lunedì 21 settembre 2015

EMMY AWARDS 2015: i vincitori

 
Sono stati consegnati questa scorsa notte gli Emmy Awards, in una cerimonia presentata da Andy Samberg (Brooklyn Nine-Nine) che Rai4 ha trasmesso in diretta e replicherà in differita stasera in seconda serata. Per le mie considerazioni su chi avrebbe dovuto vincere e si chi avrebbe vinto, si veda qui.
Sotto, la lista dei vincitori. Grandi premiati Il Trono di Spade, Veep e Olive Kitteridge.
 
Miglior drama
 
Game of Thrones
 
 
Miglior attore in un drama
 
Jon Hamm, Mad Men 
 
 
Miglior attrice in un drama
 
Viola Davis, How to Get Away With Murde
 
 
Miglior attore non protagonista in un drama

Peter Dinklage, Game of Thrones
 

Miglior attrice non protagonista in un drama

Uzo Aduba, Orange is the New Black
 

Miglior Sceneggiatura per un drama

David Benioff e DB Weiss, episodio “Mother’s Mercy” (5.10), Game of Thrones – su questo episodio si veda che cosa avevo scritto qui.
 

Miglior Regia per un drama

David Nutter, episodio “Mother’s Mercy” (5.10), Game of Thrones
 
 
 
 
Miglior comedy
Veep
 
 
Miglior attore in una comedy
 
Jeffrey Tambor, Transparent
 
 
Miglior attrice in una comedy
 
Julia Louis-Dreyfus, Veep
 
 
Miglior attore non protagonista in una comedy
 
Tony Hale, Veep
 
 
Miglior attrice non protagonista in una comedy
 
Allison Janney, Mom
 
 
Miglior sceneggiatura per una comedy
 
Simon Blackwell, Armando Iannucci e Tony Roche, episodio Election Night (4.10), Veep
 
 
Miglior regia per una comedy
 
Jill Soloway, episodio “Best New Girl” (1.08),  Transparent
 
 
 
 
Miglior  miniserie o film per la TV
 
Olive Kitteridge
 
 
Miglior attore in una miniserie o film per la TV
 
Richard Jenkins, Olive Kitteridge
 
 
Miglior attrice in una miniserie o film per la tV
 
Frances McDormand, Olive Kitteridge
 
 
Miglior attore non protagonista in una miniserie o film per la TV

Bill Murray, Olive Kitteridge

 
Miglior attrice non protagonista in una miniserie o film per la TV

Regina King, American Crime

 
Miglior sceneggiatura per una miniserie o film per la TV

Jane Anderson, Olive Kitteridge
 
 
Miglior regia per una miniserie o film per la TV

Lisa Cholodenko, Olive Kitteridge
 
 
 
Miglior serie di varietà – sketch
 
Inside Amy Schumer
 

Miglior serie di varietà -  talk
 
The Daily Show with Jon Stewart
(che ha vinto anche per scrittura e regia in questa categoria)
 
 

venerdì 18 settembre 2015

HAND OF GOD: fede, truffa, follia


Il figlio di un anziano potente giudice, PJ (Johnny Ferro), ha cercato di togliersi la vita finendo in coma irreversibile, dopo che è stato costretto a guardare mentre un criminale violentava la moglie Jocelyn (Alona Tal, Veronica Mars). Il giudice suo padre, Pernell Harris (Ron Perlman, Sons of Anarchy), vero protagonista di Hand of God (Mano di Dio), presumibilmente per lo stress causato da questi eventi, comincia ad avere un comportamento erratico, a sentire voci e ad avere visioni, che interpreta e segue come fossero messaggi di Dio, con conseguenze anche criminose. Come “born again Christian”, cristiano rinato nella fede, dice che intende rinunciare ai suoi regolari incontri con una prostituta, Tessie (Emayatzy Corinealdi), e comincia dispensare quella che considera la giustizia divina, con l’aiuto di un criminale violento e sociopatico con fissazioni religiose, KD (Garret Dillahunt). A fomentare questa sua convinzione di fede è un sedicente religioso, con un passato di attore di soap opera, specificatamente Febbre d’Amore, Paul Curtis (Julian Morris, Pretty Little Liars, che non mi risulta abbia nella realtà mai partecipato alla suddetta soap), a cui il giudice ha regalato molti soldi che lui e la sua compagna di imbrogli Alicia (Elizabeth McLaughlin) usano apparentemente per fondare una nuova congregazione. La moglie Crystal (Dana Delany, Body of Proof), così come i professionisti con cui viene a contatto nel suo lavoro, come il sindaco Robert Boston (Andre Royo, The Wire), sono preoccupati.  

Così parte la nuova serie di 10 puntate targata Amazon ideata da Ben Watkins, con una premessa simile a quella di American Crime (i genitori hanno a che vedere con le conseguenze di un crimine violento nei confronti dei propri figli) e di Boss (una figura autorevole della comunità comincia a “dare di matto”). Il temi maggiori sembrano essere nei quello delle truffe travestite da religione che puntano senza scrupoli esclusivamente al denaro, alle spalle di gente vulnerabile, disperata e facilmente circuibile e quello delle follie a cui conduce una fede cieca. Il pilot ha avuto qualche momento di impatto, come la combinata umiliazione di un poliziotto e della nuora avvenuta nel tentativo di scoprire il colpevole seguendo le indicazioni di una allucinazione di Pernell. La serie però ha raccolto soprattutto recensioni negative, per la mancanza di sottigliezza e per ostentare lordura, squallore e turpitudine senza una contropartita umana rivelatoria, nonostante l’apprezzabile recitazione. 

giovedì 17 settembre 2015

THE BASTARD EXECUTIONER: un esordio brutale


“Galles, all’alba del 14° secolo. Il cattolicesimo romano domina il panorama religioso. I gallesi, combattendo ferocemente per l’indipendenza, sono stati schiacciati da Edward Longshanks, re Edoardo I di Inghilterra. Dopo la morte di Longshanks, il suo impulsivo figlio, Edoardo II, prende il trono. Cresce la tensione nei turbolenti terreni paludosi fra Galles e Inghilterra. Temendo la ribellione, i baroni inglesi comandano i loro territori feudali con inflessibile brutalità. Mentre i contadini di queste province si aggrappano disperatamente alla speranza che un Dio amorevole vegli su di loro”. Così recita l’incipit di The Bastard Executioner, l’attesa nuova serie di Kurt Sutter (Sons of Anarchy), che in una bellissima sigla (sotto) fa una carrellata di strumenti di tortura e di morte.
Dopo due truculente carneficine che avrebbero reso fiero George RR Martin, il protagonista principale, Wilkin Brattle (un Lee Jones  prima facie poco carismatico, ma forse solo un po’ verde), un ex soldato che aveva lasciato la spada per una vita da contadino accanto alla moglie Petra (Elen Rhys), nella fittizia provincia del Ventrishire, decide di farsi coinvolgere nella ribellione contro il locale feudatario, il barone Erik Ventris (Brain F. O’Byrne) che ha innalzato le tasse, e il suo ciambellano Milus Corbett (Stephen Moyers, True Blood), uomo senza scrupoli sempre pronto a complottare, che non esita a schierasi contro il suo stesso fratello, Leonn Tell (Alec Newman). Nel doppio pilot (1.01-1.02) facciamo anche la conoscenza di uno dei leader della rivolta, Gruffudd y Blaidd, che si traduce più o meno come Griffith il Lupo, interpretato da Matthew Rhys (il protagonista maschile di The Americans, che è un attore gallese), in un momento che qui è apparentemente insignificante, ma che promettono sarà carico di conseguenze nello svolgimento futuro della storia (TV Guide, 14 Sept, 2015)
Wilkin attraverso una serie di vicissitudini si appropria della vita di un altro uomo, il boia itinerante sadico, violento e autolesionista Gawain Maddox (Felix Scott), con un imbroglio che è uno dei più coinvolgenti colpi di scena – e che Sutter dice di aver preso in prestito dal film del 1982 con Gerard Depardieu The Return of Martin Guerre. (cfr. Entertainment Weekly). Diventa così lui il Bastard Executioner del titolo, il Boia Bastardo, tenuto a torturare e a provvedere alle esecuzioni capitali dei fuorilegge, un mestiere moralmente complesso in un mondo in cui cristianesimo e misticismo pagano si intersecano e mescolano. È anche guidato da spiriti che gli appaiono in sogni e visioni e dall’incontro di una strega/guaritrice dall’accento slavo che gli preannuncia un destino particolare. Si tratta di Annora, interpretata dall’attrice Katey Sagal, con un look dai lunghi capelli striati di bianco, già star di Sons of Anarchy nonché moglie nella vita dell’ideatore, che ha ritagliato anche per sé un piccolo ruolo in cui è praticamente irriconoscibile perché truccato come se fosse interamente ustionato, il Dark Mute. Wilkin presterà i suoi servigi, accompagnato dal suo braccio destro Toran Pritchard (Sam Spruell),  presso Castello Ventris dove risiede baronessa Lady Love Ventris (Flora Spencer-Longhurst), che farà da ago della bilancia fra lui e Milus.
Un misto di Game of Thrones, Vikings, Outlander e Braveheart, The Bastard Executioner, è fedele alla reputazione del suo autore. Al di là di qualche fugace momento umoristico, assicurato da Ash (Darren Evans), pastore con un particolare attaccamento per la propria pecora Miriam, non mancano squartamenti, sgozzamenti, corpi trafitti secondo ogni possibile angolazione e violenza a profusione. Forse è vero che, come si affretta a chiarire Sutter, i soprusi accadono in modo organico, non sono gratuiti ma hanno un loro significato e soprattutto non sono privi di conseguenze, ma hanno ramificazioni emotive o narrative (The Hollywood Reporter), ma per il momento le varie battaglie e scontri sono risultati piuttosto piatti e mono-tono. La sensazione è che si sia solo assistito a una non troppo convinta lunga premessa per arrivare, dopo le prime due puntate unite insieme, al vero inizio della storia. Molti dei personaggi introdotti hanno già fatto una brutta fine e forse solo ora si avrà il tempo di esplorare quello di cui si vorrebbe parlare ovvero di fratellanza, lealtà, responsabilità verso gli altri membri di una comunità e dei rapporto uomo-donna.
Non sono rimasta troppo ben impressionata dall’inizio, ma nemmeno delusa. Nonostante manchi un vero stimolo trascinante, e non si sia riusciti a compartecipare nelle battaglie alla carica emotiva che avrebbe dovuto animarle, non mi sono mai impantanata nella noia. I personaggi erano forse poco tridimensionali, ma avranno tempo di svilupparsi. Trattandosi di Kurt Sutter sono disposta a concedergli il beneficio del dubbio che sappia dove ci sta conducendo. Mi aspetto possa valerne la pena anche se di una cosa possiamo essere certi: sarà brutale.

domenica 13 settembre 2015

MR. ROBOT: la serie rivelazione dell'estate


Mr. Robot è la serie rivelazione dell’estate. Ideata da Sam Esmail, al suo esordio in TV, era pensata in origine come un film, tanto che la prima stagione è da considerarsi, dicono, come il primo atto di quell’ipotetica pellicola. Con una voce autoriale distintiva e un approccio estetico assolutamente originale, Mr. Robot è stata salutata come la prossima Breaking Bad, o Mad Men, e accostata a Taxi Driver e Fight Club, di cui per qualcuno è l’erede spirituale. Negli Stati Uniti è in onda su USA Network, una rete che nel tempo ha presentato più volte idee fresche, ma nessuna che sul serio abbia saputo distinguerla come una canale che presentava programmi di qualità alla maniera in cui è successo alle varie HBO, AMC, Showtime, nonostante programmi di un certo successo come Suits e Psych. Questa potrebbe essere l’occasione della svolta.  

La premessa è apparentemente molto più lineare di quanto non sia poi invece complicata la costruzione successiva del mondo che mette in scena e stratifica. E il narratore non è sempre attendibile, o almeno questa è la percezione. Protagonista è Elliot Alderson (l’attore di origine egiziana Rami Malek), un hacker dipendente dalla morfina, asociale, paranoico, che soffre di ansia, depressione, allucinazioni e solitudine e non ama essere toccato. Lavora come ingegnere per una compagnia di sicurezza informatica, la AllSafe, e nel tempo libero spia costantemente la vita digitale delle persone che lo circondano, compresa la sua psicoterapeuta, la dottoressa Krista Gordon (Gloria Reuben), e cerca di “punire i cattivi” e proteggere quelle che giudica brave persone agendo un po’ come un vigilante – e qui possiamo pensare a un leggero parallelismo con Dexter: lì dove quest’ultimo conservava delle piastrine con una goccia del sangue delle sue vittime, Elliot conserva dei CD per ciascuno dei suoi “osservati”, registrati con titoli di dischi. Il misterioso Mr Robot del titolo (un Christian Slater che finora è stato il bacio della morte per ogni soggetto televisivo a cui ha partecipato e che finalmente ha trovato un progetto degno del suo talento) lo recluta nella sua fsociety, un gruppo anarchico o silmil-tale che punta a fare una rivoluzione e creare una società più giusta azzerando i debiti delle persone. Loro principale bersaglio è la corporazione E-Corp che finisce per essere definita Evil-Corporation, dove Evil in inglese è il Male, comandata da Terry Colby (Bruce Altman). In realtà il logo è quello della Enron, un reale conglomerato andato in bancarotta nel 2001 e accusato di condotta fraudolenta.

Eliott, seppure con molte titubanze e riserve, accetta e si trova a lavorare con Darlene (Carly Chaikin) e un gruppo di altri superesperti di computer, Romero (Ron Cephas Jones),  Trenton (Sunita Mani) e Mobley (Azhar Khan), che si incontrano in una dismessa arcade di videogame – la stessa title card del programma ricorda nella grafia i giochi Atari. Elliot ritiene la E-Corp responsabile della morte del padre, così come fa la sua amica d’infanzia e collega Angela (Partia Doubleday), che pure lei in altra forma lavora per fermarli perché li ritiene colpevoli del decesso prematuro della madre. Per quella corporazione lavora anche l’ambizioso, frustrato arrivista Tyrell Wellick (l’attore svedese Martin Wallstrӧm), che qualcuno ha avvicinato ad American Psycho, e a me continua a ricordare i personaggi dei grandi romanzi russi ottocenteschi, per qualche ragione, sottomesso alla temibile moglie Joanna (Stephanie Cornelliussen) – un personaggio che promettono avrà un rilievo maggiore nella prossima stagione e che è stata avvicinata a Lady MacBeth.   

Una delle cose più affascinanti di Mr. Robot è il suo modo di inquadrare, unico e molto distintivo. I fotogrammi non sono centrati o tagliati nel modo in cui ti aspetteresti. Un esempio: due personaggi stanno conversando e vengono inquadrati separatamente; il primo si troverà nell’angolo in basso a sinistra dello schermo, il secondo verrà inquadrato poi nell’angolo a destra. Lo spazio negativo dell’inquadratura ne costituisce la grande totalità e non trovi la figura che parla rivolta a sinistra situata sulla destra, come accade di regola. È una estetica visuale reiterata che potenzia l’atmosfera alienata, snervante, delirante e punk che è un po’ il gusto di sottofondo della storia. “L’arresto di Terry Colby è nella mente di tutti – sugli schermi – potrebbe ben essere la stessa cosa oggigiorno” (1.02), commenta Elliot con un’affermazione che ti fa prestare attenzione al framing dell’immagine una volta in più. La musica è anche usata in modo molto efficace.

Le puntate sono in bilico fra realtà e illusione, la cui dialettica è uno dei grandi temi affrontati. Puntate successive e la continuazione delle vicende dalla premessa che ho enucleato sopra – su cui non mi addentro per evitare spoiler – rendono molto forte quest’idea, che è a momenti anche allucinatoria, come ben rende l’episodio “eps1.3_da3m0ns.mp4” (1.04). E si noti come è scritto il titolo della puntata: sono  tutte realizzate così, come finti file digitali. Il tono ipnotico di Rami Malek quasi reinventa il senso del voice-over. È un attore perfetto per la parte, molto contenuto nella sua espressività fisica, e vivacissimo nell’uso dello sguardo, in cui vengono accentuati gli occhi sporgenti incorniciati dal cappuccio che indossa sempre e che è diventato iconico del programma. Tutto il casting è impeccabile – e per una volta è fantastico vedere che attori non bianchi sono utilizzati in modo indipendente dalla propria etnicità, per così dire. Si può osservare però che il mondo là fuori è di ogni gender e colore,  quello dei cattivi è quasi uniformemente di maschi bianchi.

Ormai peraltro da un punto di vista narrativo è davvero difficile sorprendersi, ma qui è capitato più volte e penso in particolare alla fine di 1.02, nella ormai celebre (almeno fra i fan) scena della ringhiera, ma anche a un numerosi momenti con Tyrell e in particolare all’apertura di 1.03 e al suo successivo incontro in camera da letto con la moglie, ma anche in tanti altri, come a cena e poi in bagno dal suo capo. Se il sottofinale (1.09) era prevedibile, molto meno lo è stata in fondo la puntata finale (1.10). E le vicende hanno una pregnanza rispetto all’attualità sorprendentemente rilevante, anche, in qualche caso.

C’è un’idea di fondo: la rivoluzione. Io sono una persona che ritiene che il concetto di rivoluzione, così come storicamente e un po’ romanticamente inteso, sia un’idea molto ingenua, per non dire risibile, nella società attuale. Questo non significa che le rivoluzioni non accadano, ma l’idea di un manipolo di persone che si mette a “fare la rivoluzione” lo trovo poco credibile. O auspicabile. E nonostante i protagonisti abbiamo proprio questo proposito, non sono poi così sicura che l’idea di fondo del programma sia a favore di questo genere di rivoluzione (il tempo lo dirà). Anche politicamente, devo dire, non sono così sicura di che posizione abbia il programma. C’è stata una battuta esplicita contro la politica del lavoro di Obama, ad esempio, in una delle prime puntate. E nell’ultima puntata - la cui messa in onda è stata posticipata a causa degli echi che si potevano percepire con una sparatoria in Virginia avvenuta quest’estate, in segno di rispetto delle vittime della tragedia nella vita reale - un personaggio che si toglie la vita in diretta porta il cognome di Plouffe. Non ho potuto non notarlo, sapendo che Plouffe è uno stratega politico americano che era il direttore della campagna elettorale di Obama. Magari è solo un caso, chissà, ma appunto ci ho fatto caso. Di fatto si rimane ambigui, cosa che aumenta l’appeal del programma.

Alla fine il senso proprio e vero delle rivoluzioni, un senso in cui io mi riconosco, e che mi fa ripensare anche a David Foster Wallace, è in fondo per me quello che esprime Elliot alla fine di “eps1.4_3xpl0its.wmv” (1.05), in un momento in cui il loro progetto va temporaneamente in fumo: “Mio padre è venuto a prendermi a scuola un giorno e abbiamo marinato e siamo andati in spiaggia. Era troppo freddo per entrare in acqua e così ci siamo seduti su una coperta e abbiamo mangiato la pizza. Quando sono arrivato a casa le mie scarpe da ginnastica erano piene di sabbia e l’ho scossa sul pavimento della mia camera. Non sapevo la differenza, avevo sei anni. Mia mamma mi ha urlato per il casino, ma lui non era arrabbiato. Ha detto che miliardi di anni fa lo spostamento del mondo e il movimento dell’oceano hanno portato quella sabbia in quel punto della spiaggia e poi io l’ho portata via. Ogni giorno, ha detto, cambiamo il mondo. Cosa che è un bel pensiero finché non penso di quanti giorni e vite avrei bisogno per portare a casa una scarpa piena di sabbia finché non ci fosse più spiaggia. Finché facesse la differenza per qualcuno. Ogni giorno cambiamo il mondo. Ma per cambiare il mondo in un modo che significhi davvero qualcosa, quello richiede più tempo di quanto le persone abbiano. Non accade mai tutto in un colpo. È lento. È metodico. È sfiancante. Non tutti ne abbiamo lo stomaco”. (Le traduzioni delle citazioni sono mie).

Un thriller psicologico inquietante e imperdibile. Fra le migliori serie dell’anno, se non la migliore in assoluto.  

mercoledì 9 settembre 2015

TOGETHERNESS: una serie sul malessere della vita


In Togetherness, Brett (Mark Duplass) e Michelle Pierson (Melanie Lynskey) sono una coppia di Los Angeles sposata con figli che sta attraversando un periodo di crisi, dentro e fuori il letto coniugale. Accolgono temporaneamente in casa la sorella di lei, Tina (Amanda Peet), single preoccupata di restare tale per tutta la vita, e il miglior amico di lui, Alex (Steve Zissis) attore pelato e sovrappeso che, anche per questo, si percepisce ormai in declino senza aver mai veramente sfondato.
Ideata dai fratelli Mark e Jay Duplass (il primo parte del cast, il secondo noto per interpretare il figlio del protagonista in Transparent) e dallo Steve Zissis di cui sopra, questa comedy della HBO più che umoristica è ironico-meditativa, alla Girls per intenderci, con un gusto un po’ indie. L’idea di base da cui sono partiti (cfr. TV Guide, 5 gennaio 2015)  è che non è vero che l’erba del vicino, ovvero l’essere sposati o l’essere single, è sempre più verde; l’erba è verde occasionalmente, ma la percentuale dei momenti magici è davvero piccola, e che per gran parte la vita è noioso e inappagante  tran tran, qualunque sia la tua situazione. Il tono riflette questa idea, e anche la riuscita della serie, potremmo dire, ne viene condizionata.
L’insoddisfazione personale di Michelle, la frustrazione umana di Brett, la disperazione e la solitudine di Tina e il tormento per il potenziale non realizzato di Alex sono sempre sotto la superficie apparentemente leggera. La forza dello show sta nel modo in cui fa emergere la scontentezza della vita quotidiana e gli stratagemmi che mettiamo in atto per combatterla. Controllo, quanto avere o quando rinunciarci,  amore, amicizia, realizzazione personale… sono tutti temi affrontati. Per i protagonisti il contesto è quello di Hollywood e il periodo della vita quando ci si avvicina la mezza età.
Togetherness brilla in alcuni momenti e non convince completamente in altri, ma dalla prima stagione si afferma come una serie lucida sul malessere della vita.

lunedì 31 agosto 2015

CATASTROPHE: romantica e spassosa


Romantici e disastrosamente spassosi, Ron Delaney e Sharon Horgan sono tanto gli autori quanto gli interpreti di Catastrophe una serie comica inglese  (Channel 4) con una prima stagione di sei puntate a cui ne farà seguito una seconda. Interpretano rispettivamente Rob Norris e Sharon Morris. Il primo è un pubblicitario di Boston in trasferta lavorativa a Londra, la seconda è un’insegnante delle elementari irlandese.  Si incontrano in un bar, lui offre da bere a lei, ed è passione a prima vista. Per i successivi 6 giorni fanno sesso come conigli, e trascorrono del tempo insieme,  per poi tornare ciascuno alle rispettive vite. Solo che, un mese dopo, lei lo chiama e gli annuncia che è rimasta incinta. Può capitare se “fai sesso circa 25 volte in una settimana” e usi un preservativo “forse due volte”.

E la catastrofe a cui allude il titolo è quella, ma sicuramente anche tutto quanto accade successivamente.  E se tenessero il bambino? Dopotutto lei, a 41 anni, ha quella che il suo medico, il dottor Harries (un eccellentemente serioso Tobias Menzies, il sadico di Outlander), senza troppo tatto definisce una “gravidanza geriatrica”. E se si sposassero? Dopotutto sono entrambe persona ragionevolmente decenti che si piacciono molto. Poco importa che non conoscessero nemmeno il cognome reciproco. Comincia così una relazione, che ha tanti momenti esilaranti quanto seriosi, dolci e imbarazzanti, con tanto di amici e parenti a complicare le cose: la “nemicamica” di Sharon Fran (Ashley Jensen) e il marito di lei Chris (Mark Bonnar);  il fratello Fergal (Jonathan Forbes) ; la madre di Rob, Mia (Carrie Fisher), che nei brevi contatti telefonici, disapprova l’unione; il lascivo amico di lui Dave (Daniel Lapaine) – indimenticabili i suoi ripetuti tentativi di convincere Rob a partecipare con lui a una sessione di massaggi alla prostata; e poi colleghi  di lavoro, damigelle nuziali, allievi…

Quello che rende forte questa rom-com, che qualcuno ha definito un “delizioso studio in contraddizioni”, è la capacità di far convivere momenti autenticamente appassionati e spiritosi e con tematiche serie come il sesso, la gravidanza, l’essere genitori, la sindrome di Down (1.04), il non-ancora-cancro – genuinamente, è dai tempi del monologo di Tig Notaro in proposito che probabilmente non si rideva così forte mettendo in campo questa malattia. Si abbracciano aspetti naturali per quanto sgradevoli della vita con tanto trasporto quanto  il resto, con una abbondante dose di parolacce anche. E non si nascondono nemmeno gli aspetti di maggior ribrezzo, come le scorregge, o il defecare al momento del parto. Una scena per tutte che lo esemplifica, e non la rivelo solo per non rovinare la sorpresa, è quella del momento in cui lui le dà l’anello proponendole una seconda volta di sposarsi.

Tutto è trattato in modo molto reale però, e si finisce presto per fare il tifo per la coppia, che risulta molto umana nonostante battute che qualche volta fin troppo schiette, nel tipico humor British che non risparmia qualche cattiveria. Suona vero. Se a Sharon sono bastati 6 giorni per decidere di costruire una vita con Rob e viceversa, a noi sono bastate 6 puntate per decidere che vogliamo vedere come va a finire.

lunedì 24 agosto 2015

GIRLFRIENDS' GUIDE TO DIVORCE: altalenante

Sono rimasta altalenante nella mia soddisfazione durante tutto il corso della prima stagione di Girlfriends’ Guide to Divorce, sviluppata da Marti Noxon (una delle più note sceneggiatrici di Buffy) sulla base di una serie di libri di Vicki Iovine, e già rinnovata per una seconda.
Un po’ Sex and the City, un po’ un Girls adulto con un leggerissimo tocco di reality show nello stile della rete Bravo che la ha mandata in onda come suo primo esempio di scripted show, la serie ha come protagonista principale Abby McCarthy (Lisa Edelstein, House), autrice di successo di libri di consigli su matrimonio e famiglia, che vede crollare il suo prestigio e la conseguente possibilità di monetarizzarlo e mantenere così sè e famiglia, quando si scopre che sta divorziando dal marito Jake Novak (Paul Adelstein, Scandal), regista di scarso successo che ha presto una relazione con la giovane e popolare attrice Becca Reilly (Julianna Guill)  - che non può non far pensare sia stata modellata come una ipotetica Sarah Michelle Gellar di Buffy. Abby deve cercare di rilanciare la sua vita professionale e personale e prendersi cura dei figli, trovando una nuova dimensione nel gestire il suo rapporto con il suo ex.
A starle vicino e a condividere i suoi successi e i suoi rovesci di fortuna sono le amiche: Lyla (Janeane Garofalo), un’avvocato piena di rabbia nei confronti dell’ex marito che spende i soldi che lei guadagna con una dominatrix, e un personaggio che esce di scena a metà stagione;  Phoebe (Beau Garrett), ex-modella da poco divorziata e spirito libero; Delia (Necar Zedegan), il suo avvocato divorzista, una donna di origini iraniane che ha un difficile rapporto col padre e cerca di tenere in equilibrio vita personale e professionale che spesso si intersecano; e Jo (Alanna Ubach), vecchia compagna di liceo che si trasferisce a Los Angeles dopo la separazione, e che compare a metà della stagione, prendendo idealmente il testimone, come personaggio, da Lyla. Accanto a lei ci sono anche il fratello Max (Patrick Heusinger) e suo marito Ford (J. August Richards, Angel).
Lisa Edelstein è assolutamente eccezionale in questo ruolo (ma a dire il vero anche negli altri in cui l’abbiamo vista in passato): determinata senza essere astiosa, vulnerabile ma non piagnona, competente ma anche insicura, disillusa ma aperta… in una parola, adulta e credibile. E la serie riesce davvero a interessarci alla sua vita. Molto meno rispetto alle amiche (con forse la sola eccezione di Delia). O quanto meno bisognerebbe fare un distinguo. Queste donne non sono nate per farsi piacere, e almeno in questo ci riescono benissimo: Lyla è rabbiosa, Phoebe superficiale, Jo sbandata. Si fatica a capirne la multidimensionalità, e sono fastidiose al punto che si desidererebbe solo tenerle a distanza perché ti danno la fin troppo realistica impressione di avvelenarti un po’ la vita e che staresti meglio senza di loro. Hanno atteggiamenti tali per cui ti viene da credere che, se sono infelici come sembrano, se la vadano anche a cercare e dovrebbero farsi un serio esame di coscienza. Non si guardano con piacere. Forse è il  vero intendimento e sono io che non sono in grado di apprezzarlo. È davvero originale e pregevole però che fra loro alcuni personaggi non si vedano di buon occhio, perché accade così di rado nella finzione.
Le dinamiche di  un matrimonio che si rompe, il cercare di salvaguardare le esigenze di tutti, le fratture che si creano (in questo caso tanto fisiche quanto non troppo sottilmente metaforiche – in seguito ad un terremoto, la casa coniugale ha una profonda crepa che la spacca), il ricostruirsi di rapporti nuovi, le ammaccature che la vita ti procura, il tradimento, i figli che crescono in un mondo che la tecnologia rende una sfida poco conosciuta, le difficoltà economiche, le dinamiche sociali nei rapporti di coppia e di amicizia sono un campo di battaglia in cui ci si muove agevolmente, riuscendo in un buon equilibrio fra il lieve tono umoristico che si cerca di mantenere  e trovare anche nelle situazioni più dolorose e una seriosa ponderazione di tematiche di quotidianità domestica e sociale. Si è consapevoli delle aree grigie nelle scelte di vita. Non si è mai stucchevoli nei buoni sentimenti. Si decolla nelle molte situazioni, sempre quando è coinvolta la Edelstein, in cui senti la verità del momento e la sua pregnanza. Nel disastro e nell’umiliazione, così come nella gioia e appagamento del momento. Un buon esempio è la cena di Thanksgiving in “Rule No. 46: Keep The Holidays Low Key” (1.11) nel momento in cui c’è una discussione sul senso della festa e sull’opportunità di affrontare conversazioni e tematiche serie in un’occasione conviviale come quella. Azzeccata e notevole. Altre volte però, troppe per me, la serie sembra una relazione che non funziona, ma che non è completamente cattiva: vai avanti per inerzia, e diverse situazioni ti infastidiscono, ma sei comunque legato, non c’è niente di così catastroficamente negativo da fartici allontanare, ma niente che ti risvegli passione e desiderio di essere lì sul serio.
Prima del debutto, c’è stata controversia sulla locandina che fotografa la protagonista che mostra l’anulare alzato con la scritta “Go Find Yourself” (Va a trovare te stesso), con evidente riferimento al dito medio alzato e alla frase “Go Fuck Yourself” (Va a farti fottere). Personalmente trovo pretestuose le polemiche e brillante l’idea che peraltro trasmette bene, anche nella lettura in parallelo, lo spirito di fondo del programma.    

martedì 18 agosto 2015

JANE THE VIRGIN: ero partita prevenuta, mi ha conquistata


Ero partita prevenuta nei confronti di Jane the Virgin, e per ragioni ideologiche. La premessa che dà il via alle vicende è che la protagonista, Jane Gloriana Villanueva (Gina Rodriguez) – e chi segue sa come il nome intero venga ripreso spesso nella serie, nei flashback che la mostrano negli anni della crescita –, pur essendo vergine, rimane accidentalmente incinta in occasione di un pap test, quando per errore le viene impiantato lo sperma di Rafael Solano (Justin Baldoni), affascinante proprietario dell’hotel in cui Jane lavora. La serie, che la vincola alla maternità senza concederle il piacere o almeno l’esperienza fisica che vi ci conduce, insiste molto sullo stato dell’imene della protagonista mostrando come la nonna, Alba (Ivonne Coll, Switched at Birth), da bambina le aveva fatto tenere fra le mani un fiore e glielo aveva fatto stringere in modo da rovinarlo e farle capire che era una cosa che non poteva disfare: lo stesso le sarebbe capitato nel momento in cui avesse perso la sua verginità. Trovo questo genere di modo di pensare davvero insultante e degradante per le donne, un’ideologia primitiva che perpetua l’idea che la virtù delle donne e il loro agire morale stia solo in mezzo alle gambe e le costringe a negare una sana e gioiosa sessualità per nessuna fondata, valida ragione.

La serie continua almeno in parte secondo me a trasmettere quest’idea. La nonna, da fervente cattolica, può ben criticare le eventuali scelte della figlia Xiomara (Andrea Navedo, Sentieri) e della nipote Jane; tante persone la pensano così ed è giusto che vadano rappresentate nella loro umanità. Quello che non mi piace, proprio da un punto di vista ideologico, è che le sue discendenti sottostiano a una visione tanto immorale senza protestare. Anzi, a un certo punto delle vicende, Xiomara, una donna adulta con una figlia adulta, credendo la madre sul punto di morte, decide di rinunciare al sesso con l’uomo che ama e padre di sua figlia, come “fioretto” per salvare la vita della madre, e lei, che in realtà dal coma si è risvegliata, finge che sia così per evitare che la figlia compia quel passo. Davvero tragico e umiliante. E mi chiedo se avrebbe fatto lo stesso se avesse avuto un figlio maschio. A onor del vero, gli autori irridono anche un po’ la questione nel momento in cui nella scuola cattolica dove Jane per un periodo insegna, le suore fanno girare delle medagliette con la sua immagine, visto che torna loro comodo, e vista la processione di coppie che non riescono ad aver figli che corrono ad abbracciarla sperando che porti loro bene. E Jane è una giovane donna brillante, intelligente, determinata, che sceglie con consapevolezza che cosa fare, e questo fa sì che alla fine si possa e si debba rispettare la sua scelta qualunque essa sia rispetto a che uso fa della propria sessualità. In partenza in ogni caso non intendevo seguire la serie.  

Un pilot però non si nega a nessuno e l’ho guardato. Il telefilm, che è basato sulla telenovela venezuelana Juana la Virgen di Perla Farías ed è stato sviluppato in questa versione da Jennie Snyder Urman, è stato frizzante e gradevole, sulla linea un po’ di quella che era stata Ugly Betty, nella misura in cui ha una protagonista ispanica che riprende il ruolo di una telenovela per contemporaneamente usarne con cognizione di causa gli schemi narrativi e con scaltrezza anche irriderli. Qui lo si fa con maggiore affetto nei confronti del genere di quanto non avvenisse lì. Anche il pilot però alla fine non mi è stato sufficiente: avevo deciso di non seguire comunque le vicende. A fine anno però la gran parte dei critici televisivi ha giudicato Jane the Virgin una delle migliori serie che hanno debuttato nel 2014. È così che mi sono decisa a darle una vera  chance cercando di superare l’ostilità iniziale. Dopotutto, l’esordio non mi era dispiaciuto. Ebbene, mi sono dovuta ricredere e la serie mi ha conquistato completamente, sapendo essere profonda, leggera, arguta, spassosa, appassionata, autoironica, bizzarra…

Gran parte del merito va a Gina Rodriguez, una espressiva bellezza della porta accanto, e una forza della natura nella recitazione, completamente convincente, che ti fa piangere le sue lacrime, ridere e ballare dei suoi successi, tenere per le sue aspirazioni di diventare una scrittrice. Si è ben meritata per questo ruolo il Golden Globe come migliore attrice in una comedy. Ma tanto lo si deve alla sceneggiatura. C’è la suspense di numerosi colpi di scena, certo spesso incredibili, ma non per questo meno convincenti. Il suo cuore lo fa battere con momenti di puro romanticismo senza vergogna , con autentici problemi di coppia, e con un sapiente equilibrio fra tropi delle telenovele e loro de-costruzione. Ti trovi davvero a non sapere se tenere per l’amore fra Jane e Rafael o per Jane e Michael, il poliziotto con cui stava quando poi ha scoperto di essere incinta di Rafael, un giovane uomo che la ama e le è sempre stato vicino. O ti preoccupi se Petra (Yael Grobglas), l’ex-moglie di Rafael, perennemente occasione di intrighi di ogni tipo, gli si avvicina troppo. Il rapporto multi generazionale fra nonna-figlia-niponte, Alba-Xiomara-Jane, è reale e prezioso, fatto di rispetto e discussioni e amore reciproco, e raramente si è visto un rapporto fra donne della stessa famiglia così ben costruito. Ci si relaziona.

La serie non si prende troppo sul serio, anzi, è un vero e proprio tripudio di commenti metatestuali e di complice irrisione dei propri meccanismi e stili. Ricorre anche all’intertestualità verticale (il riferimento esplicito ad altri testi cioè), in modo diretto (come quando è stata citata la soap Passions) o indiretto, contando sulla conoscenza degli spettatori (come è stato ad esempio in 1.15, quando presentando gli eventi dalla prospettiva di lei e di lui nel momento in cui Rafael fa la proposta di matrimonio a Jane, e dicendo che si vuole ricordare una serie della TV via cavo, non si può non capire che il riferimento è a The Affair).   

Dal punto di vista umoristico due aspetti brillano. Il padre di Jane, innamorato di Xiomara, si scopre essere il popolarissimo attore di telenovelas Rogelio della Vega (Jaime Camil): iper-egocentrico e vanesio, si ride al solo vederlo. È carico ed esagerato e allo stesso tempo è animato da una tale genuino e innocente desiderio di far bene ed essere apprezzato che non si può non finire per adorarlo sul serio. E poi quello che è il vero colpo da maestri è il narratore che parla in voice-over (in originale Anthony Mendez) e le scritte in sovrimpressione che commentano gli eventi con un misto di partecipazione e compiaciuta onniscienza ricordando agli spettatori la backstory non solo senza annoiarli, ma anzi rendendola un’occasione per condividere con il pubblico la consapevolezza sull’estetica finzionale di quello a cui si sta assistendo, strizzando anche l’occhio alla modalità social di fruizione dei programmi.

Ora, da vera convertita, voglio fare proselitismo: guardatevi Jane the Virgin, non ve ne pentirete.     

giovedì 13 agosto 2015

BLOODLINE: la prima stagione


“Non siamo persone cattive, ma abbiamo fatto una cosa cattiva”: così recita la tagline della serie Bloodline, “rilasciata” da Netflix il 20 marzo scorso, dopo che era stata presentata un mese prima al Festival Internazionale del Cinema di Berlino. La narrazione, meticolosamente costruita, è lenta, introspettiva, intensa, misurata, nella ferocia dei piccoli gesti, nella profondità di sentimenti stratificatisi e rievocati, nel bruciore di relazioni che specchiano il passato nel presente. Le vicende e i sentimenti che le accompagnano lo spettatore le assorbe come una spugna. Si vede che la serie è stata ideata da Todd A. Kessler, Glenn Kessler, e Daniel Zelman, già autori del successo di Damages, che qui come lì hanno costruito la tensione slittando fra tempi narrativi diversi. Cruciale è anche il montaggio.
Protagonisti sono i Rayburn, una famiglia delle Florida Keys, le isolette a sud della Florida, e le vicende prendono il via dal ritorno all’ovile della pecora nera della famiglia, Danny, un incompreso maledetto interpretato con vera maestria dall’attore australiano  Ben Mandelsohn, minaccioso nella sua apparente innocuità, vulnerabile della sua durezza esteriore. I genitori Sally (Sissy Spacek) e Robert (Sam Shepard) gestiscono una casa-albergo per turisti e sono noti e apprezzati nella comunità, tanto che, per il quarantacinquesimo anniversario del loro resort, la città vuole dedicar loro un molo, festeggiamento che riporta appunto a casa il figlio maggiore. Il secondogenito John (un sempre magnifico Kyle Chanlder, che ricordiamo da Homefront e Friday Night Lights soprattutto, anche se i più forse lo rammentano per Early Edition – Ultime dal cielo) è il locale vice-sceriffo, è quello che si fa sempre carico dei problemi della famiglia ed è felicemente sposato con Diana (Jacinta Barrett) da cui ha due figli adolescenti; Kevin (Norbert Leo Butz) è la testa calda, un uomo che lavora rimettendo a nuovo barche e ha il matrimonio in crisi;  Meg (Linda Cardellini, ER) è un’avvocatessa che è fidanzata con Marco Diaz (Enrique Murciano), partner sul lavoro del fratello John, ma ha anche una relazione con un suo cliente, Alec (Steven Pasquale, The Good Wife).  
Il ritorno di Danny riporta a galla un tragico evento del passato, la morte di un’altra figlia di Sally e Robert, Sarah, annegata mentre si trovava con Danny che, colpevolizzato dal padre, lo aveva picchiato. Tutta la famiglia aveva poi mentito alla polizia per proteggere il padre. Danny, rientrando, si lega a un giro di spaccio di droga per recuperare in fretta il denaro che gli serve per pagare un debito alla malavita, che a Miami aveva bruciato un ristorante da lui avviato. La sua attività minaccia di portare a fondo tutta la famiglia. E la “cosa cattiva” della tagline che nella serie è in bocca a John, e che si scopre subito, è superficialmente quella di aver ucciso il fratello, fatto poi coperto dagli altri, e in profondità quello di averlo trattato Danny come un paria e averlo spinto a diventare quello che era, rendendolo il capro espiatorio delle difficoltà familiari. I come e i perché di tutto sono rivelati tassello per tassello, lasciando che le dinamiche assumano via via maggiore pregnanza e significato.
Pur essendo estremamente diversa, richiama The Affair, riuscendo lì dove quest’ultima delude. I legami che uniscono una famiglia e i segreti e i dolori che le dividono sono centrali, così come il ruolo che ciascuno finisce per avere all’interno della propria famiglia, qualche volta forzatamente. È quasi un ammonimento sulle profezie che si autoavverano. Danny, a cui la famiglia ha attribuito il ruolo del cattivo, non riesce a liberarsi da questo ruolo nemmeno quando ci prova disperatamente. Trova più accoglienza dagli amici Eric (Jamie McShane) e Chelsea (Chloë Sevigny) che da coloro che condividono il suo sangue. In ultimo, rinfaccia al fratello di non essersi mai sentito sicuro e mai protetto in famiglia. Ha sempre dovuto supplicare e scusarsi per tutto. A questo punto è l’anti-eroe per eccellenza. E a seguito di una scena molto intesa in uno dei rapporti fra fratelli meglio costruiti che si siano visti in TV, Abele (John) ha ucciso Caino (Danny).
Sono stata nelle Florida Keys, per tre settimane, molti anni fa. Le cose che probabilmente ricordo di più sono l’inteso caldo,  la sensazione di precarietà di quello che mi circondava, l’amichevolezza delle persone e il lussureggiante paradiso del luogo. È però un luogo anche di fulmini e tempeste – come mostra la sigla d’apertura (sotto) sulle note di “The water lets you in” dell’artista Book of Fears. Scegliendolo come ambientazione, facendo leva sulla polarità atmosferica e utilizzandolo il posto in modo apparentemente controintuitivo ma simbolico, questo thriller costruisce un noir insolito, viscerale quanto cerebrale. Sicuramente è una delle migliori serie del 2015.

domenica 9 agosto 2015

TCA AWARDS: i migliori dell'anno per i critici televisivi


Sono stati consegnati ieri i Television Critics Awards, premi dati dalla Television Critics Association, associazione che raccoglie oltre 200 critici televisivi di Stati Uniti e Canada. Ecco sotto i vincitori, di cui mi rallegro.

Miglior drama: The Americans
Miglior comedy: Inside Amy Schumer
Miglior nuovo programma: Better Call Saul
Miglior programma per ragazzi: The Fosters
Miglior Film/Miniserie/Special: The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durst
Miglior Reality: The Chair
Miglior programma di News e informazione: Last Week Tonight with John Oliver
Miglior performance in un drama: Jon Hamm, Mad Men
Miglior performance in una comedy: Amy Schumer, Inside Amy Schumer
Premio alla carriera: James L. Brooks
Heritage Awards: Late Show/Late Night with David Letterman
Program of the year: Empire

Qui per saperne di più.

venerdì 7 agosto 2015

HUMANS: la prima stagione


Humans è il remake, ad opera di Sam Vincent e Jonathan Brackley per la britannica Channel 4 e l’americana AMC, della serie svedese Ӓkta mӓnniskor ideata da Lars Lundstrӧm, anche conosciuta come Real Humans. Ha una sua autonoma validità, ma come tutti o quasi i remake finisce per deludere chi ha visto l’originale. Per me è sicuramente così. Riesce a convincere solo quando se ne affranca andando in una direzione totalmente autonoma pur sulla base della stessa premessa.

Siamo in Inghilterra in un presente parallelo al nostro in cui il gadget all’ultima moda sono i synths, diminuitivo di synthetics, “sintetici”, robot umanoidi che affiancano gli esseri umani in una serie di lavori. Nell’originale si chiamavano “hubots”, crasi fra human e robots, mentre qui si è optato per un termine che già era stato usato nel poliziesco di breve durata Almost Human, che ricalca nelle tematiche, ma anche nella tecnologia – androidi moto fluidi, e all’apparenza meno macchine di quelli dell’originale che ne mostrava molti con lo stesso volto, prodotti in serie. Qui ognuno sembra essere un originale e davvero sono poco distinguibili dagli umani.

Ci si muove all’interno della stessa matrice narrativa della serie nordica, ma unendo alcuni personaggi, notabilmente il poliziotto e l’operaio che lavorano in fabbrica che diventa il poliziotto Pete Drummond (Neil Maskell), o comunque modificandoli, tralasciando al margine, appena accennata almeno nel corso della prima stagione, tutta la vicenda politico-terroristica, e dando un senso fortemente differente a eventi altrimenti simili.

Il primo nucleo narrativo vede Joe Hawkins (Tom Goodman-Hills) che decide di comprare un synth che aiuti per le faccende domestiche visto che la moglie Laura (Katherine Parkinson), oberata di lavoro, è poco presente in casa e nella vita dei figli: l’esperta di computer un po’ ribelle Matilda (Lucy Carless), il secondogenito in piena pubertà Toby (Theo Stevenson) e la piccola Sophie (Pixie Davis). Joe compra e porta a casa Anita (Gemma Chan) che loro non lo sanno essere in realtà Mia, un synth con una sua coscienza, che è stata rapita e resettata per essere poi rivenduta. Qui il nuovo elettrodomestico in forma umana è vissuto come una grande minaccia da parte di Laura, e a ragione. L’acquisto è stato fatto perché alla fine lei, troppo concentrata sul lavoro, risultava inadeguata sul fronte di casa, o così almeno la fanno sembrare. Non si fida di lei con i suoi figli, e la percepisce come una rivale del loro affetto. Nemmeno quando Anita si fa investire da un furgone pur di proteggere il figlio, cambia del tutto idea. E la presenza di questa macchina in forma di donna alla fine è una minaccia anche per il suo matrimonio, visto che il marito ci finisce a letto e si separano per questo. Quando Anita, la cui vera identità è comunque ancora presente seppur nascosta, sembra venire alla luce in qualche sprazzo, Laura ne è inquietata. Non così nella versione svedese. Lì Anita viene acquistata  per dare una mano in casa, ma non per questo mette a rischio il ruolo di madre e moglie della proprietaria che ha un atteggiamento sospettoso all’inizio, ma sa ricredersi e comincia a ritenere importante il rispetto delle macchine lì dove mostrano una coscienza. Qui Mia, nascosta nei meandri di Anita quasi fosse un’altra personalità, riesce ad avere una connessione vera e umana solo quando si impone definitivamente come essere cosciente e ha quasi più insight di un umano.

Tutta la tematica sessuale, presente in entrambe le serie, è sviluppata in modo molto diverso. Qui è vista solo come qualcosa da nascondere, e fonte di umiliazione di una delle synth protagoniste, Niska (Emily Berrington), costretta a lavorare come prostituta. Nell’originale, l’attrazione sessuale è sì anche a pagamento, con risvolti vari anche negativi, ma è anche da parte del ragazzino adolescente che si vede attratto dalle macchine ma non dalle persone umane e fatica ad accettarsi per questo (e il parallelismo metaforico è chiaramente con l’omosessualità) ed è da parte di donne che vedono in queste macchine un possibile compagno di vita e cercano il riconoscimento di diritti per queste macchine, lì dove da altri vengono percepite come una minaccia alla vita di coppia tradizionale. Qui la donna che cerca di più dal suo synth da un unto di vista sessuale finisce per esserne molestata (1.06) finché il marito non interviene colpendolo con violenza. Nell’originale è quasi l’opposto dove la macchina aiuta la donna vittima di stalking dall’ex marito che lei non vuole più vedere. Non va tutto alla perfezione nemmeno lì, e la donna finisce per liberarsene in modo molto doloroso, ma tutto è gestito con maggior complessità.  Più punti di vista sono esplorati nell’originale, con un effetto metaforico maggiore e richiami alle questioni dell’orientamento sessuale, della razza, dell’immigrazione.   

Un altro nucleo forte della narrazione è un anziano vedovo, che nell’originale è il nonno della famiglia che vive solo, e nel suo hubot ormai molto obsoleto vede un amico a cui vogliono costringerlo a rinunciare, guardato ora a vista da un nuovo robot che nell’attenzione maniacale alla sua salute è quasi un gendarme. Nella rivisitazione l’anziano è il dottor George Millican (William Hurt) che non ha legami di parentela con la famiglia di cui sopra, né si direbbe soffrire particolarmente di solitudine, ma che vede nel suo synth, Odi (Will Tudor, il più convincente fra loro, per me), per certi versi un figlio, per altri più che un amico, una macchina che è depositaria di molti ricordi felici con la moglie che non c’è più e che lui comincia a dimenticare a causa dei suoi problemi di salute. Anche qui gli viene forzatamente affiancata una macchina che vede come una carceriera, Vera (Rebecca Front), ma questa scelta ha di fatto scarse conseguenze. Seppur in pensione George però un passato di scienziato che ha aiutato a progettare questi robot. Il suo incontro con Niska e il dibattito ingaggiato con lei riesce a dar voce esplicita a sottese questioni filosofiche rispetto a quello che significa essere umani e si va in una direzione autonoma, per cui si finisce per rimpiangere la sua fine (1.07).

Leo Elster (Colin Morgan), terzo nucleo narrativo, è il figlio biologico di colui che ha progettato tutti questi synth, David Elster, sapendo infondere loro una coscienza. Il padre, per impedirgli la morte in seguito ad un incidente, lo ha reso mezzo uomo e mezzo robot. Ora adulto Leo è in cerca di Mia/Anita. La vicenda inizialmente è grosso modo la medesima nelle due versioni, ma anche qui l’effetto è di minore impatto. Qui il senso di gruppo fra i synth è molto più assimilato a quello di famiglia però, si considerano fratelli e sorelle, ma qui hanno una coscienza che si direbbe fin troppo funzionante, mentre nell’originale è ancora abbozzata. Sono spesso ingenui, stanno imparando, non capiscono, sono come bambini. E qui minacciano, feriscono e uccidono gli umani senza troppi ripensamenti (si pensi anche solo alla 1.06 o a Niska in particolare), cosa che nell’originale è una cosa molto più ponderata, visto che in origine tengono a seguire i protocolli di Asimov e solo indebite modifiche al codice possono potare a quei risultati. Se il senso di fede qui è realizzato in modo frettoloso, si ragiona di più sulla differenza fra vita e morte, con la bella scelta di cercare di rianimare Max (Ivanno Jeremiah), che aveva scelto di buttarsi da un ponte per aiutare Leo e il twist (1.07) di rendere Karen (Ruth Bradley), uno dei syth fatta a immagine della madre di Leo, ostile ai suoi stessi compagni perché si auto percepisce come una minaccia per l’umanità. Unisce le forze con il professor Edwin Hobb (Danny Webb) scienziato che lavorava in passato con Millican e con Elster e che insegue queste macchine con l’obiettivo (che si fa chiaro solo in chiusura di stagione) di portare a termine il lavoro di David, dando una coscienza a tutte le macchine, ma allo stesso tempo sottomettendo ciascuna alla sola volontà del primary user.

In un certo senso c’è un percorso inverso rispetto alla serie originaria. Nella realtà di Ӓkta mӓnniskor le macchine sono prive di una coscienza e sono completamente sottomesse all’uomo, ma nel momento in cui si modifica la loro programmazione con un apposito codice assumono una maggiore abbozzata coscienza di sé, via via in costruzione, ma contemporaneamente con questa modifica non sono più sottomessi e diventano più simili agli esseri mani, nel bene e nel male. Qui la coscienza e il diventare umani portano al libero arbitrio: provano e pensano ma non sono più burattini nei nelle mani dei “veri umani”; possono ora fare di testa loro, anche al limite danneggiarli. Nella realtà di Humans, le macchine senza coscienza  si vedono poco. Ci sono ma sono una sorta di presenza indistinta di sottofondo. Quelli che vediamo pensano e sentono e lo scienziato-cattivo-di-turno vuole schiavizzarli sottomettendoli alla volontà umana bloccandone il libero arbitrio in modo da avere i vantaggi di macchine che pensano e provano, ma idealmente non gli “svantaggi”.  

Che cosa ci renda umani, e che cosa sia e come si sviluppi la coscienza, è il fulcro filosofico di Humans/Real Humans, il remake però risulta molto meno incisivo e sottile dell’originale, e per questo delude. Vorrei poter sapere che cosa ne penserei se lo avessi visto autonomamente, senza le previa conoscenza della matrice originaria, che ho fresca nella memoria. Vista l’interferenza della pregressa conoscenza non credo di poter essere obiettiva in una valutazione separata. Humans in ogni caso tornerà con una seconda stagione.  

domenica 2 agosto 2015

UPFRONTS 2015 - 2016: CW


La CW ha presentato agli upfronts un solo programma che debutta in autunno.



Crazy Ex-Girlfriend: ideata da Rachel Bloom (BoJack Horseman) e Aline Brosh McKenna (Il Diavolo Veste Prada), e originariamente prevista come commedia musicale di mezz’ora per Showtime, questa serie è stata ampliata a un’ora (ma sarà ancora almeno un parte un musical, con qualche canzone originale per ogni episodio), sono stati tolti i pezzi più espliciti e il dialogo è stato reso meno spinto cercando di conservarne intatto il tono umoristico, ma lievemente dark. Rebecca Bunch (l’autrice stessa Bloom) è una giovane donna di successo, forse un po’ pazza, che impulsivamente decide di lasciare il suo lavoro in un prestigioso ufficio legale di Manhattan per trasferirsi a West Corvina, nella periferia del sud della California nel disperato tentativo di seguire e riconquistare l’amore del liceo, un ragazzo che allora l’ha mollata. Qui un primo sguardo.


Due programmi debuttano invece in midseason:



DC’s Legends of Tomorrow: questo spin-off di The Flash e di Arrow dovrebbe avere una atmosfera alla Sporca Dozzina. Il viaggiatore del tempo Rip Hunter (Arthur Darvill, Doctor Who) mette insieme una gruppo di erri e criminali che definisce come leggende del futuro, per costruire una squadra che ci difenda alla minaccia di distruzione del mondo e del tempo. Sono The Atom (Brandon Routh), Captain Cold (Wentworth Miller, Prison Break), Heat Wave (Dominic Purcell, Prison Break),  il dottor Martin Stein (Victor Garber), White Canary (Caity Lotz, Arrow)… La serie è prodotta da Greg Berlanti (la sesta quest’anno, tanto che qualcuno ha giustamente commentato scherzoso “e pensavate che Shonda Rhimes fosse impregnata! ). Qui il trailer.



Containment: Basata sua serie belga intitolata Cordon, questo thriller di Julie Plec (The Vampire Diaries, The Originals, The Tomorrow People) è ambientato ad Atlanta in Georgia, dove una mortale epidemia dovuta a un virus sconosciuto costringe le autorità a mettere sotto quarantena la città. A cercare di mantenere l’ordine c’è l’ufficiale di polizia Lex Camahan, la cui fidanzata Jana e il cui compagno sul lavoro e migliore amico Jake sono intrappolati dentro il “cordone” della quarantena. Lo stesso vale per Teresa, una diciassettenne incinta, il cui fidanzato è dall’altra parte; per Katie Frank, una maestra elementare bloccata con tutta la classe, incluso suo figlio;  e per il dottor Victor Cannerts un ricercatore dei CDC (i Centri di Controllo delle Malatie) che sta disperatamente cercando una cura. Esternamente al cordone la dottoressa Sabine Lommers cerca di contenere l’epidemia e chiede l’aiuto di Lex. Le norme sociali si erodono, la fiducia della gente deteriora e oltre alla malattia, si ha a che fare con la paura e l’isolamento. Un giornalista, Leo, sospetta che il governo non dica tutto ciò che sa e ipotizza una cospirazione. Qui il trailer.