mercoledì 26 giugno 2024

Un suggerimento: TIM GOODMAN su SUBSTACK

Se leggete questo blog, probabilità vuole che siate appassionati di televisione, o comunque vi interessi approfondire quello che guardate. Se anche conoscete bene l’inglese, vi invito a seguire Tim Goodman, su Substack, come io faccio con costanza.

Probabilità vuole anche, in realtà, che già lo conosciate essendo stato un critico televisivo per una ventina d’anni, dal 2010 al 2019 quello di punta di The Hollywood Reporter e in precedenza per  il San Francisco Chronicle, oltre ad aver scritto per molte altre pubblicazioni.  Ed ha anche insegnato nel dipartimento di Visual Studies del California College of the Arts come professore aggiunto dal 2006 al 2020 e Critica alla Graduate School of Journalism dell'Università della California, Berkeley, tutte cose che potete leggere sul suo curriculum. Io indubbiamente l’ho menzionato in più di un’occasione.

Riesce ad essere estremamente profondo, ma in un modo anche rilassato, e di lui apprezzo moltissimo quello che è espresso nelle righe a seguire, che traduco, che risalgono all’estate scorsa, ma che ha riproposto proprio in questi giorni (qui in originale):

"Non esistono serie televisive perfette, né dovrebbero cercare di esserlo. Tutte le più grandi hanno episodi difettosi in quasi tutte le stagioni, ma mai un'intera stagione che sia stata considerata brutta, o addirittura mediocre (sono un professionista e su questo potete litigare con me più tardi). Se credete nel wabi-sabi, come me, allora tutte le cose veramente belle hanno dei difetti e a volte i difetti contengono la bellezza. Ma in una conversazione strettamente incentrata sulle serie televisive, a volte bisogna amare una grande serie anche se i suoi difetti ci infastidiscono o ci deludono.

I mondi delle lagnanze e della delusione sono (purtroppo, ma questo è un altro discorso) terreno comune per i critici. Parte del lavoro consiste nel trovare i difetti e rivelarli. In teoria, questa abilità ha un valore per la società, perché aiuta le persone a capire cos'è la grandezza e perché, illuminando così contemporaneamente ciò che è meramente buono e perché. (È tutta un’altra questione stroncare le cose veramente orribili, ma io sostengo, o sostenevo, che ci sia un valore anche in quello).

È chiaro che non riesco a spegnere il mio cervello critico tanto spesso quanto vorrei. Ora evito semplicemente le cose brutte (a meno che non mi piaccia la loro bruttezza) e per il resto non ne parlo. Apprezzo gli sforzi artistici buoni e molto buoni, anche se non sono all'altezza di ciò che un critico potrebbe definire grande.

È tutta un'altra impresa amare una serie che azzecca molte cose, ma che inciampa anche quando spereresti che non lo facesse. A volte i passi falsi sono determinanti. A volte sono, beh, diciamo solo sfortunati. E si va avanti. Al giorno d'oggi, sono più interessato al motivo per cui sono disposto ad andare avanti e a continuare ad abbracciare qualcosa quando fallisce. Se questo vi sembra strano, beh, probabilmente non siete dei critici (e siatene riconoscenti). In passato, troppe volte un'ottima serie è stata vicina alla grandezza, ma continuava a commettere degli errori banali, degli errori di valutazione privi di logica, e io non riuscivo ad abbracciarla completamente. (Il che, se ci pensate, è un modo poco gioioso di vivere la propria vita - ed è per questo che ho detto che dovreste essere grati di essere solo degli spettatori attenti e sagaci, con una reale empatia e senza il tempo di serbare rancore o di essere delusi dalle cose che guardate, invece di essere dei critici – passate oltre, perché siete degli esseri umani normali)”.

Oltre al fatto che penso che le sue parole siano sagge, anche per le relazioni umane in generale, abbraccio io stessa questa filosofia.

Sia come sia, davvero ve lo caldeggio. E non parla solo di televisione, ma anche di cinema, musica, e della vita in generale.

Potete tornare a ringraziarmi in seguito per il suggerimento.  

sabato 22 giugno 2024

Libri e serie TV: sono stata ospite di BOOKATINI


Con mia grande gioia sono stata ospite di “Bookatini”, il podcast per chi è ghiotto di libri, realizzato da Tania Da Ros (mia sorella, nota anche come Libridine) e Francesca Vedovelli, una cara amica.

La puntata a cui ho partecipato, la numero 78, è stata dedicata ai libri da cui sono state tratte delle serie TV. Io ho parlato di The Handmaid’s Tale e di Normal People. Tania ci ha raccontato di Dexter, e Fra ha scelto Ripley.

È stata una gustosissima chiacchierata che vi invito ad ascoltare qui.

sabato 15 giugno 2024

CONSTELLATION: ambizioso, ma confuso

Constellation (Apple TV+) non è stata rinnovata per una seconda stagione: qualcuno ha avuto pietà. Non mancava di ambizione questa serie che presto (1.03) ha reso chiaro quale fosse il proprio concetto ispiratore, colonna vertebrale delle vicende, il principio di indeterminazione di Heisenberg. Peccato che sia stato svolto in modo molto confuso: ti aspettavi che progressivamente ci fosse maggiore senso e chiarezza, ma non arrivava mai. Spesso non si capiva chi era chi, e non mi considero una spettatrice del tutto sprovveduta. Poi si è scaduti in ingenuità risibili.

In questo thriller psicologico fantascientifico ideato da Peter Harness su un concetto di Sean Jablonski, Johanna “Jo” Ericsson (Noomi Rapace) è un’astronauta svedese che lavora per l’ESA sulla Stazione Spaziale Internazionale. Mentre sono impegnati in un esperimento chiamato Cold Atomic Lab (CAL), un oggetto li colpisce e il suo collega Paul (William Catlett) rimane ferito e muore. Jo esce in perlustrazione per valutare i danni e vede il cadavere di una cosmonauta russa. I colleghi sopravvissuti rientrano sulla Terra, lei invece rimane indietro per riparare il modulo di emergenza funzionante rimasto che, nonostante strani fenomeni a bordo, poi riporta a casa anche lei, dove la attendono con ansia il marito Magnus (James D'Arcy) e la figlioletta Alice (Davina Coleman e Rosie Coleman), ma dove desiderano conferire con lei anche l’eroe della NASA Henry Caldera (Jonathan Banks), che dirige l’esperimento che stavano conducendo, e Irena Lysenko (Barbara Sukowa), capo del volo della Roscosmos.

Tornata sul nostro pianeta però, la donna trova la realtà che la circonda e le persone intorno a lei diverse da com’erano e i fatti non sembrano collimare – la macchina di famiglia ha un colore diverso, la figlia non sa più parlare svedese, un collega dice di aver avuto una relazione extraconiugale con lei che lei ritiene di non aver mai avuto, il nome della vedova del suo collega è differente…-, viene messa in dubbio la sua stabilità mentale, almeno da alcuni, e le vengono somministrati dei farmaci contro quelle che apparentemente sono allucinazioni. Lei stessa non riesce ad essere sicura se il problema sia suo o meno. “La realtà è una cospirazione?”, recita la locandina.

È presto chiaro che esiste un mondo parallelo in cui ad essere morto non è il suo collega Paul, ma lei: Jo è il gatto di Shrödinger che è contemporaneamente vivo e morto, ma a causa dell’esperimento che stavano conducendo con il CAL in alcuni momenti il confine fra le due realtà è poroso: si hanno visioni dell’altra parte, che interferiscono con quello che accade, e delle due versioni della realtà, Jo sembra capitata in quella sbagliata. Anche sua figlia, particolarmente perspicace, si rende conto che quella che ha davanti non è la sua “mamma” o “mami” (la chiama in due modi diversi a seconda della versione in cui è). Anche di Caldera c’è un’altra versione, Bud, in cui non ha scritto un libro diventando una leggenda, ma è una sorta di fallito alcolizzato, e la stessa Irena ha vissuto lo stesso che sta passando Jo. C’è chi sa la verità, anche se non vuole dirla.

Come dicevo, ambizioso, ma estremamente contorto: le vicende si intuiscono, ma non si mai sicuri di sapere chi si sta vedendo, con il risultato di tanta confusione. Fra passato, presente e realtà parallele nello spazio e qui, i passaggi logici sfuggono e non in modo da stimolare una curiosità investigativa, ma in modo frustrante. Talvolta è bello lasciarsi trasportare dall’atmosfera, senza la necessità di comprendere ogni cosa. Non qui. La protagonista poi passa molto tempo in una baita in montagna immersa nella neve, ma poi le baite sono due, così come le figlie e lei cammina e cammina nella bufera fra una e l’altra. È un flashforward ricorrente, ma spostarsi su più timeline oltre che fra realtà diverse non è elettrizzante, rende solo più torbida la visione.  A bordo della stazione spaziale ha visioni di alcune delle realtà di casa. Tutto un minestrone. Il marito della protagonista, un insegnante di scuola elementare, pare un rammollito a cui la figlioletta di dieci anni deve spiegare le cose. Ad un certo punto la bimba esce dalla baita in piena notte e lui che cosa fa? Dorme. E passi, ma poi si sveglia, non la trova e va a cercarla riportandola indietro. Tempo di riprendersi e lei esce di nuovo non vista. Lui dov’è? Sta di nuovo dormendo. Ma andiamo! Risibile. E vedere un astronauta che si trova su una navicella di emergenza per il rientro che non si stacca e per farla funzionare si mette a tirare pugni al quadrante della sofisticata tecnologia, come faceva Fonzie per far partire la musica dei i juke-box, è stato imbarazzante. Mi sono sinceramente vergognata per loro. Non intendeva essere umoristico.

Forse era un potenziale film che è stato diluito impropriamente in una serie. Ci sono stati stimoli interessanti, riflessioni sull’orrore che può anche rappresentare lo spazio immenso, l’effetto psicologico che la distanza da casa può avere sulle persone, la sensazione di isolamento… il senso di disorientamento poteva avere un valore estetico di forma che rispecchia il contenuto, ma non può andare avanti ad oltranza, perché, anche complice il ritmo lento e le situazioni ripetitive, alla fine a nessuno piace rimanere perennemente nel vuoto.    

mercoledì 5 giugno 2024

BABY REINDEER: una potente storia di stalking e stupro sul protagonista

Atroce per quello che racconta, magnifico per come lo fa, Baby Reindeer (Netflix), è una storia di stalking e violenza sessuale, tratta dalla vita reale dell’attore/ideatore Richard Gaddis che dà il volto al protagonista. Non è una narrazione facile proprio per i temi trattati e la complessità emotiva con cui riesce ad affrontarli, ma è scritta in modo impeccabile sia nel suo outline che nel dialogo ed è recitata in modo altrettanto convincente. Il suo immediato, inaspettato successo è proprio dovuto al tam tam degli spettatori che ne hanno riconosciuto l’innegabile qualità. Quello che forse mi ha colpito di più, anche per la sua rarità, non è solo la tridimensionalità dei personaggi, guardati con empatia e amore, ma per la capacità di ammettere per sé stessi sentimenti e comportamenti profondamente conflittuali, con i loro risvolti autolesionisti.

ATTENZIONE SPOILER

Donald “Donny” Dunn (Richard Gadd) è un aspirante comico che lavora come barista al Heart, un pub londinese. Un giorno entra nel locale una cliente, Martha Scott (una Jessica Gunning già in odore di Emmy), che lui vede molto giù di corda, e le offre un tè. Lei, colpita dal gesto, comincia presentarsi lì continuamente lusingandolo e cominciandolo a chiamare “baby reindeer”, quindi “baby renna” – e nell’ultima puntata si spiega il perché di questo nomignolo. Comincia a mandargli centinaia di mail sgrammaticate al giorno e diventa la sua stalker. Nonostante lui scopra che lei è stata già condannata per simili comportamenti, accetta anche la sua amicizia su Facebook e il loro rapporto diventa sempre più complicato. Solo dopo sei mesi, quando ormai non ce la fa più e teme l’ossessione della donna, decide di denunciarla alla polizia. Martha, che si presenta con una sonora risata e una gioia aggressiva, ha chiari problemi psicologici, e Donny teme che possa mettere a rischio i suoi genitori e Teri (Nava Mau), la donna trans di professione terapeuta, di cui nel frattempo si è innamorato, la sua isola felice, che pure viene aggredita da una Martha gelosa, come pure lui stesso che finisce sanguinante. Nel ripercorrere quello che gli è accaduto, che poi racconta verbalmente in un crollo emotivo sul palco durante uno spettacolo (1.06), lo vediamo ricordare la violenza sessuale di cui è stato vittima (leggi infra), in un attorcigliarsi di eventi ed emozioni che sono difficili da districare l’uno dall’altro, imbevuti di odio per sé stesso.

Quello che è coraggioso è stato mostrare come questo ragazzo, molto sensibile, ha sentimenti che non sono solo generosi nei confronti di Martha. All’inizio ne prova pena e vuole aiutarla. È infastidito dalle sue attenzioni eccessive, ma contemporaneamente ne è attratto. Lei passa ore davanti alla fermata dell’autobus davanti a casa sua, si intrufola fra il pubblico nei suoi spettacoli comici, lo lascia perennemente senza tregua, vedendo fra loro una relazione che non esiste. Donny si vede costretto a cambiare casa. Martha è “una bomba ad orologeria nella sua vita”. Allo stesso tempo non è solo perché vede un’anima tormentata e infelice che le dà ascolto anche quando buon senso suggerirebbe di allontanarsene, ma in un qualche modo né è anche affascinato, trova conforto nelle attenzioni di lei. Lui si presenta come qualcuno che è sempre stato convinto che la realizzazione dei suoi sogni lo avrebbero condotto alla felicità, e constatare come non è facile raggiungerli lo delude. Da lei si sente visto e apprezzato, nonostante la sgradevolezza dei suoi approcci. Ne prova fascinazione, tanto da chiedersi, in un momento di allontanamento, se gli manchi: tutte le scene drammatiche, le attenzioni, la distrazione che lei gli permetteva. Martha lo vedeva come lui desiderava essere visto. Questa pulsante, tragica ma umana contraddizione è ammessa senza vergogna ed è il fulcro di ciò che la serie indaga.

Nel mettere a nudo il suo stato emotivo che lo ha condotto ad accettare simili attenzioni pur nella loro evidente pericolosità, di fronte alla domanda del poliziotto che gli domanda perché ci abbia messo così tanto a sporgere denuncia, ricorda quello che è accaduto anni prima (nell’ormai celeberrimo episodio 1.04). Era a Edimburgo per un festival in cui sperava di farsi notare come comico, e lo sceneggiatore di uno show televisivo di successo, Darrien (Tom Goodman-Hill, Mr Selfridge), che aveva lavorato con alcuni dei nomi che più lui rispettava nell’ambiente, lo aveva incoraggiato ed avevano cominciato a trascorrere molto tempo insieme. Poi la svolta: Darrien lo ha iniziato a droghe pesanti e poi ha abusato sessualmente di lui mentre era privo di coscienza o semi-svenuto. Insicurezza, rabbia, confusione sulla propria sessualità, fantasie omicide nei suoi confronti non hanno impedito al nostro protagonista di tornar da lui ancora e ancora, finché questi di punto in bianco non è sparito; nel presente “baby-renna” sente il senso di colpa per non averlo denunciato, quando ora invece si appresta a denunciare Martha.

Ho trovato grandiosa, e ragionevole, la reazione emotiva del personaggio, anche se c’è chi ha criticato la rappresentazione di un uomo gay maturo come predatore che fra grooming di un giovane ingenuo, “convertendolo” all’omosessualità, visto che è in seguito a questi incontri che Donny mette in dubbio le proprie preferenze, si domanda se ora sia bisessuale o che cosa, ed è solo in seguito a questi eventi che, dopo molti incontri sessuali toccata e fuga con chi capitava, scopre la gioia di nuovo con Teri. Io non ci do questa lettura, nel senso che non credo che il programma voglia alludere al fatto che sia lo stupro che ha fatto cambiare preferenze sessuali a Donny, ma come ogni esperienza sconvolgente, gli ha fatto mettere in dubbio e rivalutare quello che credeva vero per sé stesso. Ho pure trovato importante che mostrassero come quando sono gli uomini a venire molestati o aggrediti sessualmente, sì dà loro meno peso di quando non accade a una donna. La polizia non si preoccupa più di tanto di una donna stalker, finché lui non li costringe a cercare il suo nome sul web e non si accorgono che in effetti ha numerosissimi precedenti ed è pericolosa.

Alla fine delle vicende Martha si dichiara colpevole e viene condannata a 9 mesi di carcere e viene emessa nei suoi confronti un’ordinanza restrittiva della durata di cinque anni. La gente sul web ha cercato freneticamente di sapere chi fosse Martha nella vita reale, con tutti i potenziali rischi della questione, e c’è stata un’intervista valutata di dubbio valore etico, in cui si è fatta avanti una donna che dice di essere lei. Ugualmente molti hanno cercato di individuare chi fosse in corrispondente di Darrien nella vita reale: un’innocente è stato accusato, tanto che l’autore è dovuto intervenire per scagionare il malcapitato. Risvolti deprimenti.  

Ho trovato ancora una volta coraggioso chiudere con quello che è stato un po’ un tema ricorrente della miniserie, per quanto possa lasciare a disagio, ovvero che Donny in fondo vede Martha come sé stesso in uno specchio, con le proprie insicurezze e timore per il futuro. Quando qualcun altro ti vede veramente questo crea connessione, e quello che ha portato il protagonista a flirtare con una situazione così pericolosa senza tranciarla in partenza è stato proprio questo auto-riconoscimento. Nella series finale finisce in un bar e, specularmente a quanto era accaduto fra lui e Martha, lui si trova seduto sullo sgabello a ordinare qualcosa, ma non ha un centesimo con sé. Il barista, che lo ha visto piangere un momento prima e si è accorto del suo stato, gli offre a sue spese la bevanda. Esattamente quello che ha fatto lui con Martha. La corrispondenza è un’illuminazione per lui, una volta di più. Una chiusura impeccabile, come la serie tutta.

sabato 25 maggio 2024

IL PROBLEMA DEI TRE CORPI: deludente

Sono sinceramente rimasta delusa dalla trasposizione televisiva de Il problema dei tre corpi (Netflix), tratto dall’omonimo romanzo vincitore dell’Hugo Award di Liu Cixin, che avevo letto in prospettiva, e che era stato annunciato come un banchetto visuale. David Benioff e D. B. Weiss, che già avevano portato sul piccolo schermo Il Trono di Spade, e Alexander Wo sono anche stati convincenti nell’adattare quello che apparentemente era inadattabile, come ha ben osservato Variety per quanto ne esista già una versione cinese, Sān tǐ, nome che fa riferimento agli alieni menzionati nelle vicende.

L’incipit, piuttosto violento, ci vede all’epoca della rivoluzione maoista nella Cina degli anni Sessanta, quando la brillante astrofisica Ye Wenjie (Zine Tseng da giovane;  Rosalind Chao da adulta) viene mandata in un campo di lavoro in Mongolia dopo essere stata costretta a vedere il padre, un professore universitario, picchiato a morte davanti a un pubblico per il quale doveva servire da esempio, e poi, grazie alle sue grandi capacità, trasferita in una remota stazione che cerca il contatto alieno, contatto che lei avvia all’insaputa degli altri, con una razza, i Trisolariani conosciuti come Santì, che spera possano finalmente salvare la razza umana, ma che in realtà vedono noi alla stregua di insetti.

Nei tempi odierni, lei li attende con ansia, con il fervore di una profetessa, e come lei anche Mike Evans (Jonathan Pryce, Il Trono di Spade, The Crown) un attivista ecologico miliardario. In Inghilterra, sua figlia Vera Ye (Vedette Lim), diventata una apprezzata insegnante di fisica, si toglie la vita. Non è la prima scienziata a farlo, e un investigatore della Strategic Intelligence Agency, Clarence "Da" Shi (Benedict Wong), si mette ad indagare e fa rapporto a Thomas Wade (Liam Cunningham, Il Trono di Spade) a capo di un'autorità segreta il cui obiettivo è preservare l'umanità. Viene così in contatto con ex-studenti della docente, “i 5 di Oxford”, fra loro diventati amici, anche lì dove si sono persi di vista e si ritrovano ora al funerale della mentore scomparsa.

Si tratta di Augustina “Auggie” Salazar (Eiza González), che si occupa di ricerca all’avanguardia sulle nanofibre, che comincia a vedere uno strano conto alla rovescia, e riceve l’ultimatum di interrompe quello che sta facendo; Jack Rooney (John Bradley, Josh Bradley, Il Trono di Spade), che nel frattempo ha fatto i soldi come imprenditore del campo degli snack e si gode la vita - lui è un po’ il comic relief in una serie dove di umoristico c’è ben poco; Jin Cheung (Jess Hong), che presto viene coinvolta in un gioco di Realtà Virtuale di tecnologia estremamente avanzata che le permette di venire in contatto con la razza aliena che cerca nella Terra la soluzione ai propri problemi, legati a quello dei tre corpi del titolo (un effettivo problema della fisica); Saul Durand (Jovan Adepo), un assistente di ricerca; e Will Downing (Alex Sharp) che sta morendo di cancro al pancreas ed è innamorato di Jin, sebbene lei non ne sia consapevole.

Lo show ha fatto un egregio lavoro nel semplificare un testo di fantascienza un po’ nerd nella misura in cui, scritto da un autore che è un ingegnere informatico, è infarcito di molti concetti di fisica teoretica e matematica. I passaggi meramente esplicativi sono tenuti al minimo e ben integrati. Anche chi non fosse una cima in queste materie riesce a seguire tutto con estrema facilità. E rilevo con interesse quello che ha fatto osservare Evan Lambert su Thought Catalog, che loda gli autori televisivi per aver dato maggiore equilibrio a un testo maschilista: “Pubblicata dal 2006 al 2010, la trilogia dei Tre Corpi […] non andava sul sottile nel sostenere che le donne non erano in grado di guidare il mondo impedendone la distruzione. Come da tradizione cinese, l'autrice del romanzo Liu Cixin sostiene in ultima analisi la tesi dello yin e dello yang, suggerendo che le donne hanno bisogno della logica degli uomini per trovare un equilibrio e temperare la loro irrazionalità. Inoltre, Cixin trasforma il personaggio dell'ex rivoluzionaria Ye Wenjie in una quasi-cattiva […] viene dipinta come una persona inaffidabile, incompetente e irrazionale. In generale, Cixin non è timido nell'attribuire la colpa della distruzione della Terra a donne come Ye Wenjie e sostiene addirittura che la Terra dei suoi romanzi è condannata perché troppo ‘femminilizzata’”. Si legga il suo pezzo per approfondire, ma la versione televisiva riesce ad evitare il sessismo e la misoginia anche dividendo il protagonista maschio Wang Miao in due personaggi femmine, Auggie e Jin, e riesce anche a fare un adattamento culturale otre che più strettamente narrativo, anche perché c’è una globalizzazione con un cast multi-etnico.

La storia ha momenti di debolezza lì dove i personaggi sono poco caratterizzati (e qui in parte il problema è del materiale di fonte) e la cui funzione all’interno della storia è troppo telefonata: che senso ha avere uno di loro malato di cancro se non per fargli fare una sorte di potenziale deus-ex-machina finale, ad esempio? Le parti investigative, nonostante la bravura dell’interprete, sono state dozzinali, da formulaico crime-show della settimana. Sono trattati temi ambiziosi: antropologia, conquiste intellettuali, potere governativo, numerose questioni morali sull’universo e la sua esplorazione, limiti della scienza, e anche ecologia con la citazione di un testo seminale come “Primavera Silenziosa” di Rachel Carson e la remota minaccia di un’invasione aliena letta anche come metafora della questione climatica, anche nel momento in cui l’agire o non agire nel presente o il lasciare alle generazioni future il problema si pone come una questione sui cui prendere posizione. Nonostante ciò il dialogo è insignificante, dimenticabile, e c’è piattezza, e temo che questa sia una critica condivisa anche da chi ha mostrato più entusiasmo di me verso la serie.

Ci sono stati passaggi, come il disidratarsi e il re-idratarsi degli alieni, che mi sono sempre domandata come avrebbero potuto rendere, o il ridurre a fattine una nave, che mi hanno molto convinta e soddisfatta, così come le ricostruzioni della realtà del videogioco sono notevoli, si vede che non hanno badato a spese, ma al di fuori di quello nulla mi ha colpita nemmeno dal punto di vista visivo. Mi trovo a condividere quello che Phillip Maciak ha scritto su The New Republic nella sua eccellente recensione, ovvero che “il suo stile è anonimo, ancillare, opera di un autore aziendale più che di un'intelligenza artistica”, blando.

La serie è stata riconfermata per una seconda stagione con un numero di episodi imprecisati (pochi, si spera), ma giusto per chiudere le vicende. 

mercoledì 15 maggio 2024

RIPLEY: Zaillian ci regala uno stupendo neo-noir

Ripley (Netflix), il più recente adattamento del romanzo di Patricia Highsmith in forma di miniserie, è stato stupendo. Scrive bene la BBC quando titola la propria recensione dicendo che è un capolavoro, la serie hitchcockiana che Hitchcock non ha mai realizzato. 

Non ho letto il libro, e ho visto il solare film di Anthony Minghella del 1999, che se ne distanzia parecchio a quanto ne so, solo dopo questa trasposizione televisiva, e ammetto senza problemi che quando avevo saputo che era in produzione la mia reazione è stata “una cosa in meno da guardare”. Proprio non è il mio genere, e lo avrei evitato. Poi ho visto l’atmosferico promo di un programma girato completamente in bianco e nero, ho visto che interprete principale era Andrew Scott (Sherlock, Fleabag, Estranei), e ho scoperto che era stata ideata e interamente scritta e girata da Steven Zaillian, già autore di una delle mie miniserie preferite di tutti i tempi, The Night Of (ne ho scritto qui nel 2016). Improvvisamente il mio atteggiamento è diventato “devo vederlo immediatamente appena esce”. Non sono rimasta delusa.

ATTENZIONE SPOILER NEL PROSSIMO PARAGRAFO

Protagonista è l’anti-eroe Tom Ripley, maestro dell’inganno e dei raggiri, che sopravvive con piccole truffe. Siamo negli anni ’60 a New York e il danaroso industriale nautico Herbert Greenleaf (Kenneth Lonergan) lo assume per trovare il figlio Richard “Dickie” (Johnny Flynn), di cui lo crede amico, per riportarlo a casa. Questi si trova in Italia, a dipingere e godersi la bella vita, ad Atrani, località della costiera amalfitana, insieme alla sua compagna, Marge Sherwood (Dakota Fanning), che sta scrivendo un libro fotografico sul paesino. Tom inizialmente si fa amica la coppia, sebbene lei lo guardi sempre con sospetto. Poi, messo alle strette per andarsene, uccide “Dickie” e ne assume l’identità e ne utilizza il conto in banca, passando da una città all’altra del Bel Paese (Napoli, Roma, San Remo, Palermo, Venezia) per depistare e sviare i sospetti, finendo per uccidere anche un amico della coppia, Freddie Miles (Eliot Sumner), ragion per cui l’ispettore romano Pietro Ravini (Maurizio Lombardi) inizia ad investigare. Tom nonostante qualche passo falso, riesce sempre a scamparla, con grandissimo talento per la truffa, ma riesce anche a farsi passare per chi non è e per essere una brava persona perfino con la padrona di casa da cui affitta un lussuoso appartamento, la Signora Buffi (Margherita Buy).

Anche in questo caso, come nel precedente progetto per il piccolo schermo di Zaillian, assistiamo a un character study, nella forma di un thriller psicologico noir, o neo-noir se preferite. Psicopatico o sociopatico che sia Ripley, di fronte alle terribili azioni che commette finisci ugualmente a tenere un po’ per lui, a sperare che la faccia franca, a rimanere con il fiato sospeso per vedere come uscirà dall’ennesimo potenziale tranello, in suspence ad ogni passo in cui è virtualmente braccato. La bella recensione di Lucy Manga sul Guardian, rammenta come Graham Greene avesse definito la Highsmith “poetessa dell'apprensione” e qui si fa onore a tale definizione, anche se ci si concede anche l’occasionale tocco umoristico. Di Tom poi ammiri l’intelligenza, ne comprendi la rabbia e l’invidia che prova per gente meno talentuosa di lui che apparentemente ha tutto senza fare nulla, solo perché appartiene a una classe più abbiente, ne percepisci la solitudine, l’isolamento (e non guasta che buona parte del programma sia stato girato durante la pandemia). Un tema importante è gioco forza quello dell’identità e anche il fatto che siamo misteriosi a noi stessi; ci sono anche allusioni omoerotiche, sebbene meno marcate rispetto al film, con il protagonista che ribadisce che gli piacciono le ragazze, ma non sai se credergli e fino a che punto lui stesso ci creda o sia consapevole di chi è veramente. Indossa perennemente una maschera.

La messa in scena è elegantissima, con una fotografia mozzafiato, ogni inquadratura un quadro, una cinematografia raffinata e artistica, una luce calibrata alla perfezione. Nel film la passione del protagonista e filo conduttore è il Jazz, non presente nel romanzo, e qui la musica è quasi assente, cosa che mi è stata fatta notare e a cui io non avevo prestato attenzione, non essendo io una persona molto musicale. Non ho idea di come fosse nel libro, ma nella produzione di Netflix in modo molto più pregnante e coinvolgente a coinvolgere il protagonista è la pittura, e in particolare Caravaggio, con i suoi intensi chiaroscuri – e qui i chiaroscuri sono tanto visivi quanto psicologici – e con la sua vita tormentata e, in fuga da Roma dopo l’accusa di omicidio, finita in tragedia. Ripley lo studia, va ad osservarlo dal vivo, e si identifica con il grande maestro fra rinascimento e barocco, che è un personaggio a tutti gli effetti ad un certo punto. Il parallelismo funziona su più livelli (anche per la possibile omosessualità del pittore), con varie opere che punteggiano le puntate. Il programma è attento allo stile, ai costumi e al design (e a questo proposito si legga questo pezzo su Tudum, che in generale fa specifiche interessanti osservazioni estetiche) e riflette sul talento, sulla bellezza e sull’arte; efficacemente, come interpretazione letteraria e pratica ecfrastica, ci permette una riflessione intermediale, che come minimo coinvolge televisione, letteratura e pittura (ma non solo), deponendo a favore del fenomeno che Oskar Walzel agli inizi del XX° secolo definiva la wechselseitige Erhellung der Künste, la reciproca illuminazione tra le arti.

Un cameo di John Malkovich, che ha interpretato Ripley nel film Ripley's Game (2002), basato su un diverso libro della Highsmith, è un bel tocco nell’episodio conclusivo, ma non c’è dubbio che a brillare su tutti sia Andrew Scott, pacatamente tagliente, manipolatore e tanto inquietante quando magnetico.

domenica 5 maggio 2024

ONE DAY: dolce, romantica, intelligente

Preparatevi alla tonsillite più romantica della storia (1.12). Sono tutte meritate le lodi che sta ricevendo One Day – Un giorno, che ha debuttato su Netflix lo scorso 8 febbraio. A dispetto di un poster promozionale pigro e respingente, per me sarà indubbiamente una delle migliori serie dell’anno: dolce, romantica, intelligente. Ho letto il libro di David Nicholls, da cui è tratta, secoli fa. Mi era piaciuto molto, ma non posso dire di ricordarlo, se non per come finisce e per il senso del titolo: viene narrato un giorno per ogni anno della vita dei due protagonisti, Dexter (Leo Woodall) ed Emma (Ambika Mod), dal momento in cui si sono conosciuti, e ci sarà un giorno in cui come “è finita” avrà forse un senso (mi esprimo in termini generici per non fare spoiler).

L’aspetto che di primo acchito mi ha sorpreso di più è stato il casting, perché nella mia limitata immaginazione non avevo pensato a un’attrice di origine indiana. E in effetti nel libro il personaggio era bianco, e nel film che ne era seguito (che non ho visto) che era stato sceneggiato dallo stesso autore, l’attrice che interpretava Emma era bianca. Ma questa variante non mi ha lasciato dubbi: entrambe le scelte di casting sono state azzeccatissime. Lei già la sapevo eccezionale per il suo ruolo in This is going to hurt: qui interpreta una donna molto brillante e saggia che aspira a diventare scrittrice e che lavora inizialmente come registra teatrale per una compagnia itinerante poi come insegnante; è una persona complessa, amante della lettura, anche un po’ timida ma certa di non essere il premio di consolazione di qualcuno, ma l’opposto (1.12). Lui lo avevo apprezzato, anche se non altrettanto, in un ruolo minore in The White Lotus in un cast dai nomi tutti pesanti, ma qui come leading man ha potuto risplendere, affascinante e vulnerabile in egual misura, risoluto e ammirato come presentatore televisivo che già viene da una famiglia abbiente e insicuro nella misura in cui sente di non realizzare qualcosa di significativo  nella vita, e pronto ad affogare nell’alcol e nelle droghe i propri dolori esistenziali (che siano la perdita della madre o la scarsa autostima o la mancanza di prospettive appaganti) nonostante la vita di successo nel jet set.

Insieme sono stati credibili, e si è saputo mettere in scena una storia di amicizia in primis e d’amore poi che a lungo rimane non dichiarata, ma perennemente sottesa, dopo il loro primo incontro, il 15 luglio 1988 in occasione della festa di laurea che segna la fine dei loro studi all'Università di Edimburgo. Si piacciono, passano una notte insieme in modo grosso modo platonico, chiacchierando, scalando insieme il giorno dopo un vecchio vulcano conosciuto come Arthur’s Seat e decidendo di rimanere in contatto, in un’epoca in cui cellulari ancora non esistevano (e questo diventa giocosamente un elemento che segna il passare del tempo).   

Quello che questa rom-com in quattordici puntate di varia durata, ideata e per la gran parte sceneggiata da Nicole Taylor, riesce a fare magistralmente è mostrare la semplicità dello stare insieme di due persone che si amano veramente, come amici prima di ogni cosa e poi come innamorati, anche se superficialmente non li si vedrebbe l’uno per l’altra. Eppure funzionano, vedono l’essenziale, sanno comprendersi e sono giocosi, allegri, si crea la magia nella quotidianità. Allo stesso tempo si vede l’imbarazzo di due persone che pur provando gioia alla compagnia reciproca talvolta non sanno bene come farlo e come passare da amici ad innamorati. Nell’episodio 4 ad esempio, ambientato in Grecia, se lo dicono e non se lo dicono, ci girano intorno. Passano dei momenti di distanza, negli anni, fanno errori e si feriscono. In 1.07, Dexter la accusa di essere giudicante, Emma gli rinfaccia di essere raramente sobrio e spesso assente, tuti e due di non apprezzarsi reciprocamente come dovrebbero. Entrambi in tempi e modi diversi piangono, metaforicamente o meno, se la controparte sta con un altro o un’altra. A lungo non sembra mai il loro momento. E anche quando poi stanno finalmente insieme, sanno essere dolci, ma non sono sdolcinati; sono reali.

In un’intervista a Entertainment Weekly Nicholls, che qui si è riservato la scrittura della penultima puntata, ha dichiarato che “La premessa del romanzo è che dovrebbe essere come sfogliare un album di fotografie, nel senso che una fotografia cattura un momento nel tempo, che questi giorni sono piccole vignette di come si era in quel momento”. E proprio questa è la sensazione che si riesce a cogliere anche nella serie, dove i personaggi talvolta nemmeno sono insieme: l’episodio 8 ad esempio è dedicato solo a lei, il 9 solo a lui. Ciascuno ha il proprio percorso: lei va a vivere con Ian (Jonny Weldon) e poi ha una relazione con il preside della scuola dove insegna, lui sposa Sylvie (Eleanor Tomlinson, Poldark), da cui ha una bambina, Jasmine. Sembrano destinati a non essere l’uno per l’altro l’amore della vita, eppure lo sono e la serie riesce a farti credere nella forza e nella possibilità dell’amore anche quando le nostre scelte apparentemente sono volte a negarlo o a sabotarlo.

C’è delicatezza anche nella crudezza in One Day, cha fa tifare per Emma e Dexter e che è tanto concreto e reale quando sognante e, appunto, romantico.

giovedì 25 aprile 2024

JURY DUTY: sono prevenuta

Ammetto che sono prevenuta nei confronti di programmi come Jury Duty – Il Giurato, che ha debuttato ad aprile 2023 su Amazon Prime, su un piano etico-morale: non so quanto a favore io sia.  

Prima facie si tratta di una serie documentaristica che esplora il funzionamento del sistema giuridico statunitense dalla prospettiva di una giuria chiamata a decidere su un caso specifico. In realtà, come ci viene spiegato dalle schermate iniziali in sovrimpressione all’inizio di ogni episodio, il caso è fittizio e sono tutti attori tranne un ragazzo che, ignaro, pensa che sia tutto reale, salvo poi svelargli che non lo è al termine del sottofinale (“Deliberations”, 1.07), e godersi la reazione e le rivelazioni dettagliate nell’ultima puntata dedicata a un “dietro le quinte”. 

Certo, il giurato numero 6 (Ronald Gladden) in una certa misura sapeva di venire filmato perché era convinto di partecipare alle riprese di un documentario, e gli avvenimenti della giornata sono stati spesso commentati in sipari a parte, di cui era evidentemente consapevole, ma che fosse tutto falso e che anche altri momenti più privati venissero registrati no. E per quanto alla fine lui accetti di buon grado quanto è accaduto, salvo rammaricarsi del fatto che non può considerarsi esonerato dalla possibilità che lo chiamino in futuro per far parte di una effettiva giuria, e venga ripagato del suo sforzo di protagonista involontario con 100.000 dollari, mi mette in difficoltà l’idea stessa di un programma che è una via di mezzo fra Scherzi a Parte (dove la durata molto limitata dello scherzo lo redime in una certa misura) e The Truman Show (dove nella finzione narrativa del film tutta la vita del protagonista interpretato da Jim Carrey è filmata a sua insaputa per il piacere del pubblico). Se non fosse che è stata lodata come una delle migliori serie dello scorso anno – ha ricevuto tre nomination agli Emmy e due ai Golden Globe e ha anche vinto come programma dell’anno il premio dell’American Film Institute -, non l’avrei guardata se non altro per non premiare esperimenti di questo tipo, che sono manipolatorie dei sentimenti del coinvolto, che costruisce relazioni fasulle: una vera tragedia più che la commedia che intendono. È interessante ed affascinante? Sicuramente. È anche crudele. E non sono sicura di approvarlo moralmente.

Detto questo, si sono inanellate una fila di situazioni al limite della credibilità, tanto che in corso di via (1.06) il nostro malcapitato commenta che sembra un reality. Ronald Gladden, un appaltatore nel campo delle istallazioni solari, arriva alla Huntington Park Superior Court di Los Angeles, e in occasione del processo di Voir Dire, volto a selezionare i giurati, comincia a conoscere gli altri. Fra loro c’è anche l’attore James Marsden (Westworld), in una versione molto egocentrica e vanesia di sé stesso, che attrae i paparazzi. Per evitare potenziali disturbi, il giudice Alan Rosen (Alan Barinholtz), che presiede la causa, impone il sequestro della giuria, costretta a risiedere in un albergo fra un’udienza e l’altra. Hanno così modo di conoscersi fra loro: Noah Price (Mekki Leeper) si perde la vacanza con la sua ragazza per questo impegno da cui non può sottrarsi, ma fa presto amicizia con Jeannie Abruzzo (Edy Modica); Todd Gregory (David Brown) è un impacciato inventore; Barbara Goldstein (Susan Berger) è un’anziana che continua ad addormentarsi durante il processo; Ross Kubiak (Ross Kimball) è un insegnante in crisi matrimoniale, anche se non vuole farlo sapere…Per ogni necessità possono far riferimento a Nikki Wilder (Rashida Olayiwola), l'ufficiale giudiziaria. Gli avvocati che discutono la causa, pur attori, hanno un passato professionale nel campo.

C’è umorismo, ma per la gran parte appena accennato, in questa creazione di Lee Eisenberg e Gene Stupnitsky con la regia di Jake Szymanski. C’è qualche occasione esilarante, come quando in “Field Trip” (1.04) Todd è costretto ad indossare una maglietta che scoprono avere un (fittizio) significato a sostegno dei neonazisti, o quando Noah vuole fare l’amore con Jeannie (1.05), ma viste le sue convinzioni si vede costretto a chiedere l’aiuto di James. Quello che emerge è il cameratismo e il bel rapporto che si crea fra le persone, anche se appunto, in molto è fasullo, cosa che lascia davvero molta amarezza, anche se ci rassicurano con le dichiarazioni che sono rimasti in contatto e hanno imparato a conoscersi sul serio. Se non fosse per la trovata in ogni caso, e se fosse una serie scripted, sarebbe solo passabile. 

lunedì 15 aprile 2024

COLIN FROM ACCOUNTS: divertente e romantica

È una piccola serie australiana sia divertente che romantica Colin from accounts (potremmo tradurlo Colin della contabilità, BBC2, Paramount+ negli USA, ma per ora non disponibile in Italia, da quanto mi risulta), che ha vinto il TV Logie Award (annuale premio televisivo per quel continente), così come i due attori principali.  Protagonisti sono Ashley e Gordon, interpretati rispettivamente da Harriet Dyer e Patrick Brammall, che sono anche ideatori e sceneggiatori della serie, e sposati fra loro nella vita reale.  

Siamo a Sydney. Ashley, studentessa tirocinante in medicina, come “ringraziamento” per averle fatto attraversare la strada, mostra per un istante una tetta a Gordon che sta guidando e, distratto da quel flash, investe un cane ferendolo. Si sentono entrambi responsabili, e dal momento che l’animale non sembra avere un umano di riferimento, decidono di portarlo loro dalla veterinaria, la ex di lui (Annie Maynard), di dividere le spese (ben 12.000 dollari, più ruote per le zampe posteriori) e alla fine anche di prendersene cura. Lei viene sbattuta fuori di casa perché dove affitta non è possibile tenere animali e finisce per essere accolta temporaneamente da Gordon, che ha un’attività in proprio: una birreria che è microbirrificio, l’Echo Park. Con lui lavorano Chiara (Genevieve Hegney) e Brett (Michael Logo), che sono affascinati, ma anche preoccupati da quello che è successo. Ashley e Gordon sono single – lei ha da poco rotto con James (Tai Hara), che vede comunque al lavoro - e fra i due nasce un’attrazione, sebbene lui sia più vecchio di lei, e la migliore amica di lei, Megan (Emma Harvie) ritenga che farebbe meglio a concentrarsi sugli studi. Il cane, un delizioso Border Terrier che vorrei usassero di più, è quello che alla fine li riporta sempre l’uno all’altra, e fa un po’ da collante. È lui il “Colin from accounts” del titolo, perché è così che scherzosamente decidono di chiamarlo.

La parte romantica funziona perché i personaggi si conoscono gradualmente e si capisce che cosa li attrae l’uno dell’altra, non è una storia d’amore istantanea, ma costruita e di progressiva rivelazione reciproca, e si crea un bellissimo rapporto di complicità. Bisticciano magari, ma con affetto. Nasce in primis un’amicizia, e poi ci si interroga se possa diventare amore. E in un mondo in cui è facile finire a letto al primo appuntamento l’ostacolo al consumo fisico del rapporto – il classico lo-faranno o non-lo-faranno che è un tropo delle rom-com– è stato creato in modo realistico. Gordon esce da poco da un tumore e deve fare una uretroscopia in “Toyota Cressida” (1.03), per cui è richiesto del medico che non abbia rapporti, ma lei non lo sa, ad esempio.

La parte umoristica è credibile anche nelle situazioni apparentemente già battute da altri o imbarazzanti – lui le manda per errore una foto in cui gli si vede l’organo sessuale e non sembra assurdo quel “per errore”, ma ha tutto il senso del mondo e se finiscono a parlarne sul letto di morte di qualcuno in una delle puntate più esilaranti, poco male (1.03); lei gli fa per errore pipì in un cassetto? Riescono a gestirla considerevolmente bene (1.02). Non si è al di sopra di creare umorismo scatologico: lui, visto il nome che si ritrova, si fa simpaticamente chiamare Flash, ma il suo cognome si scopre essere Crapp (“crap” è “merda” in inglese); lei capita che debba evacuare a casa di lui, che ha da poco conosciuto, ed ecco che non funziona lo sciacquone.

Si costruiscono dei personaggi sfaccettati, tridimensionali, che a mano a mano che le puntate procedono si approfondiscono, e si va oltre la facile battuta da sit-com, un po’ sul principio di Catastrophe. Delle 8 puntate, è poco riuscita “Bandit” (1.07), in cui gli amici di lei si riuniscono all’Echo Park in occasione della festa per il suo trentesimo compleanno e vanno fuori controllo, ma al contrario nella precedente “The Good Room” (1.06) si riesce a scavare nella psicologia dei personaggi e a rivelarli in occasione di una cena a cui la madre di lei Lynelle (Helen Thomson) li invita. Oltre a situazioni vagamente, deliziosamente, umoristicamente creepy, garantite anche dal compagno della madre, Lee (Darren Gilshenan), emergono delle dinamiche conflittuali e dolorose a cui Gordon reagisce in modo impeccabile e che cementano l’intimità emotiva fa i due protagonisti in modo notevole anche per una serie drammatica: proprio eccellenti.   

Con genuino interesse umano, trama imprevedibile, scambi di dialogo arguti, attori con una buona capacità di rendere le battute frizzanti e dinamiche, situazioni dolci ma non sdolcinate, Colin from accounts riesce a confezionare un piccolo gioiellino che è già stato rinnovato per una seconda stagione.  

La serie, che ha una sigla che è un montaggio di homevideo con cani, è prodotta da Easy Tiger Productions and CBS Studios per Foxtel. Mi ha sorpreso che ogni puntata esordisse con una dichiarazione che dice: “Il Gruppo Foxtel riconosce i Proprietari e Custodi Tradizionali della terra su cui questo programma è stato prodotto. Rendiamo omaggio a tutte le persone delle Prime Nazioni e ringraziamo gli Anziani passati e presenti”. Immagino si possano scrivere pagine anche solo su questa dichiarazione. Affascinante.  

venerdì 5 aprile 2024

TINY BEAUTIFUL THINGS: le piccole, grandi cose della vita

Basata sul libro “Piccole cose meravigliose” di Cheryl Strayed, Tiny Beautiful Things – Le piccole cose della vita, miniserie di Hulu disponibile in Italia su Star (Disney+) portata in TV da Liz Tigelaar, fa riferimento nel suo titolo a tutte quelle piccole cose belle che non credi di poter meritare perché ti senti uno schifo, ma che in realtà dovresti essere in grado di vedere. Ogni puntata ha una sceneggiatrice diversa ma, pur con situazioni più o meno convincenti, nel tono generale non si nota perché riesce ad essere ben uniforme: un coro che canta la stessa canzone.

Protagonista è Clare Pierce, sull’orlo dei 50, interpretata da Kathryn Hahn da adulta e da Sarah Pidgeon da giovane, entrambe molto convincenti nella parte, e credibili come una la versione adulta dell’altra. È una operatrice sanitaria in una casa di riposo che aveva ambizioni come scrittrice finite un po’ in disparte dai fatti della vita, che si ritrova a curare una rubrica di consigli firmandosi come Sugar. È sposata con Danny Kincade (Quentin Plair), con cui il rapporto è però in crisi, anche se fanno terapia di coppia cercando di riparare la situazione. In particolare lui l’ha sbattuta fuori di casa perché le rimprovera di aver dato al fratello Lucas (Nick Stahl da adulto e Owen Painter da giovane) dei soldi che avevano messo da parte per pagare l’università della loro figlia, per ora ancora adolescente, Frankie Rae (Tanzyn Crawford), che è particolarmente ostile alla madre, da cui si sente incompresa. Clare, nel dare i propri consigli sotto pseudonimo alla gente, esamina quello che accade nella propria vita, che sembra a rotoli o sul punto di esserlo, e torna con la memoria alla giovinezza, quando ha conosciuto l’attuale marito e in particolare al periodo in cui era ancora viva sua madre Frankie Pierce (Merritt Wever), precocemente morta di cancro quando lei aveva 22 anni e, almeno nei ricordi, era una specie di esempio di virtù e santità materna.

Il punto di forza della serie, che ho gradito ma non mi ha trascinata, è che mostra personaggi davvero umani, che si vogliono bene e nondimeno si feriscono, che sono anche un po’ persi, disordinati, alla deriva, spezzati. Quello che non me lo ha fatto apprezzare totalmente è che è sembrato troppo “impostato”, troppo “compito in classe” su questo argomento, un po’ troppo “ho imparato che…”. Come scrittrice la protagonista di interroga: “chi sono io? La figlia di mia madre, la madre di mia figlia, un brava scrittrice”; e nella mirabile “The Nose” (1.05, scritta da Des Moran), una tesina su “Il  Naso” di Gogol in forma di puntata televisiva  quella tesina che Clare non è riuscita a consegnare pur essendo il solo compito che le rimaneva per laurearsi, perché le è mancata la madre che, iscrittasi pure lei al corso con la figlia riceve invece una laurea pur essendo defunta, si riflette sul racconto come modo allegorico di narrare su che cosa accadrebbe se cose impossibili diventassero possibili. Si parla anche di sesso - anche se il buon senso ci fa domandare chi mai prenderebbe consigli da una donna che usa un vibratore di una marca tanto scadente che le si fulmina in mezzo alle gambe mentre lo usa, ferendola (1.06) e, sarò cinica, ma anche quanto credibile sia che una americana non faccia poi causa alla casa produttrice (in questo caso ragionevolmente).

Fra i riferimenti alla televisione che hanno fatto ho gradito quello a General Hospital, citato due volte (1.05) perché era evidente che chi scriveva conosceva la storyline di Monica Quartermaine che si era ammalata di cancro alla mammella e l’osservazione che il fratello fa a Clare, paragonandola a Carly nella soap: fa sorridere perché è molto “vita reale”.

Potente la chiusura di stagione, soprattutto in quelle scene in cui i personaggi discutono e si attaccano fra loro con un continuo passaggio fra attori adulti e attori giovani. Lo stratagemma stilistico rende più incisivo il valore di quello che si dicono nell’ottica del loro passato. Quello che vedono davanti ai propri occhi infatti non è solo la persona attuale, ma anche quella passata, rendendo la presente carica di tutto quello che c’è stato nel rapporto fra loro. Con il fatto che è avvenuto quando ormai per tutta la stagione li abbiamo visti, è scivolato in maniera naturale e pregnante.

Gli argomenti trattati, dall’amore alla morte, dal matrimonio ai rapporti genitori-figli, dal lutto alla rabbia al perdono, sono tutti tosti e non si finge che non sia così. Potenzialmente è uno strappalacrime, ma sono rari i momenti in cui davvero si frigna. 

lunedì 25 marzo 2024

A MURDER AT THE END OF THE WORLD: omicidi e tecnologia

Salutata come una delle migliori serie del 2023 da molte testate, ho dovuto dare una chance a A Murder at the End of the World (Star – Disney+), pur non essendo un genere troppo nelle mie corde: non mi ha delusa, anzi. Questo thriller psicologico infarcito di tecnologia, e un monito proprio ai suoi rischi, ideato da Brit Marling e Zal Batmanglij (The OA) per FX, è intrigante nella tradizione di Agatha Christie e di quei gialli che mettono tutti i presunti colpevoli in un unico luogo, e si chiude con un colpevole inaspettato e credibile magari chi è più avvezzo di me a seguire questo genere di storie l’avrà capito prima, ma io da sola non ero riuscita ad individuarlo.

Protagonista è Darby Hart (Emma Corrin, The Crown), hacker, scrittrice di gialli e lei stessa detective amatoriale che ha imparato un po’ il mestiere accompagnando fin da piccola il padre sulle scene del crimine, dove si recava professionalmente come patologo, e all’obitorio – è la “Sherlock Holmes della Generazione Z”, come l’ha definita la stampa. Viene invitata, insieme ad altre otto persone, da Andy Ronson (Clive Owen), un miliardario visionario nel campo della tecnologia, in un’isolata struttura simil-alberghiera, sotto la quale c’è il suo rifugio-bunker, in una sua proprietà nella gelida Islanda, per un “ritiro”. Lì lui vive insieme alla moglie Lee (Brit Marling, la co-ideatice della serie) e al figlioletto Zoomer (Kellan Tetlow). Ognuno ha una propria stanza e a gestire le loro esigenze c’è Ray (Edoardo Ballerini), un maggiordomo-assistente di intelligenza artificiale o, come preferisce definirlo il magnate, di “intelligenza alternativa”. Questo fa sì anche (e questo è uno dei temi trattati) che siano sorvegliati costantemente. In un momento storico in cui si è sull’orlo di una catastrofe climatica globale (siamo alla fine del mondo anche metaforicamente), queste menti brillanti sono chiamate per dare il proprio contributo.

ATTENZIONE SPOILER, PER LA PRIMA PUNTATA

Altri ospiti sono un genio della robotica, Oliver (Ryan J. Haddad); un climatologo, Rohan (Javed Khan); la progettatrice cinese di città smart, Lu Mei (Joan Chen); un’attivista iraniana, Ziba (Pegah Ferydoni); una dottoressa, Sian (Alice Braga); un regista che nelle sue creazioni usa l’intelligenza alternativa, Martin (Jermaine Fowler); un uomo d’affari collaboratore del miliardario, David (Raúl Esparza). Qui, fra loro, Darby è però sorpresa di incontrare anche Bill Farrah (Harris Dickinson), il ragazzo che ama e con cui tempo prima anni prima aveva dato il via a un’investigazione che li aveva portati a smascherare un serial killer di donne, poi l’oggetto del suo romanzo, ma che l’aveva lasciata sei anni prima scrivendole sullo specchio della stanza di motel che condividevano “Penso che questo sia troppo e non abbastanza”. Nel frattempo è diventato un artista. Ora, nel rivederlo, Darby vuole parlargli, ma riesce solo ad assistere alla sua tragica morte. Vuole scoprire il colpevole e quando altre morti si verificano, decide ufficialmente di indagare, rischiando lei stessa la vita più volte.

Le vicende della candida, glaciale Islanda – complice la scenografia mozzafiato si richiama l’estetica dei gialli scandinavi – si alternano a momenti di flashback in cui Darby ripercorre alcune delle tappe salienti della sua formazione da detective e della sua relazione con Bill, che danno spessore al suo personaggio, una ragazza volitiva e curiosa dall’apparenza quieta e riservata, e movimentano la narrazione permettendo anche un cambio di scenario.

C’è sempre una buona suspense (penso alla bella 1.05, in questo senso, and esempio) e inaspettati colpi di scena.  Si rimane sul classico con tropi di questo genere di narrazioni (ad esempio la tempesta di neve che impedisce loro di andarsene – 1.04) e il tono ha infatti anche un che di senza tempo, nonostante si sia immersi in un contesto anche altamente tecnologico (quanto meno per l’epoca attuale, facilmente fra vent’anni rideranno a questa mia affermazione) che vuole riflettere sui mandati che vengono dati all’AI e sui suoi limiti, per quanto in maniera anche ingenua per chi si occupa di etica degli algoritmi. Una visione intrigante, a cui si può perdonare l’ampiamente visibile product placement della Coca-cola, ma anche in qualche maniera rilassante.  

venerdì 15 marzo 2024

THE REGIME: farsesco

Mi risulta intollerabile seguire The Regime – Il Palazzo del Potere (HBO; Sky Atlantic) oltre la prima puntata, nonostante siano solo sei. Attraverso un regime dittatoriale fittizio centroeuropeo, vuole essere una satira su come il potere privo di restrizioni corrompe, ma non riesce mai a trovare il tono giusto. Forse sono io che non ne apprezzo il gusto per farsa e assurdo, mai certa di quanto voglia essere umoristico – lo è per nulla o molto poco e quanto una critica al vetriolo degli abusi perpetrati da persone atroci, con una porzione riservata anche ai vecchi Stati Uniti anche questo lo è piuttosto poco. La creazione di Will Tracy, con la regia di Stephen Frears e Jessica Hobbs, si addentra in territori bazzicati da Armando Iannucci (Veep), ma in questo caso con risultati molto meno graffianti e gratificanti per lo spettatore. Magari semplicemente non è per me, che vengo infastidita anche dai filtri scelti dalla fotografia, e ci sarà un futuro in cui ne riconoscerò l’alto valore artistico che alcuni vedono, ma per ora trovo anche generoso il punteggio di 57/100 che ci attribuisce Metacritic con il suo semaforo giallo.

Kate Winslet interpreta la cancelliera Elena Verham, una donna ipocondriaca, germofobica che chiede di misurare costantemente l’umidità dell’aria poiché percepisce costantemente il rischio di muffe a palazzo, gestito con rigore da Agnes (Andrea Riseborough). Elena ha perso il padre per una malattia polmonare e teme sia la sua stessa sorte. È sposata con Nicholas (Giullaume Gallienne), che ha conosciuto a Parigi e che lei ha sposato dopo che lui ha lasciato la sua prima famiglia. Presto suo fidato consigliere diventa il militare che era inizialmente incaricato a precederla con un igrometro ovunque andasse, Herbert Zubak (Matthias Schoenaerts), che ha il nomignolo di Macellaio dell'area cinque", o anche semplicemente Macellaio, per aver trucidato dei minatori in una miniera di cobalto.

Sono palpabili la sensazione che nessuno è al sicuro, tipica dei regimi dittatoriali retti da folli, sani di mente quel tanto che basta da riuscire a legittimare il proprio potere come facciata, così come il disagio di una pletora di dipendenti costretti ad accontentare ogni eccentricità e di un pubblico costretto ad applaudire in ogni situazione anche immeritata – come ho pensato all’imperatore romano Nerone, quando Elena canta stonata a un ricevimento del presidente statunitense, e tutti fingono di apprezzare. C’è una destabilizzante “folie à duex psicosessuale” fra Vernham e Zuback, come la chiama appropriatamente Variety, che sbaglia però per me a ritrovarvi un’estetica del fascismo, se non molto superficiale, quando ne è più una versione kitsch. E la regnante è specchio dei molti, troppi dittatori che ha visto il nostro passato e vede il nostro presente, c’è solo l’imbarazzo della scelta fra i nomi. Qui però c’è stringi-stringi poca politica. Mi rammarico, fermandomi io al primo episodio, di non aver visto all’opera Martha Plimpton nel ruolo della segretaria di Stato americana, o Hugh Grant in quello del leader dell’opposizione, ma non trovando la miniserie né divertente né penetrante, ma altamente respingente, me la risparmio.