiato palestinese in Texas

Già confermata per una seconda (e ultima) stagione, Mo (Netflix) ha come protagonista Mohammed "Mo" Najjar, un rifugiato palestinese che vive a Houston, in Texas ed è liberamente ispirata dalla vita di Mo Amer (Ramy), che lo interpreta (mentre da bimbo gli dà il volto Ahmad Rajeh) e che ha ideato la serie insieme a Ramy Youssef, già autore di Ramy, a cui si accosta come tipo di sensibilità per la riflessione su tematiche di immigrati che si trovano divisi fra la propria identità di partenza e il contesto nuovo in cui vivono, appartenendo a entrambi e a nessuno contemporaneamente, e che devono conciliare modi di pensare e valori che non collimano. Si affrontano anche questioni come le labirintiche peregrinazioni burocratiche e l’islamofobia.  

Mo sono vent’anni che aspetta di avere la cittadinanza americana, ma per un motivo o per l’altro non riesce mai ad averla. Quando perde il lavoro si ritrova a doversi arrabattare con attività poco pulite, come vendere merce contraffatta, e non poco pericolose. Suo malgrado, poiché vuole una vita onesta. Vive con la madre Yusra (Farah Bsieso) e il fratello Sameer (Omar Elba), che è nello spettro autistico, ed è moto protettivo nei loro confronti. La sorella Nadia (Cherien Dabis, e Mariah Albishah da piccola) vive invece per conto proprio. Mo ha una ragazza, Maria (Teresa Ruiz), cattolica (e per questo non ben vista a Yusra), di origine messicana, che lavora in una sua officina di riparazione auto, mentre il suo migliore amico è Nick (Tobe Nwigwe).

La serie è stata molto lodata dalla critica perché riesce a trattare con levità tematiche anche molto pesanti. Quando l’avvocata che li segue si dimostra poco interessata al suo caso, Mo decide di licenziarla e assume un’esperta di immigrazione, Lizzie Horowitz (Lee Eddy), che sembra finalmente poter dare una svolta alla situazione, nonostante venga guardata con sospetto dalla madre perché non è palestinese come la precedente. Emergono situazioni dolorose e difficili. Con una serie di flashback si ricostruisce la storia di fuga dal Kuwait della famiglia Najjar durante la Guerra del Golfo, le torture subite dal padre, l’infanzia e l’adattamento alla nuova realtà… È raro che in TV si racconti l’esperienza palestrinese. Qui lo si fa in modo agrodolce, umoristico, ma anche amaro. E le trappole del sistema emergono in moto autoevidente. Mo si trova davvero in situazioni molto pericolose. Il ricordo del padre Mustafa (Mohammad Hindi) fa sì che lui si interroghi anche sul tipo di uomo che vuole essere, nel presente anche in virtù del passato, per rendere onore al genitore.

Un’altra ragione di elogio è stata la rappresentazione di Sameer. A quanto pare, nonostante la grande prevalenza in tutto il mondo, nei confronti dell’autismo c’è particolare stigma in Medio Oriente, ed è molto meno diagnosticato nella cultura araba. Per il personaggio non c’è una diagnosi ufficiale, visto il tabù, nonostante sia nella trentina inoltrata, ma semplicemente si è consapevoli che è diverso da chi lo circonda ed ha alcune peculiarità. Lo stesso interprete è nello spettro, anche se a un livello diverso rispetto a Sameer, e ha fatto specifiche ricerche in modo da rappresentalo nel modo più autentico possibile: “Elba ha scritto una parte delle scene, in particolare quelle che comprendono le fasi di meltdown di Sameer, dalla perseveranza al discorso frammentato e all'ecolalia ritardata (in cui un individuo autistico memorizza una frase o addirittura un paragrafo del discorso - da un libro o da un programma televisivo, per esempio - e poi lo ripete dopo un certo periodo di tempo)” (Middle East Eye).

Mo non è un programma rivelazione, e potrebbe essere più divertente, ma è uno di quei programmi che già sono radicali per il solo fatto di esserci, riuscendo anche a non farsi intrappolare dalla rappresentazione stereotipica di musulmani e arabi come cattivi o vittime. Il protagonista ha l’aria di un orsacchiottone che tiene molto alla propria famiglia e cerca di fare del suo meglio anche quando questo non porta ai risultati sperati. I personaggi sono complessi ben recitati. E, come ha scritto Farah Cheded su The Playlist, “(i)l solo fatto che l'identità palestinese abbia un ruolo così centrale nello show è di per sé importante; inoltre, permette alla serie di riconoscere i legami intercomunitari creati dalle esperienze di Mo e della sua famiglia. In alcuni punti, la serie punta i riflettori di conseguenza: l'episodio conclusivo della stagione, "Vamos", dedica una piccola parte dell'attenzione ai pericoli e alle difficoltà che i rifugiati devono affrontare al confine tra Messico e America. Per esempio, altrove vengono fatti dei paralleli con le ingiustizie commesse nei confronti del popolo Karankawa dell'ambientazione texana del programma. Si tratta di piccoli momenti, ma che parlano dell'autoconsapevolezza dello show: sa che, ad Alief, Houston, le esperienze di Mo e l'identità che le ha informate non lo isolano dagli altri, ma lo collegano”.

martedì 18 luglio 2023

BEEF - LO SCONTRO: una dark comedy amara e catartica

Beef, divenuto “Lo scontro” in italiano, è una serie rivelazione in 10 puntate che conto io stessa già fra le migliori dell’anno: esplora il tema della rabbia, dalla scintilla di uno scontro di road rage, come viene chiamato in inglese, ovvero di una schermaglia stradale che lancia i due coinvolti in una spirale di ritorsioni e vendette che va fuori controllo, fino a un finale spettacolare, profondo, divertente e un “arrendersi” esistenziale che mostra i due contendenti più vicini l’uno all’altra di quanto non ci si sarebbe aspettati. Se al debutto ho percepito questa dark comedy come fastidiosa più che divertente, perché l’amarezza di due persone che sfogavano la propria infelicità e frustrazione cercando di distruggersi a vicenda era più dolorosa e demoralizzante che esilarante, a mano a mano che le motivazioni di entrambi si sono rilevate e la loro umanità si è mostrata come tridimensionale ha brillato sempre più, ed è stato catartico  l’eccesso in cui sono arrivati i loro comportamenti squilibrati, nel memorabile, emotivamente coinvolgente finale.  

Amy Lau (Ali Wong) è una ricca donna d’affari di origine coreana che gestisce Kōyōhaus un’attività di vendita di piante, e sta per concludere un importante affare con Jordan (Maria Bello), che ha uno store di articoli per la casa, Forsters. È sposata con un giapponese, George (Joseph Lee), uno pseudo-artista che crea vasi e che nessuno prende sul serio, nemmeno la madre Fumi (Patti Yasutake), e con lui ha una figlia. Il loro rapporto però è un po’ in crisi. Lei è sempre con i nervi a fior di pelle, lui è un tipo sempre ultra-positivo. David Cho (Steven Yeun, The Walking Dead), pure di origine coreana, è un appaltatore in bolletta che si arrangia con i lavoretti che riesce a trovare per sbarcare il lunario e sogna di costruire una bella casa per i propri genitori, costretti a tornare in Corea dopo il fallimento della loro attività come manager di motel. Ha un fratello più giovane, Paul (Young Mazino), che passa il tempo a giocare ai videogiochi e a investire in criptovalute, che lui vorrebbe coinvolgere nel proprio lavoro. Lo aiuta all’occorrenza il cugino Isaac (David Choe), da poco uscito di galera. Un po’ di tensione riesce a scaricarla frequentando la chiesa evangelica.

Amy e David si incontrano, o meglio si scontrano, nel parcheggio fuori da Forsters, quando lui per poco non va addosso all’auto di lei, che era andata lì per firmare un accordo molto lucrativo, mentre lui per ritornare degli oggetti (il cui significato lo scopriremo in seguito e non lo rivelo per evitare spoiler). L’alterco ha un’escalation e lei sfreccia via con la sua auto bianca, ma non prima che lui riesca a prendere il numero di targa. Rabbioso, si presenta a casa di Amy fingendosi qualcun altro e, da lì, si progredisce in dispetti reciproci via via più intensi e pericolosi che coinvolgono anche gli alti personaggi, perché Amy si avvicina al fratello di lui e David al marito di lei.

Lee Sung Jin ha ideato una miniserie che, a detta di chi è in grado di valutarlo, è ricchissima di specificità e inside jokes per la cultura coreano-americana, senza tropi per arruffianarsi i bianchi, come osservano sull’HuffPost (qui) dove pure riflettono sul backlash che si è sollevato quando è venuto fuori un video in cui Choe, che interpreta il cugino Issac, si vantava di aver costretto una ragazza a del sesso orale. In seguito ha ritrattato dicendo che le sue dichiarazioni erano finzione artistica. Questa glorificazione di una fantasia di stupro su una piattaforma pubblica può causare danni irreparabili. La giornalista, lei stessa vittima di stupro, ha dichiarato che ha trovato difficile separare il personaggio dal suo interprete, e chiosa: “Considerando il capitale culturale di piattaforme come Netflix e il potere dei direttori di casting di Hollywood, spero che questo contraccolpo ricordi loro che le loro decisioni creative hanno conseguenze di vasta portata al di là delle loro visioni artistiche. È importante ritenerli responsabili ed esigere che non sostengano finanziariamente coloro che considerano l'abuso sessuale una questione scherzosa”.

Al di là di questa polemica, su cui vale la pena riflettere, la serie è stata vista anche come una metafora dei social media, dove feroci faide, rabbia, ossessioni, rancori e meschinità vengono talvolta fomentate da sciocchezze e divampano per dar sfogo a insoddisfazioni che spesso non sono nemmeno ideologiche, ma dovute a malessere individuale. Al di là della differenza di stato economico da protagonisti, qui è proprio la psicologia dei personaggi a fare da motore al loro scontro. Si è caustici nel riuscire a mostrare l’amarezza di due persone infelici, che cercano di sabotarsi a vicenda rendendo la propria vita via via più miserabile, con due notevoli prove attoriali da parte degli interpreti.

Beef ha ricevuto nei giorni scorsi la nomination agli Emmy come miglior limited series, così come l’hanno ricevuta i due interpreti.

sabato 8 luglio 2023

SILO: una entusiasmante distopia

"Non sappiamo perché siamo qui. Non sappiamo chi ha costruito il silo. Non sappiamo perché tutto ciò che è fuori dal silo è così com'è. Non sappiamo quando sarà sicuro uscire. Sappiamo solo che quel giorno non è oggi". Viene ripetuto più volte, quasi un mantra, questo ricorsivo epigramma che gli abitanti del Silo della omonima serie distopica di AppleTV+ conoscono a memoria. È ideata da Graham Yost (Justified) e basata sulla La Trilogia del Silo, nove romanzi dell'autore Hugh Howey. Ha debuttato lo scorso 5 maggio 2023 ed ha appena chiusa la sua coinvolgente prima stagione con una season finale appagante, ma alo stesso tempo intrigante a sufficienza da lasciare sete per una già confermata seconda stagione. Sin dall’esordio è molto appassionante, una serie che sa quello che è e dove vuole andare e non perde tempo, asciutta, efficace, di grande atmosfera. La sigla, soprattutto musicalmente parlando, richiama Westworld, ed è uno spettacolo in sé con i suoi giochi di spirali, scale a chiocciola, e rimandi al DNA, alla spina dorsale e al generatore che sostiene la vita della comunità ritratta. 

Siamo in un futuro imprecisato e la gente vive in un bunker sotterraneo, il silo del titolo, da cui non ha la possibilità di uscire a meno che non lo chieda espressamente. In quel caso, se proprio dice ad alta voce “Voglio uscire”, non può più ritirarlo, diventa irrevocabile, la persona viene arrestata ed espulsa, cosa che equivale ad un suicidio, perché la vita fuori è invivibile. Ma lo è davvero? Viene chiesto a queste persone, debitamente preparate con un apposito abbigliamento stile “astronauta”, di pulire una volta uscite il vetro degli oblò delle vetrate da cui la comunità che abbandonano riesce a guardare fuori e che mostrano una terra invivibile, e gli eventuali cadaveri di chi è uscito. Non sono però obbligati a farlo. Se si deve eliminare qualcuno dalla comunità in ogni caso, lo si manda “a pulire”, come dicono in gergo.

Agli inizi della storia si festeggia il 140° anniversario del Giorno della Libertà, il giorno in cui fu sedata una ribellione che minacciava di aprire le porte del silo al mondo esterno, durante la quale sono stati distrutti tutti i file e i libri appartenenti al mondo passato.  Quello che è stato prima non si sa, si conosce solo attraverso “reliquie”, oggetti del mondo passato, ammessi solo se legali. I livelli del silo sono numerosissimi e tutta la vita è regolata da ferree regole sotto il controllo del Giudiziario. La serie debutta con lo sceriffo Holston (David Oyelowo) che chiede di poter uscire. Tempo prima lo aveva fatto la moglie Allison (Rashida Jones), convinta che fuori non fosse così invivibile come dicevano, a seguito della scoperta di alcuni file e, pur avendo ricevuto l’autorizzazione a rimanere incinta, sospettosa del fatto che i loro problemi di fertilità non fossero dovuti a loro. George, l’esperto di computer con cui Alison aveva fatto queste scoperte, viene trovato ucciso, e Juliette (Rebecca Ferguson, anche produttrice esecutiva), che era la sua ragazza (con cui aveva una relazione, anche se non autorizzata), è convinta che non sia un suicidio come vogliono far credere. Lei è un’ingegnera da cui dipende il buon funzionamento del motore che tiene in vita il silo e George l’aveva messa a parte di alcune scoperte.

Presto si sente in dovere di accettare una proposta che le arriva dalla sindaca Ruth (Geraldine James, Anne with and E) e diventerà lei la nuova sceriffa, incarico che accetta per poter meglio indagare. Viene affiancata nel suo ruolo da Paul Billings (Chinaza Uche), vero esperto del Patto, il documento che regola la vita nel loro microcosmo, e affetto dalla "sindrome", una condizione medica che provoca tremori che vuole tenere nascosta. Juliette finirà per scontrarsi con Robert Sims (Common) il minaccioso capo della sicurezza, e con Bernard Holland (Tim Robbins), a capo del Dipartimento IT. Trova invece degli alleati, anche se in qualche caso riluttantemente, in Patrick Kennedy (Rick Gomez), un rustico addetto alla manutenzione ed ex contrabbandiere di "reliquie", e nel timido Lukas Kyle (Avi Nash), un esperto di tecnologia che per primo le fa notare che nel cielo ci sono dei puntini luminosi, anche se nessuno dei due sa che cosa possano essere. Juliette scoprirà che le cose non sono come sembrano. E lo scopriamo anche noi. È separata dal padre, il dottor Pete Nichols (Iain Glen, Il Trono di Spade) da quando era ragazzina, e ad avere nei suoi confronti un ruolo genitoriale e farle da confidente è “Walk”, ovvero Martha Walker (Harriet Walter, Succession) esperta di ingegneria elettrica che gestisce un'officina nei livelli inferiori del Silo da cui non esce letteralmente mai.

Con grande atmosfera, e un’illuminazione di primordine che impedisce che ci sia la sensazione di claustrofobia nonostante di svolga in sotterraneo, questa distopia procede lla creazione di un mondo istantaneo. Il world building avviene senza spiegoni o complicanze e riesce ad essere dettagliato e a fornire i punti di riferimento essenziali per muoversi con agilità in quel contesto, come il fatto che i vari piani del silo, oltre 100 e privi di ascensore, si portano dietro anche differenze di classe (più socialmente importante sei percepito, più stai in altro). Le tematiche che si toccano sono legate alle divisioni sociali, al potere delle informazioni e come vengono usate o tenute nascoste per il controllo sociale, all’autoritarismo, alla nascita di teorie di cospirazione, alle menzogne del potere, al valore del vedere (il panottico che è il silo, in cui tutti vengono controllati anche senza saperlo, quello che si vede fuori, le immagini del mondo di prima), il ruolo della memoria… Come scrive Lucy Mangan sul Guardian, è uno studio sulla cancellazione e su chi può scrivere e riscrivere la storia e tratta anche dei vantaggi e degli svantaggi che si incrociano e competono di sapere la verità o di negarla, sia per l'individuo e per la collettività; un ruolo di rilievo lo hanno anche un paio di donne anziane (la sindaca e Walk), cosa rara e preziosa da vedere, che ho apprezzato.

Si tratta di un drama fantascientifico ibridato con una storia da detective, uno di quegli appuntamenti a cui non vedi l’ora di concederti non appena esce il nuovo episodio. Le prime due puntate in particolare sono uno dei debutti migliori dell’anno, con la terza c’è forse un calo perché ci si focalizza sulle indagini, ma non c’è un momento di stanca, la trama si infittisce e ti trascina fino alla fine. Per me  indubbiamente una dei programmi migliori dell’anno. 

mercoledì 28 giugno 2023

BLACK MIRROR: la sesta stagione diventa "Red Mirror"

Le ipotesi distopiche di Black Mirror, che hanno di regola come punto focale la tecnologia e i media, sono riprese dopo quattro anni di assenza con una sesta stagione che comincia con un debutto molto solido, ma poi vira indubbiamente verso un Red Mirror. Ovvero, se tradizionalmente la serie fa riferimento al display nero di quando spegniamo gli schermi (siano della TV, del PC, del tablet, del cellulare o quant’altro) in cui vediamo riflessi come in uno specchio noi stessi, nella gran parte degli episodi di questa tranche, si vira invece decisamente verso l’horror, un orrore che non fa veramente paura, ma che è decisamente truculento, rosso sangue, appunto un Red Mirror. ATTENZIONE SPOILER

La prima delle nuove puntate, “Joan is awful – Joan è terribile” (6.01), si concentra su una giovane donna, la Joan del titolo (Annie Murphy, Schitt’s Creek) che si rende conto che, a stretto giro, la sua vita viene mandata in onda dal servizio Streamberry – Netflix che si prende con autoironia - ricostruita da un quamcomputer (un computer quantistico), solo in modo tale da accentuare il più possibile i suoi tratti in modo da farla sembrare davvero una persona orribile. Ad interpretarla nella finzione è Salma Hayek. Alla nausea e allo shock momentanei prende posto il senso si rivalsa e giustizia. Oltre alla riflessione sull’”orrore mesmerizzante” che attira il pubblico, e che almeno da tre delle puntate sembra un leit motiv della stagione, si riflette su ciò che è reale e ciò che non lo è, e sullo sfruttamento dell’immagine delle persone: Joan è una persona qualunque, ma qualcuno a cui la gente può relazionarsi. C’è più di un colpo di scena inaspettato, anche in considerazione del fatto che queste anime simulate dal computer si considerano reali, e la tensione è sempre al massimo. Non voglio rivelare di più se non dicendo che diventa un concettuale mise-en-abyme. La migliore delle puntate di questo gruppo.

La seconda delle proposte, “Loch Henry” (6.02), vede una giovane coppia, Davis (Samuel Blenkin) e Pia (Myhala Herrold, Industry) recarsi in Scozia per girare un documentario. Volevano farlo su un guardiano di uova rare, ma finiscono per farlo su un locale serial killer torturatore, Iain Adair. Ne esce una sorta di horror anche piuttosto prevedibile, ma la riflessione è su quello che attiva lo spettatore, su quello che la gente guarda (non un protettore di uova, ma un torturatore) e su come l’industria premi questo genere di operazioni, spacciandole per arte, e curandole come tale, ma con totale disinteresse nei confronti della realtà umana che ci sta sotto. E nel corso di una fittizia diegetica premiazione ai BAFTA (premio TV britannico) si fa anche una strizzatina d’occhio a puntate precedenti della serie, menzionando fra i documentari un certo “The Callow Years”, dove Callow era il sindaco protagonista della primissima puntata di Black Mirror, e un certo “Junipero Dreaming” riferimento all’amato episodio di San Junipero (3.04). Per gli Easter egg della stagione, si veda questo articolo di Entertainment Weekly.

Una fine horror, che lascia francamente sconcertati, è anche quella di “Beyond the Sea” (6.03), dove due astronauti Cliff (Aaron Paul, Breaking Bad) e David (Josh Hartnett), bloccati nello spazio per anni, riescono a tornare sulla terra con le proprie famiglie grazie a repliche meccaniche dei loro corpi. Quando degli estremisti contrari a questa tecnologia uccidono la famiglia di David e gli distruggono il corpo meccanico, il compagno Cliff gli offre generosamente di usare il link al proprio corpo meccanico per avere un po’ di tregua dal lavoro. Così conosce la moglie di lui, Lana (Kate Mara). Prevedibilmente la situazione prende una brutta piega, ma con una conclusione diversa da quella che ci sia sarebbe aspettati, o che almeno io mi sarei aspettata.

Ancora la nostra ossessione per le celebrità e i dettagli più scabrosi e torbidi delle loro vite è davanti all’obiettivo in “Mazey Day”, dove l’attrice che porta il nome che dà il titolo all’episodio (Clara Rugaard), dopo un omicidio stradale non confessato, sparisce dalla scena pubblica e un gruppo di amorali paparazzi fanno di tutto per scattare la foto scoop. E se le ultime inquadrature sono l’essenza delle serie e di quell’orrore mesmerizzante che si menziona in apertura, con la fotografa Bo (Zazie Beetz) che scatta qualcosa che sta alla nostra immaginazione vedere quel che ben intuisce, il twist qui c’è nello svolgimento all’insegna dell’horror sovrannaturale, con la diva che si dimostra essere una licantropa, scelta che non sono sicura di gradire in questo contesto.

L’apice di questa tendenza lo abbiamo nella conclusiva “Demon 79”, dove un simpatico demone (Paapa Essiedu), che deve completare la sua iniziazione e “mettere le ali”, e che si manifesta attraverso una tessera del domino, convince una commessa indiana, Nida (Aniana Vasan), che nella vita quotidiana subisce costanti micro-aggressioni, a uccidere 3 persone per scongiurare la fine del mondo, che, colpo di scena, visto che lei non porta a termine il suo compito, arriva davvero. L’episodio, l’unico che non sia stato scritto solo dall’autore Charlie Brooker, ma anche da Bisha K. Ali, che affronta tematiche di razzismo, xenofobia e atteggiamenti fascisti ostili alle minoranze, è pieno di rabbia e tende decisamente allo splatter. Ambientata nel 1979, ha proprio negli opening credits l’indicazione che si tratta di un episodio Red Mirror.


Ispirata a The Twilight Zone - Ai Confini della Realtà, Black Mirror ha sempre indagato il lato oscuro della tecnologia, abitando il confine “fra piacere e disagio” come ha detto a suo tempo l’ideatore a The Guardian (qui). Sebbene continui ad offrire in ogni caso spunti di riflessione attuali e pregnanti anche con questa tangente “rossa”, un approccio più “tradizionale” lo preferisco

domenica 18 giugno 2023

THE POWER: ragazze elettriche

Premetto che ho letto, e mi è piaciuto molto, il libro The Power – Ragazze Elettriche di Naomi Alderman, da cui è tratta l’omonima serie TV di Amazon Prime, in cui all’improvviso tutte le ragazze adolescenti del mondo sviluppano un nuovo organo chiamato skein in originale, e anche EOD (Electric Organ Discharge), alle clavicole che permette loro, un po’ come le anguille, di rilasciare scariche elettriche a piacimento attraverso la punta delle dita. Acquisiscono perciò un grande potere che possono trasferire anche ad altre donne già più mature. Ricordo poco della lettura, che aveva riscosso notevole successo negli Stati Uniti e poco in Italia ma, rilevante ai fini della serie sviluppata dalla stessa Alderman insieme a Raelle Tucker, Sarah Quintrell e Claire Wilson, perché la questione è identica, è che lì dove il libro non è piaciuto la critica più comune era che le donne alla fine, ottenuto il potere, si comportavano come e peggio degli uomini. Non vedo perché dovrebbe essere diverso, le donne sono persone come gli uomini, ma secondo me è un’interpretazione fuorviante nel senso che la conclusione da trarre per me non è “le donne al potere sono come gli uomini”, ma “gli uomini si comportano così ora, non in un ipotetico mondo distopico”: il romanzo, e ora la serie, in linea di massima ci mostra la realtà, solo cambiando il genere sessuale di chi ha il potere. Ci ricorda di continuo che la realtà è una società patriarcale che troppo spesso fa sentire le donne insignificanti e in pericolo.

“Non avevamo mai osato immaginarlo. Un mondo che era stato creato per noi. Dove eravamo noi a dettare le regole. Dove potevamo prendere quello che volevamo. Un mondo dove Dio aveva le nostre sembianze. Dove non avevamo paura. Dove eravamo noi quelle da temere. Quel mondo era sempre stato a portata di mano per tutto questo tempo. Non dovevamo far altro che bruciare il mondo che conoscevamo”. (1.01 – traduzione mia dalla versione originale in cui l’ho guardato. Quella ufficiale potrebbe essere diversa).

Jos Cleary-Lopez (Auliʻi Cravalho, che è la voce della protagonista nel film della Disney Oceania nella sua versione originale), una delle prima a sviluppare questo potere, è la figlia della sindaca di Seattle, Margot (Toni Collette), che presto farà campagna elettorale proprio sul tema dell’EOD, contro Daniel Dandon (Josh Charles, The Good Wife), governatore dello Stato suo rivale, ed è uno dei maggiori fulcri attraverso cui si costruisce la narrazione. È sposata con il dottor Rob (John Leguizamo) che ne ha sempre sostenuto la carriera e le ambizioni. Oltre a Jos, la coppia ha due figli, una bambina, Izzy (Pietra Castro) e un ragazzo adolescente, Matt (Gerrison Machado), che sente la propria mascolinità molto minacciata dallo sviluppo di questo potere da parte delle donne, tanto da sostenere frange estremiste misogine. Ryan (Nico Hiraga), il ragazzo di Jos, pure rivelerà un inaspettato lato di sé.

Roxy Monke (Ria Zmitrowicz) è la figlia illegittima di un ganster, Bernie (Eddie Marsan). Dopo che la madre viene assassinata, lei segue le orme del padre, di cui diventa l’enforcer grazie al proprio potere, nonostante questo non stia troppo bene al fratello maggiore Ricky (Jacob Fortune-Lloyd). Allie (Halle Bush), una giovane donna che sente le voci che attribuisce alla Dea e che in seguito si fa chiamare Eve, grazie alla nuova capacità uccide il padre adottivo che abusava di lei e scappa rifugiandosi in un convento per ragazze che non hanno altrove dove andare. Ad accoglierla è sorella Maria Ignacia (Daniela Vega), suora transgender che a sua volta era stata accolta da Sorella Veronica (Emily Kuroda), madre superiora scomunicata delle Sorelle di Cristo. Tatiana Moskalev (Zrinka Cvitešić), ex-ginnasta e moglie del presidente moldavo, riesce ad avere il potere per trasmissione, e si trova in contrapposizione alla leader di un gruppo di ribelli, Zoia (Ana Ularu), che altri non è se non sua sorella. Tunde (Toheeb Jimoh, Ted Lasso) è un videogiornalista nigeriano che, dopo che l’amica Ndudi (Heather Agyepong) rimane coinvolta in un incidente “elettrico”, decide di lavorare raccontando il mondo che cambia a seguito di questo evento.

“Ogni rivoluzione comincia con una scintilla” (1.01). Sentire Jos che racconta di essersi trovata per caso, per aver perso la cognizione del tempo, fuori di notte da sola, e di non aver avuto paura (1.05), da donna è stato davvero, oso dirlo, elettrizzante. Pensa davvero poter vivere in un mondo in cui non hai paura ad usciere di notte da sola, mi sono detta: che sogno. Questo la serie riesce a fare, che ha di entusiasmante: immaginare un mondo in cui non si viene prevaricate per essere donne e questa è la parte positiva e propositiva, che ricorre attraverso le parole di Tunde che da uomo assiste al riscatto di donne oppresse che si liberano. Un'ondata di manifestanti femmine in Arabia Saudita passa davanti a soldati maschi terrorizzati, un gruppo di schiave del sesso riesce finalmente a fuggire e a correre fuori verso la libertà… Parte della visione utopistica rappresentata viene dal fatto che giovani che hanno questa dote – possiamo vederla come una acquisita consapevolezza, in termini allegorici – la possono trasferire alle più mature. Oltre alla riflessione sul potere e le sue dinamiche, evidentemente, c’è la constatazione di come effettivamente la forza fisica definisca chi può dettare le regole nella società, c’è la metafora narrativa della autodeterminazione, dell’autonomia decisionale e dei limiti al corpo delle donne, dove la proposta rimozione dell’EOD si presta come facile metafora per l’aborto e la contraccezione.

La parte più difficile da digerire è vedere sia la legittima paura nel volto maschile, che è specchio della paura delle donne nella realtà, che la fragilità degli uomini che si sentono intimoriti dall’idea che qualcun altro abbia per una volta quello che loro hanno sempre avuto, amplificazione di quello che succede costantemente nel quotidiano di maschi che si ribellano ogni volta che qualcun altro che non è loro rivendica un ruolo paritario, come se “passare il microfono”, come si dice, come se dare voce ad altri (minoranze sul palcoscenico sociale di ogni genere) minacciasse il loro primato. Questo la serie lo mette in scena molto adeguatamente. Lascia anche a disagio vedere quelle situazioni in cui le donne prevaricano gli uomini con stilemi classici che gli uomini usano costantemente con le donne (come non sussultare quando si vede Roxy che chiede a un uomo grande e grosso di sorridere?). Notevole anche che si intersechino questioni di genere non limitandosi alla binarietà, ma con personaggi trans e intersex, anche se per ora sono per la gran parte visti in prospettiva cisgender, molto poco dalla loro.

Che la serie sia rilevante e ben costruita è indubbio – e almeno durante questa prima stagione, le storie sono in gran parte scollegate - ma non riesce ad avere quella eleganza di “The Handmaid’s Tale” (nonostante qualche tocco ben riuscito come l’immagine di Eve stile “Ultima Cena” di Leonardo) o quella imprescindibilità di visione che la renderebbe più appetibile. Poi, ammetto che come sempre in queste situazioni mi chiedo: quanti uomini la guarderanno? Se è in parte inevitabile che si crei una “guerra fra sessi”, non c’è niente di più distruttivo, tanto più se la si legge come una interpretazione del presente e vorrei assistere almeno a uno sforzo nel costruire un’alternativa che non veda il più forte prevaricare il più debole. Usare violenza o meno è una scelta, e su questo riflette anche la serie, e parte del processo educativo di sé stessi è saperla usare o trattenersi dal farlo (in questo senso c’è un bel colpo di scena nella season finale dal quale ci si domanda come si possa uscirne). Non credo che la finzione debba per forza avere un mandato educativo, ma certo non può sfuggire alla riflessione l’interrogarsi su possibili alternative costruttive. Dopotutto, come ben si intende, il futuro è nelle nostre mani.

giovedì 8 giugno 2023

TED LASSO: una terza e ultima stagione sottotono

Comincia con Ted Lasso (Jason Sudeikis) in aeroporto la terza e ultima stagione dell’omonima comedy (Apple TV+) che ha saputo conquistare il pubblico, e finisce ad arco quasi allo stesso modo con lui che ha deciso di rientrare negli Stati Uniti per stare vicino al figlio. Una fine scontata, e va bene in questo modo, così come sarebbe stato un tradimento dello spirito dello show se non avessimo avuto un lieto fine generale. Le puntate sono state più lunghe in questa tranche. Non è dispiaciuto in sé, ma c’è stata la sensazione che si sia persa la focalizzazione, in una stagione che ha regalato sorrisi e cuore come sempre, ma che non è stata di certo al pari delle altre, con alcune storie di cui si poteva fare volentieri a meno e altre che non avevano senso.

La prima puntata si apre e chiude con Ted piuttosto giù di corda. Il figlio Henry (Gus Turner), stato in visita da lui per sei settimane è tornato a casa dalla madre a Kansas City, e si rende conto che la sua ex ha un nuovo amore nella sua vita. In generale si chiede che senso abbia per lui rimanere in Inghilterra. La AFC Richmond, che allena, tutti si aspettano che arrivi ventesima; solo perché non c’è un ventunesimo, maligna Nathan “Nate” Shelley (Nick Mohammed), l’ex tuttofare diventato l’allenatore prodigio (Wonder Kid) e assunto dalla favorita West Ham, di proprietà di Rupert (Anthony Head, che se rimane nel cuore come l’osservatore di Buffy, qui sa essere odioso a sufficienza), l’ex della attuale proprietaria della AFC Richmond, Rebecca (Hannah Waddingham, Sex Education). In modo fin troppo evidentemente metaforico, Ted porta la squadra a visitare le fogne della città.

Da subito si mettono in parallelo due stili umani e professionali. Nate già dalla fine della scorsa stagione è ufficialmente il cattivo della situazione e nel suo nuovo ruolo si comporta come un bullo. Non risponde ai saluti, si aliena gli altri comportandosi da superiore, demolisce i propri giocatori mettendoli sulla "linea del cretino" quando sbagliano, chiede a un assistente che deve temporaneamente sostituirlo di farli correre finché non crollano. Ridicolizza un giornalista che gli pone una domanda. Ted al contrario li incoraggia e invita loro a trarre forza ciascuno dalle qualità che fanno brillare i compagni, e fa i complimenti a una giornalista che gli fa una domanda, e anche quando gli chiedono di commentare gli insulti di Nate nei suoi confronti, la butta sul ridere, lo loda e gli augura il meglio.

Sono entrambi due uomini infelici, ma mentre il primo scarica la propria rabbia e le proprie frustrazioni sugli altri, il secondo non lo fa. Essere depressi non è una scusa per trattale male gli altri: è una scelta sulla base del tipo di uomo che vuoi essere, ci dice la serie. Sembra quasi favolistico, ma credo che non lo sia, che sia alla fine anche una questione di credere nel principio che due mali non fanno un bene e abitudine ad agire sulla base di quella convinzione. Questo ottimismo, questo credere al di là delle circostanze nel prossimo e nelle potenzialità di ciascuno, è quello che ha reso amabile il personaggio. Ted Lasso non è un’ingenuità, è una scelta etica. Questo la serie lo reitera in più situazioni, come quando (3.04) la squadra si rende conto che è stato Nate a strappare il loro poster motivazionale, “Believe”. Ted aveva scelto di non dirlo, ma quando Coach Beard (Brendan Hunt) opta per farlo loro reagiscono con rabbia, ma questo non li aiuta: giocare motivati dall’odio non aiuta a vincere è la lezione.

Il rifiuto della cosiddetta mascolinità tossica e il re-inquadrare le ansie legate a successo e fallimento pure sono due pilastri di questa commedia che ha entusiasmato molti da subito, proprio perché ha fatto una scelta radicale diversa dai soliti cinismo e sarcasmo. In questa stagione però forse si è premuto anche troppo l’acceleratore solo su questo insegnare ad essere persone migliori, con una puntata sul razzismo, una puntata sull’omofobia…fastidiosamente interessati a fare la morale più che ha mostrare come l’intelligenza emotiva e l’empatia possano essere più efficaci della più grande competenza tecnica.

In corso di via in ogni caso, la squadra riprende vigore e scala la classifica, grazie anche ad un arco che introduce la carismatica egotica generosa superstar Zava (Maximilian Osinski), un calciatore ispirato in buona parte a Zlatan Ibrahimovic, evidente dal look perfino a me che di calcio non potrei saperne di meno, così come Nate riesce a riscattarsi e a tornare “sulla retta via”, anche grazie all’amore della cameriera del suo locale preferito, Jade (Edyta Budnik).

Il grande altro punto di forza della serie è l’amicizia al femminile: Keeley (Juno Temple) e Rebecca. Qui si passa il Bechdel Test alla grande, si vedono proprio le donne esserci le une per le altre. Questo è rimasto. Rompere la relazione fa Keeley e Roy Kent (Brett Goldstein) poi era stato un errore a cui troppo tardi hanno posto rimedio, e la storia sentimentale di lei con Jack (Jodi Balfour, For All Mankind) fatta solo di love bombing è parsa pretestuosa, propinataci solo per tenere Keeley lontana da Roy e per aggiungere una mini-storyline lesbica che proprio non ci stava: si capiva in partenza che sarebbe naufragata. Roy rimane uno dei personaggi più divertenti con i suoi grugniti monosillabici e il suo cipiglio astioso addolciti dagli incontri con la nipotina Phoebe (Elodie Blomfield) – ma la vicenda senza senso del suo alito pensante ce la potevano anche risparmiare - e il suo nuovo ruolo da allenatore che si prende a cuore la professionalità di Jamie Tartt (Phil Dunster), in passato suo rivale, è stato uno degli highlight della stagione.

La promozione a personaggio di maggior rilievo di Trent Crimm (James Lance), giornalista ora interessato a scriver un libro su di loro ha funzionato bene (anche se preferivo il suo titolo per il libro, “The Lasso Way” a quello in cui poi è stato cambiato, “The Richmond Way”), ma l’uscita di scena della psicologa, la dottoressa Sharon Fieldstone (Sarah Niles), che ha fatto una comparsata solo in apertura e chiusura, è stata uno spreco. 

Non arrivo a scrivere “Battute spazzatura, trama inetta, sceneggiatura debole... dobbiamo continuare? Questo spettacolo incasinato, noioso e a prova di resistenza è diventato molto più importante di quanto meritasse”, come fa Sian Cain nell’Articolo del Guardian, ma se uno vuole capire che cosa ha reso grande Ted Lasso, è alle prime due stagioni che deve guardare, non certo a questa, però come ammonisce Entertainment Weekly, non dobbiamo lasciare che la deludente terza e conclusiva diminuisca l’eredità spirituale della serie.  

lunedì 29 maggio 2023

SUCCESSION: la memorabile quarta e ultima stagione

Si è appena chiusa Succession, una delle serie più emblematiche e seminali degli ultimi tempi: commedia, tragedia, satira. Pur con sole quattro stagioni ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama televisivo: un successo artistico di prim’ordine.  SPOILER PER LA QUARTA STAGIONE.

L’ultima stagione, che ripercorro a seguire, è iniziata in modo molto intenso da subito, con il compleanno (4.01) del magnate Logan (Brian Cox) rivelatore il suo riferirsi alle persone come "unità economiche", come soggetti che operano in un mercato, anche perché racchiude il capitalismo e ciò che lui rappresenta in un modo molto concreto. I fratelli apprendono che il padre sta tentando di acquistare nuovamente la Pierce Global Media e decidono di lanciare un'offerta rivale. Sono riusciti a creare la tensione tra le parti in gara con molta semplicità. Industry crea questo aspetto di negoziazioni affaristiche altrettanto bene, ma è così complicato che si ha l'impressione di aver bisogno di una laurea in finanza per capire cosa sta realmente accadendo. Qui no. C'è lo stesso tipo di suspense e lo stesso senso della posta in gioco, ma con numeri che un bambino delle elementari può capire. Essere così efficaci con così poco materiale è un punto di forza sottovalutato.

Si è rafforzata la posizione del patriarca come un despota che riesce a radunare la gente intorno a sé come un vero leader: è temuto, ma dalla folla riesce a suscitare una risposta onestamente esaltata, perché è credibile, in contrasto con i suoi figli, il cui ruolo è sempre perennemente amatoriale. “You’re not serious people – non siete persone serie” (4.02) spunta nei loro confronti, dopo che li ha tenuti in bilico facendo loro creder di aver bisogno di loro; non si crede alla sincerità di Logan, ma nonostante ogni possibile realtà loro, come noi, vorrebbero che fosse vero. Connor (Alan Ruck), il figlio di primo letto perenne outsider, è sempre apparso un po' patetico rispetto ai suoi fratelli. Qui, nonostante la sua situazione insicura e infelice, sembra il più forte nella sua consapevolezza di non essere amato e di non averne bisogno. Per Logan è una prolessi perfetta al suo inchino finale.

Già il titolo della serie e l'immagine di chiusura dei titoli di testa, quando i ragazzi si voltano per vedere il padre che se ne va, lasciavano naturalmente intendere che prima o poi si doveva aver a che fare con la scomparsa di Logan, lasciando i ragazzi a fare i conti con la successione. Quello che l’ideatore Jesse Armstrong e i suoi hanno fatto magistralmente è stato il tempismo con cui hanno scelto di farlo uscire di scena. Nessuno se lo aspettava così presto, magari un paio di puntate prima della fine, ma non certo alla terza puntata. È stato molto reale anche: la morte arriva quando arriva, non sceglie il momento opportuno. L'episodio “Le nozze di Connor” (4.03) è stato semplicemente superbo e ho passato metà del tempo a piangere. Non mi sorprende che sia stato salutato come uno dei migliori episodi di sempre dello show, se non della televisione proprio. Ho amato il modo in cui ha saputo cancellare tutto il resto, nel senso che questi eventi sono così potenti che sono come campi gravitazionali per le persone emotivamente coinvolte: vengono risucchiate in un buco nero di dolore e tutto il resto scompare temporaneamente. Ho amato il modo in cui hanno mantenuto il tour de force di una singola scena per molto tempo, e la sensazione di frantumazione che si prova, in tutte le multiple reazioni di sgretolamento progressivo. Ho amato il fatto che non ci abbiano mostrato il crollo e la morte di Logan, distante per noi come per i suoi figli, e già un'assenza, come in fondo la morte è. Tutta la recitazione era di alto livello, cruda e reale, ed è stato incredibile come siano riusciti a non renderla melodrammatica. Mi sono piaciuti i frenetici tentativi di determinare cosa stesse accadendo, il rifiuto di ammettere l'inevitabile da parte di Roman (Kieran Culkin), la necessità di un equilibrio tra la vita privata e quella pubblica, e il fatto che abbiamo potuto vedere come un lutto colpisca le persone in modo diverso. In genere, vengono mostrati solo coloro che sono molto vicini per legame familiare o emotivo, qui hanno mostrato anche persone più distanti e legate a lui a livello professionale, che possono essere anche (e non solo) rattristate, ma in modo diverso. Inoltre, credo sia stato intelligente evocare anche i ragionamenti egoistici, Tom (Matthew Macfadyen) in particolare, e far scegliere a Connor di procedere con le proprie nozze.

È difficile seguire un episodio epocale e Succession ci è riuscita comunque benissimo. Segno di buona scrittura, il loro dolore era molto specifico: per quanto parlasse delle conseguenze di una morte in generale, era davvero molto legato alla realtà della loro situazione. Notevole il modo in cui hanno usato la musica "d'ambiente" da funerale in chiesa come sottofondo per scene che non avevano nulla a che fare con la morte in sé. La genialità dell'episodio (4.04) è stata però l'enigma della linea sottolineata o barrata (personalmente opto per quella sottolineata) sul nome di Kendall (Jeremy Strong) come successore del magnate, in un documento testamentario privo di valore legale.  C'è tutto: il passato (Logan che è sempre stato ambiguo nei sentimenti verso i suoi figli - in parte amore, in parte disprezzo), il presente (chi prenderà il controllo), il futuro (la messa in discussione della legittimità del ruolo di Kendall). Racchiude le dispute sulla successione, che ha interessato gli episodi successivi. Si è vista l'incompetenza, il disagio e la debolezza dei fratelli Roy, anche se erano letteralmente e figurativamente al vertice e il loro essere in bilico fa l’interrogarsi su che cosa avrebbe fatto il padre e fare scelte autonome, e sono emerse le loro rivalità Shiv (Sarah Snook) che complotta con Matsson (Alexander Skarsgård), Kendall che dichiara “una testa, una corona” (4.07), Rome, sboccato giullare di corte che alla fine è il più sensibile ed emozionale di tutti – ho singhiozzato al suo straziante crollo al funerale del padre, in una puntate (1.09) fra quelle che più mi è piaciuta in una stagione davvero potente. Gli elogi funebri sono stati l'occasione per smascherare chi è veramente ognuno di loro a questo punto. Apprezzabile il ritratto che Ewan ha fatto di suo fratello. James Cromwell, che lo interpreta, sa essere piuttosto inquietante, persino terrificante per me (penso soprattutto ad American Horror Story e Six Feet Under). Probabilmente la mia scena preferita dell'intero episodio è stato lo scambio di battute tra Shiv e sua madre sulla sua gravidanza. Il modo in cui si sono capite con mezze parole e frasi che avevano a malapena un senso. Inarrivabile. Frank Vernon (Peter Friedman), Gerri Kellman (J. Smith-Cameron), Karl Muller (David Rasche) e Hugo Baker (Fisher Stevens) sul fronte professionale e le mogli di Logan pure sono sempre stimolanti da guardare. Mi ha convinto meno invece la puntata sulle elezioni presidenziali (4.08) — il Guardian ha stilato una propria classifica di tutti gli episodi, se qualcuno fosse interessato.

Si può contare sempre sull’umorismo di Greg (Nicholas Braun) e Tom e sempre acutissime sono le interazioni tra Logan e Tom, perché quest'ultimo deve navigare su una linea delicata tra servilismo e familiarità che è allo stesso tempo scomoda e divertente da guardare. Sembra uno che si avvicina a una bestia feroce senza sapere come reagirà e dove atterrerà. Si sente l'odore della paura. Si è visto Tom testare le acque su come sarebbe stata la situazione tra loro nel caso in cui lui e Shiv avessero deciso di lasciarsi, poi il lutto ha cambiato le cose e lui e Shiv hanno avuto riavvicinamenti e allontanamenti che sono esplosi a fuoco d’artificio nella feroce litigata sul balcone (1.07), spettacolare da ogni punto di vista: recitazione, emozioni, scrittura... Sembrava molto crudo e reale, anche per il fatto che hanno riesumato cose del passato (come la paura di Tom di andare in prigione) e come ognuno di loro le ha lette. Onestà brutale.

Succession è stata sezionata in ogni suo aspetto come non mai, che fosse per discutere della trama, per commentare il comportamento dei Roy come fossero persone reali, fare gossip sul loro guardaroba della cosiddetta “stealth wealth” (la ricchezza che non si fa notare dei superricchi) o chissà che altro ancora. La serie non solo si è distinta narrativamente e “drammaturgicamente” – termine che uso di proposito, per chi avesse seguito quello che è successo dopo che Jeremy Strong ha usato questo termine, che evidentemente per i parlanti medi della lingua inglese deve essere una parola inusitata (qui)—, ma anche per il linguaggio: un mix di vocabolario di alto livello e di frasi buttate giù con disinvoltura e ricche di riferimenti: entusiasmante. Grandi battute anche. La serie ha costruito parte del suo successo sulla cattiveria umoristica e senza cuore, come ha ben notato Tim Goodman che ha scelto questa quarta stagione per il suo club della TV a cui ho partecipato commentando puntata per puntata e scrivendo alcune della cose scritte qui ed è vero che questa ferocia di personaggi che ci comportano gli uni con gli altri nel modo più spietato che non è una cosa sostenibile a lungo.

L’attesissima series finale mi ha lasciata appagata: è stata intensa, imprevedibile, avvincente e sensata. L’ho guardata immediatamente perché altrimenti chi sarebbe riuscito ad andare online senza avere spoiler?

Pensavo che solo Kendall avesse la possibilità di vincere, ma trattandosi di una sorta di tragedia shakespeariana, non avrebbe potuto vincere. "Sono il figlio più grande!" grida alla sorella che non vuole votare per lui, in una riunione del consiglio che vede due posizioni in contrasto rispetto all’affare GoJo, 6 a 6, con il settimo voto di Shiv a deciderne la direzione. Mette davvero il dito nella piaga: è un bambino che vuole il giocatolo per sé perché, come ricorda in qualche scena prima, suo padre glielo ha promesso quando aveva solo 7 anni.  Ho pensato che fosse piuttosto appropriato che finisse la puntata, sconfitto, davanti all'acqua, il suo elemento ricorrente nel corso delle stagioni. E in effetti, si ha anche la sensazione che stia contemplando la possibilità di buttarsi dalla ringhiera e togliersi la vita. Vederlo inquadrato da dietro mi ha fatto venire i brividi, perché mi è venuto in mente l’analoga inquadratura di Logan nella sigla, ma di fronte al consiglio di amministrazione, non da solo su una panchina fronte-fiume.

Roman è sempre stato troppo emotivo e volubile per avere una possibilità. È stato sconsolante vedere che si è reso conto che non erano niente. E Shiv tanto per cominciare era incinta, non una situazione ideale per una persona inesperta che vuole per la prima volta ricoprire quella posizione, e troppo ricca di opinioni per essere solo la facciata americana di qualcun altro. Come ha detto loro il padre, non erano "persone serie". Connor non è mai stato interessato.

Era logico che Tom fosse incoronato come nuovo CEO della Waystar Royco: Shiv lo conosce perfettamente e, alla fine, credo che sia stata la sua descrizione a venderlo a Matsson come credibile candidato a quel suolo che ironia. Inoltre, è sempre stato mostrato come uno che lavora veramente (ha ripetuto più volte nel corso della serie quanto fosse stanco, anche perché lavorava sempre), quindi in un certo senso è anche giusto. Il suo matrimonio con Shiv è stato esplicitamente anche un contratto d’interesse, e continua sulla stessa linea. Il fatto che lei aspetti un bambino è un ulteriore vantaggio. Perfetta la scena finale di loro in limousine con lui che, senza guardarla, le offre la mano e lei gliela poggia sopra, ma lui non la stringe.

Questa serie ha parlato di molte cose (il trauma di una dinamica familiare tossica, la rivalità, il potere, l'approvazione dei genitori, la successione ovviamente...). Ha riflettuto anche su come il capitalismo sfrenato ti spezza lo spirito, ti succhia l'anima e ti rende infelice. Da questo punto di vista, le scene a casa della madre dei ragazzi, Caroline (Harriet Walter), sono state un buon contraltare. Hanno mostrato un'alternativa. I fratelli hanno potuto essere una vera famiglia. Per quanto sullo sfondo lussureggiante ci siano stati feroci litigi, erano felici, almeno per quello che è loro possibile, hanno saputo trovare un’intesa e alla fine erano uniti. Non è stato così una volta tornati all'ambiente aziendale. 

La memorabile Succession in definitiva si è chiusa con un ennesimo colpo di scena, e con coerenza, in più c'è ampio spazio per uno spin-off. E se qualcuno non fosse soddisfatto, gli si può dire, non come insulto, ma come citazione telefilmicamente colta: “fuck off!”.

mercoledì 24 maggio 2023

THE DIPLOMAT: un gustoso, dinamico thriller politico

The Diplomat viene salutata da più parti come The West Wing dei giorni nostri, un’affermazione esagerata, perché non ci sono grandi idealismi o retorica qui, né altrettanta pregnanza rispetto all’attualità; allo stesso tempo sembra qualcosa di più del paragone proposto da Daniel Fienberg di The Hollywood Reporter che lo considera alla stregua di un cheeseburger gourmet (qui). L’accostamento alla più famosa creazione di Aaron Sorkin non è infatti un’osservazione del tutto fuori luogo, e non solo per la occasionale presenza qui del classico walk-and-talk reso lì popolare, o di una trama orizzontale che potrebbe ben essere una puntata della seminale serie della NBC dilatata per una stagione. Non sorprende scoprire che ad ideare questo thriller politico sia stata Debora Cahn, che in quella serie ha lavorato dalla quarta alla settima stagione, così come in Homeland, Grey’s Anatomy e Fosse/Vernon. E a ben guardare c’è un po’ del DNA di tutte queste nella nuova produzione di Netflix, con una prima stagione di 8 puntate già rinnovata per una seconda, dopo un  esplosivo colpo di scena nella season finale: si mettono sotto i riflettori i temi della diplomazia mondiale e matrimoniale, ed è avvincente, avventurosa, attuale, brillante, dinamica e divertente, in un cocktail che riesce ad essere leggero e arguto. Con un cast da fare invidia.

Kate Wyler, interpretata da una Keri Russell la cui parte in The Americans l’ha preparata ampiamente per questa parte, è la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti nel Regno Unito. In realtà lei non è troppo contenta della carica, vorrebbe un ruolo più operativo e meno cerimoniale, per cui si sente più adatta, ma la stanno grooming, se mi si consente la dicitura inglese, la stanno preparando per diventare vice-presidente di William Rayburn (Michael McKean), degli USA, ruolo che pure non vorrebbe. Si aspettava di cominciare una missione a Kabul, e rimpiange di essere costretta a rinunciarvi, tanto più dopo molto lavoro preparatorio. Accetta sotto l’ingombrante spinta di un marito da cui vorrebbe separarsi, pure lui ex ambasciatore con cui ha un rapporto professionale buono ma complicato, Hal, un Rufus Sewell che abbiamo visto già in ruoli “politici” sia in Victoria che in The Man in the High Castle. Lui, esperto di politica estera con molti contatti e grande capacità di tenere discorsi, deve imparare a fare da spalla e a giocare solo il ruolo di consorte.

Kate viene subito affidata al suo dipendente Stuart Hayford (Ato Essandoh), vice capo missione dell'ambasciata statunitense a Londra, che la introduce nel nuovo ambiente, e a Eidra Park (Ali Ahn), capo di una divisione della CIA. Si vede subito costretta a disinnescare una crisi internazionale molto delicata. Una portaerei britannica è stata appena attaccata nel Golfo Persico, uccidendo 41 marinai e si sospetta dell’Iran. Il primo ministro britannico Nicol Trowbridge (un sempre magnifico Rory Kinnear, Penny Dreadful) vuole mostrare il pugno di ferro, ma Kate, sapendo che l’Iran non è stato, cerca la complicità di Austin Dennison (David Gyasi), Ministro degli Esteri del Regno Unito, per fa sì che i toni si smorzino e Kate convince il Segretario di Stato americano Miguel Ganon (Miguel Sandoval) a non rilasciare immediatamente dichiarazioni. Presto emerge chi è il vero responsabile, o così pare. Fra colpi di scena (potenziali rapimenti e avvelenamenti, possibili depistaggi e altro ancora), alleanze strategiche, rapporti di intelligence e riunioni politico-diplomatiche, Kate deve trovare anche il tempo, e soprattutto lo spirito, per posare per una rivista di moda o partecipare a un ricevimento, tutto in nome del lavoro.

Se escludo l’infantile riluttanza di Kate per abiti eleganti e situazioni sociali che una nella sua posizione dovrebbe capire che sono significative per il suo lavoro  la considero la trita scappatoia per rendere una donna seria e tosta (come se così fosse) , ho trovato spassoso questo drama che, sullo sfondo di vicende genuinamente complesse, con evidenti echi alla situazione presente (Russia e Ucraina sono sulle labbra dei personaggi più di una volta, tanto per fare un esempio) e di delicati equilibri relazionali, riesce a imbastire un gustoso intrattenimento, con humor, senso dell’avventura e la consapevolezza che il palcoscenico mondiale che si calca è più complesso di quanto le news possano lasciar trasparire. Forse è un’occasione sprecata nel senso che ha effettivamente poco a che fare con la diplomazia vera e propria, e in questo senso il titolo è magari fuorviante, ma non è una serie che intende cambiare il mondo o farci grandi discorsi parenetici. Non è cronaca vera e naturalmente si prende parecchie licenze poetiche, ma è anche accurata (e per saperne di più in proposito si legga questo articolo de Il Post). È poi notevole come i due interpreti di Kate e Hal abbiano creato un’intesa istantanea fra loro come è difficile trovarne, fatta di ambizioni, di reciproche negoziazioni, e di genuino apprezzamento e sentimento l’uno per l’altra, e anche fra la protagonista e Dennison c’è ampio spazio di manovra per una storia romantica.

lunedì 15 maggio 2023

TRANSATLANTIC: il salvataggio di intellettuali ebrei durante il nazismo

Siamo nella Marsiglia del 1940 occupata dai nazisti, dopo la caduta di Parigi, nella miniserie di Netflix Transatlantic, ideata da Anna Winger (Unorthodox) e Daniel Hendler sulla base del romanzo The Flight Portfolio (2019) di Julie Orringer e di fatti realmente accaduti. Si tratta di una coproduzione internazionale e multilingue (inglese, francese, tedesco…).

Il giornalista Varian Fry (realmente esistito, e interpretato da Cory Michael Smith; Gotham) e l’ereditiera  Mary Jayne Gold (realmente esistita, a cui dà il volto Gillian Jacobs, Community), due americani che si trovano in Europa in quella buia epoca,  operano per l’Emergency Rescue Committee (il Comitato di Soccorso d'Emergenza) con l’obiettivo di far fuggire e mettere al sicuro quante più persone possibile prese di mira dal governo nazista (nella realtà ne riuscirono a salvare circa 2000), in particolare intellettuali come Hannah Arendt, Walter Benjamin, Marc Chagall e sua moglie, Marcel Duchamp, Max Ernst, Peggy Guggenheim, Walter Mehring, Victor Serge... Cercano di procurare visti, organizzare viaggi in nave, far arrivare i rifugiati in Spagna attraverso le montagne dei Pirenei, far uscire dal carcere prigionieri politici. Ad aiutarli ci sono in particolare Albert Hirschman (pure realmente esistito, e qui interpretato da Lucas Englander), un rifugiato ebreo tedesco in fuga dalle persecuzioni naziste dal 1933, di cui Mary Jayne si innamora, e Lisa Fittko (pure lei esistita, qui con il volto di Deleila Piasko), una ribelle antifascista, e dopo che la base delle loro operazioni, l'Hotel Splendide, viene saccheggiato dalla polizia, anche Thomas Lovegrove (un personaggio inventato, Amit Rahav)  vecchio amore di Varian (sulla base di effettiva documentazione che Fry aveva avuto numerosi amanti uomini), che offre la sua casa di campagna, Villa Air-Bel. Insieme a loro anche alcuni africani, come Paul Kandjo (Ralph Amoussou).  Il console americano Graham Patterson (Corey Stoll, House of Cards) si trova in una situazione ambigua, vista la neutralità degli Stati Uniti, che a questo punto ancora dovevano entrare in guerra.

Sembra un’elettrizzante avventura quella che i protagonisti qui ritratti si trovano a vivere: questa è stata la sensazione di fondo che ho percepito e che mi è parsa completamente inappropriata. Si sente molto poco il senso del pericolo e il senso politico e valoriale delle forze in campo. So di non essere stata l’unica a notarlo, anche se non arrivo a considerarlo l’insulto alla memoria di chi ha vissuto quegli eventi perché, anche grazie allo speciale dietro le quinte che accompagna la produzione, mi sono resa conto che è stato programmatico. L’obiettivo della produzione era quello di creare uno “screwball melodrama”, quindi un melodramma con una certa leggerezza e qualche momento tinto di umorismo, facendo riferimento anche alle opere cinematografiche dell’epoca. Si nota molto poco, in realtà, e non si viene mai stupiti dalla eleganza o dall’originalità della cinematografia, che invece di puntare a qualcosa di raffinato come fa la meritevole sigla di chiusura di ogni puntata, ci propone quasi un’estetica da soap opera europea. Anche le ambientazioni naturalistiche, stupende, in contrasto con gli orrori di cui sono teatro, non riescono mai a diventare personaggio, ad imporsi in dicotomia.

“Le persone pensano di non poter far nulla per cui non fanno nulla”, si fa dire a Mary Jayne ad un certo punto. Se è vero che riescono a mostrare che essere eroi non significa essere invulnerabili figure esemplari ma persone reali con difetti e problematiche che cercano di fare del proprio meglio e incappano in errori anche gravi, non si dà un senso etico ed intellettuale di maggior spessore che facilmente si sarebbe potuto avere dalla presenza di nomi così altisonanti. Già non è così moralmente scontato che vada bene battersi per salvare un pittore più di quanto non lo sia per salvare un padre di famiglia, cosa a cui c’è solo un fugare accenno, ma non sarebbe stato molto più efficace capire in che cosa credevano alcuni di questi pensatori che la Gestapo aveva nella propria lista nera? Sappiamo di Hannah Arendt, ad esempio, quello che sapevamo prima di aver visto la serie. Non ci si poteva sforzare di far capire perché ha avuto valore per l’umanità attivarsi a favore di questi specifici ebrei invece di altri, qual è stato il loro contributo? Tanto più nella prospettiva che dicono di abbracciare, ovvero quella di vedere il passato come metafora della contemporaneità. Apprezzabile, se non altro, che si sia visto che fra i perseguitati dai nazisti c’erano anche gli omosessuali, quando normalmente si riduce troppo facilmente tutto solo all’ebraicità.

Si tratta perciò di 7 puntate che scorrono con piacevolezza, ma che deludono e si lasciano sfuggire troppe occasioni per un impatto empaticamente, eticamente, esteticamente e culturalmente più incisivo.  

venerdì 12 maggio 2023

Su MILANOW si è parlato di ME/CFS

Oggi, 12 maggio, si celebra la giornata internazionale di sensibilizzazione sulla Encefalite Mialgica / Sindrome da Fatica Cronica, di cui soffro. Colgo perciò quest’occasione per segnalare un’intervista televisiva a cui ho partecipato, insieme al professor Umberto Tirelli, su Milanow, lo scorso 20 febbraio: qui (e sotto). La registrazione è stata fatta da una paziente, come meglio è riuscita.

La giornalista Graziella Matarrese ha fatto a nostro parere davvero un bel lavoro. Non ci eravamo accordati con lei, ma con una collega che non ha potuto poi esserci perché malata, e lei ha dovuto “improvvisare” ed è stata acuta e pregnante come in poche occasioni ci è capitato. Per una volta abbiamo davvero potuto sviscerare l’argomento a dovere. Questo è un vantaggio spesso trascurato di trasmissioni di reti minori che posso permettersi il lusso di dedicare tempo ad approfondire i temi di cui trattano.

Per un inghippo noi non potevamo vedere lei, solo sentirla, e vedevamo solo noi stessi, e l’illuminazione da parte nostra non era certo ideale, ma come paziente e come persona che da anni è impegnata nella sensibilizzazione su questo tema, sono rimasta veramente soddisfatta del servizio reso dalla televisione.  

Per ulteriori informazioni sulla patologia, si visiti www.stanchezzacronica.it.

martedì 2 maggio 2023

ABBOTT ELEMENTARY: per me bocciata

Con rammarico devo dire che, dopo aver seguito l’intera prima stagione, non condivido il grande entusiasmo che tutta la critica sembra aver riservato per Abbott Elementary (in Italia su Star di Disney+), sit-com pluripremiata. Forse mi sfugge quanto pregnante sia per la realtà che ritrae. È chiaro che è una lettera d’amore ai tanti insegnanti che con molta dedizione e spirito di sacrificio lavorano nella scuola primaria pubblica, evidenziando le difficoltà che incontrano, ma al di là del sentimento apprezzabile, i personaggi sono troppo bidimensionali e l’umorismo appena percepibile.

Siamo in una scuola pubblica di Philadelphia a maggioranza nera, la Willard R. Abbott Elementary School, dove una troupe (che non vediamo) sta registrando un documentario: come di prammatica, gli insegnanti spesso parlano come rivolti a una telecamera per spiegare alcune cose o vi rivolgono sguardi di commento. Le condizioni sono dure: sono pieni di lavoro, sottofinanziati, con una preside incompetente e vanesia che ha ottenuto il posto solo perché ha ricattato il responsabile che doveva scegliere chi assumere, a scapito di uno di loro che ora è lì supplente.

Janine (Quinta Brunson, che è anche ideatrice) è una maestra di seconda elementare di gran cuore e con molto ottimismo, che ci mette sempre tutta sé stessa per aiutare i propri studenti anche a rischio di strafare. Come modello, quasi una mamma sul posto di lavoro, ha Barbara Howard (una magnifica Sheryl Lee Ralph), un'insegnante d'asilo di grande esperienza, e la più rispettata. Pure entusiasta è Jacob (Chris Perfetti), mentre smaliziata e con contatti con la mala locale che usa a fin di bene è Melissa Schemmenti (Lisa Ann Walter). Come supplente arriva Gregory (Tyler James Williams) che ha una cotta per Janine e rimane sempre in imbarazzo per le sgradite avance e ammiccamenti di Ava (Janelle James), l'inetta, egocentrica e narcisa preside. Chiude il gruppo il bidello Mr. Johnson (William Stanford Davis).

Ha un che di sapore antico questa workplace comedy, come venivano confezionate una vota, e portandoci in una scuola elementare ci conduce in un ambiante che, in linea di massima, abbiamo frequentato un po’ tutti, anche se evidentemente non dalla parte degli insegnanti. Vuoi tifare per loro e per loro determinazione di fronte a costanti frustrazioni. Le storie sono quotidiane, ruotano intorno ad avere nuove attrezzature per i propri studenti, a coinvolgere il genitore assente, a motivare i bambini…e imparano loro stessi giorno per giorno che cosa funziona e che cosa no: racconta di vita vera, con gli sguardi in camera tipici dei mockumentary che coinvolgono lo spettatore nei propri sentimenti di imbarazzo o incredulità, vago disprezzo per quello che devono sopportare o in cerca d’intesa - Tyler James Williams è particolarmente esilarante in questo, per quanto tutti siano molto efficaci sotto questo aspetto. Gli attori hanno un ritmo ineccepibile e concordo in pieno con chi vi ha ritrovato il senso di comunità di Parks and Recreation. Sono reali e sono veri. Solo, non fanno ridere.

Ho letto varie recensioni per cercare di capire la magia di questa serie per cui tutti si sperticano in lodi e che evidentemente fa sganasciare tutti tranne me, che al massimo abbozzo qualche sorriso qui e lì. E pure tirato. Qualche occasionale battuta c’è anche, ma se la gran parte delle scene sono per me passabili, quelle con Ava sono addirittura inguardabili: ora che si può usare questo termine anche in italiano, posso dire cringy all’ennesima potenza.

Forse, come il personaggio di “Gifted Program” (1.06) loro sono solo troppo avanti e io non riesco a rendermi conto della loro genialità, ma per me bocciati. Per chi lo apprezza però c'è una seconda stagione e, visti i premi ricevuti, non dubito ce ne saranno anche a venire. 

sabato 22 aprile 2023

EXTRAPOLATIONS: meritevole, ma scilaba

Nella giornata mondiale della terra ha senso parlare di “Extrapolations – Oltre il limite”, una serie di AppleTV+ che ha mandato in onda la sua ultima puntata proprio ieri. È un pianeta ecologicamente disastrato infatti quello che è sotto i riflettori in una produzione alla fine dei conti meritevole, ma scialba, nonostante abbia attirato nomi di grande calibro e popolarità: Meryl Streep, Sienna Miller, Kit Harrington, Matthew Rhys, Keri Russell, David Schwimmer, Edward Norton, Marion Cotillard, Tobey Maguire, Forest Whitaker, Gemma Chan, Tahar Rahim…

Si tratta di otto storie autonome, ma vagamente collegate, che si susseguono nel tempo a distanza di decenni: nel pilot ambientato nel 2037, uno degli esordi più deboli e soporiferi che ricordi in tanto tempo, scritto e diretto dall’ideatore Scott Z. Burns, l’obiettivo principale, richiesto dalle dimostrazioni di massa e perseguito tanto dalla politica quanto dal miliardario di turno, è quello di tenere sotto controllo l’aumento della temperatura globale in modo che non superi i due gradi celsius all'anno, mentre le foreste bruciano; nel 2046 (1.02) gli animali stanno estinguendosi uno dopo l’altro, e una scienziata, comunica con l’ultima balena rimasta; nel 2047 (1.03) il livello degli oceani si è alzato enormemente e molte città devono decidere quali edifici preservare e quali lasciare che vangano inghiottiti dall’acqua: un rabbino di Miami cerca di salvare la propria sinagoga; nel 2059 (1.04), probabilmente la più riuscita delle puntate, con una storia nientemeno che di Dave Eggers (ma il teleplay di Scott Z. Burns), degli ecoterroristi ritengono di poter salvare la Terra con  un progetto di geoingegneria, rilasciando nell’atmosfera cloruro di calcio attraverso una flotta di aerei, ma il consulente della presidente degli Stati Uniti ritiene che l’effetto possa essere imprevedibile e troppo rischioso, con conseguenze non benefiche, ma disastrose; sempre nel 2059, due indiani vengono incaricati di portare in salvo dei semi che potrebbero far ricrescere le colture nel clima sempre più arido; nel 2066, in un episodio che, come il successivo, fa molto “Black Mirror”, Erza, personaggio che avevamo conosciuto bambino nel secondo episodio, ora adulto, si guadagna da vivere impersonando a pagamento personaggi per persone che si trovano in situazioni difficili, e conserva i propri ricordi a pagamento in una cloud, aggiornandoli progressivamente, ma se non paga è costretto a cancellarli;  per il 2068, che pure ricorda Upload, l’aria si è fatta ormai completamente irrespirabile, e c’è chi decide di caricare la propria coscienza e mettere la propria vita in pausa con LifePause per essere risvegliati in un nuovo corpo in tempi migliori, riducendo così per il momento a zero la propria impronta di carbonio; si chiude nel 2070 con il processo per ecocidio del miliardario Nick Bilton (un Harrington che regala un’interpretazione particolarmente riuscita), CEO della corporation Alpha, che controlla un po’ tutto nel corso degli anni – apprezzabile qui il tentativo di aggiornare la moda, sia per abbigliamento che per parrucco, che è mi piaciuta particolarmente sul versante maschile.

Nonostante l’ambizione del progetto, e la pregnanza di molte delle tematiche che estrudono in maniera fluida da quella centrale dell’ecologia — l’amore, la famiglia, la fede, l’avidità, il lavoro, la salute, la responsabilità nei confronti di se stessi e delle altre specie, l’umanità, la tecnologia, l’economia, la legge, l’ipocrisia di non voler vedere il costo delle comodità… lo spessore della riflessione è sottile, e delle numerose idee messe in campo non si vedono poi le vere conseguenze, cosa che avrebbe dato maggiore soddisfazione: quando gli ecoterroristi buttano il cloruro di calcio evidentemente non hanno l’effetto voluto, dato che il pianeta va sempre peggio, ma che cosa è successo esattamente? Ci sentiamo traditi perché si crea una tensione anche buona che però è priva di risoluzione narrativa. E al di là del respirare ossigeno da bombole, avere una dieta limitata e dover stare dentro per molte ore al giorno, come è stata impattata la vita quotidiana? Quali comportamenti correttivi sono stati messi in atto o (in un’ottica educativa) sarebbe bene metter in nato per prevenire? E la popolazione, è aumentata o diminuita? Si mostra una storia catastrofista senza mostrare possibili soluzioni o almeno tentativi di soluzione che non siano appunto quelle degli ecoterroristi, o dei genetisti che ripopolano il pianeta attraverso il DNA di animali ormai estinti. E poi…non c’è troppo poco interesse per le piante fuori da foreste che bruciano e quattro semi?

Siamo davanti a una parabola speculativa che se riesce  per la gran parte a non fare la predica, non riesce nemmeno ad essere illuminante se non nell’offrirci worst-case scenarios che, francamente, non è difficile immaginare per nessuno.