domenica 27 ottobre 2019

BIG LITTLE LIES: la seconda stagione


Quasi sicuramente non ci sarà una terza stagione (peccato) perché la seconda di Big Little Lies, che mi ero augurata ci fosse, ha avuto parecchio da dire e ha convinto nonostante abbia anche deluso e sia riconoscibile la criticata “disarticolazione” dovuta ad un attrito dietro le quinte: la regia è stata affidata ad Andrea Arnold, ma poi in post-produzione è intervenuto il produttore esecutivo e regista della prima stagione Jean-Marc Vallée con lo scopo unificare lo stile visivo a quello della prima, con il risultato di scene discontinue e prive di ritmo interno. Ci sono state polemiche, per la lamentata mancanza di controllo creativo, ma la dirigenza HBO ha difeso quello che è sempre stato un classico modo di operare televisivo, affermando che anche Vallée aveva dovuto lavorare collaborativamente e che comunque in questo caso non era arrivato all’ultimo in postproduzione per stravolgere il lavoro di qualcun altro, ma è stato coinvolto nella fase di sceneggiatura e aveva avuto modo di confrontarsi con la Arnold prima delle riprese. Sulla questione si legga qui e qui. Si potrebbero trarre numerose riflessioni sull’autorialità televisiva, ma non è questa la sede.

In questo arco narrativo, sempre con la storia di David E. Kelley e Liane Moriarty, e il teleplay del primo, è stata messa molta carne al fuoco per ciascuna delle protagoniste, e come non mai si è visto che è un programma al femminile, dove gli uomini sono relegati ai ruoli secondari solitamente riservati alle donne: Madeline (Reese Whitherspoon) ha dovuto ricostruire il proprio matrimonio, dopo che il marito Ed (Adam Scott) ha scoperto la sua infedeltà; Renata (Laura Dern) ha affrontato il tracollo economico dovuto alla bancarotta del marito Gordon (Jeffrey Nordling); Jane (Shailene Woodley) ha cercato di proteggere il figlio dalla scoperta che è il risultato di uno stupro e ha iniziato una relazione con un giovane collega all’acquario dove lavora, Corey (Douiglas Smith), pur nelle difficoltà a trovare l’intimità a seguito di quell’evento; Bonnie (Zoë Kravitz) si è macerata nei sensi di colpa per aver spinto Perry (Alexander Skarsgård) nella notte della sua morte, cosa che l’ha progressivamente allontanata dal marito Nathan (James Tupper),  e ha fatto i conti con il difficile rapporto con la madre Elizabeth (Crystal Fox); Celeste (Nicole Kidman), infine, ha elaborato il lutto della perdita del marito e ha dovuto combattere in tribunale la suocera Mary Louise (una smagliante Meryl Streep) che voleva toglierle la custodia parentale dei figli. Tutte, unite dal patto, tengono il segreto su quello che è accaduto quella famosa notte, mentre la polizia ancora nutre sospetti che non sia andata come hanno testimoniato.

La narrativa ha tenuto, anche con carnose riflessioni sui rapporti umani che come nucleo speculativo intersecavano le vicende, rispetto alle quali risultavano trasversali. Si è parlato di essere madre e dei rapporti madri-figli (Celeste con i suoi; Mary Louise e Perry; Jane e Ziggy; Bonnie ed Elizabeth). Si è indagato il tema della crisi dei rapporti matrimoniali (Madeline ed Ed; Bonnie e Nathan; Celeste e Perry; Renata e Gordon). Che cosa significa essere una coppia, ed essere una famiglia? Che cosa è nella vita la cosa più importante? Si è gettata luce sulla difficoltà di superare “traumi” che segnano la propria vita, fisici e no (lo stupro a Jane, le botte a Celeste e il fatto che i figli l’abbiano vista; la colpevolizzazione di Perry da parte della madre; l’infanzia di Bonnie e il tragico evento che  l’ha vista coinvolta). E poi i segreti, il conoscere davvero una persona, l’istruzione, il denaro, l’aggressività e il deflettere la responsabilità sugli altri a cui viene immediatamente attribuita la colpa (e in quest’ultimo caso, in una modalità che io personalmente vedo come molto americana, penso in particolare a Renata e al rapporto con la figlia Amabella).

La tematica forse più originale, incarnata principalmente dalla storia in cui era coinvolta una Meryl Streep davvero grandiosa, è se sia possibile conservare un buon ricordo di qualcuno che ha commesso delle azioni terribili. È giusto? Serve? La madre di Perry vuole disperatamente che la vittima di stupro abbia visto qualcosa di buono in suo figlio, che era un bambino gentile, da piccolo; Celeste discute con la terapeuta perché, anche se abusava di  lei, vuole poter mantenere dei ricordi belli del marito, che ha anche amato, come se l’essere stato un “mostro” fosse solo una finzione, quella che creava per i bambini per divertirli. Anche nella persona che si comporta nel modo più orribile ci sono dei lati umani, dei lati belli. Non dobbiamo tenerne conto? Che peso devono avere? Che cosa significa per noi e per l’opinione e il ricordo che dobbiamo avere di loro? Con disinvoltura, acume e chiaroscuri (di fatto anche in altre delle storie) si sviscerano queste questioni. Il solo rammarico che ho è che vorrei che Kelley rinunciasse alla sua coperta di Linus del scontro in tribunale per far emergere questi conflitti esteriori e interiori. È una forma che lo permette in modo esplicito, e lui la sa rendere al meglio ma, sebbene sia risultato organico, avrei voluto che la negoziazione di queste delicate emozioni avvenisse su un terreno meno definito.

Chi ha amato la prima stagione, fa bene a veder anche questa. Di fatto, ci sarebbe ancora molto da far dire alle “cinque di Monterey”.     

domenica 20 ottobre 2019

EUPHORIA: disperata e autolesionista


È una gioventù disperata, autolesionista e allo sbando, quella messa in scena con bravura da Euphoria, il primo teen drama della HBO (in Italia su Sky Atlantic) con vite di sesso, droga e social media nella seconda decade degli anni 2000. A idearlo, sulla base di una omonima serie israeliana, è stato Sam Levinson (Assassination Nation, figlio di Barry Levinson) anche sceneggiatore di tutte le puntate della prima stagione e regista di cinque delle otto puntate. Per l’autore è anche una storia profondamente personale, autobiografica per la parte che concerne le droghe (THR).

Rue (una Zendaya da cui ci si aspetta una carriera di successi) è un’adolescente che comincia il suo penultimo anno di superiori dopo che è uscita da un centro di disintossicazione per un’overdose dalla quale l’ha salvata, trovandola, la sorella minore, Gia (Storm Reid). Lotta costantemente con la dipendenza da sostanze, iniziata prendendo le pillole del padre morente. Perfino uno spacciatore che tiene a lei, Fezco (Angus Cloud), cerca di allontanarla da possibili ricadute. Presto stringe un’amicizia, che diventa anche qualcosa di più, con Jules (Hunter Schafer), una ragazza trasngender appena arrivata in città. A gravitare intorno alla sua vita ci sono la sua migliore amica d’infanzia Lexi (Maude Apatow) e i compagni di scuola: Kat è una ragazza soprappeso, che all’esordio è vergine, che diventa avventurosa in campo di sesso, anche online, e matura un nuovo rapporto col proprio corpo; Nate (Jacob Elordi) è uno sportivo che proviene da una famiglia in vista con forti insicurezze sessuali  - ha una ragazza, Maddy (Alexa Demie) con cui ha un rapporto sentimentale a intermittenza, abusante, e un padre, Carl (Eric Dane)  che nasconde un segreto che potrebbe rovinargli la reputazione, per dirla in modo eufemistico, e con cui si sviluppa in rapporto affascinante da seguire; e poi c’è la dolce Cassie (Sydney Sweeney, The Handmaid’s Tale), sorella maggiore di Lexi, dal colorito passato sessuale che continua a influenzare la sua vita, che è fidanzata con il giocatore di football Christopher (Algee Smith), che il padre spinge ad eccellere.

La sceneggiatura ci va giù pensate, riesce ad essere brutale, e scioccante, ma mai fine a se stessa, ma proprio come parte del senso che intende trasmettere. Si preme l’acceleratore su droga e sesso con molta libertà – una puntata si annunciava come quella che avrebbe mostrato ben 30 membri maschili. La regia punta su toni scuri, plumbei, ma coperti di glitter, scintillii che mascherano lo straziante squallore, umano ed emozionale di un buildungsroman che avrebbe il sapore della distopia se non fosse così crudemente autentico. Cinematograficamente è stimolante. Ci sono inquadrature insolite, sperimentali, ancora più spinte lì dove si vuole dare il senso dell’allucinazione tossica e una alterazione del vissuto. Il senso che trasmette è che questa è la realtà, ma è una realtà marcia, malata, distorta, non è quello che dovrebbe essere.   

Rue nel pilot dice come la irriti il fatto che quando trapela il nudo di una persona famosa, la gente critica che tanto per cominciare non avrebbero dovuto scattare una simile foto:  “Mi dispiace, so che la vostra generazione faceva affidamento su fiori e il permesso del padre, ma è il 2019, e a meno che tu non sia Amish, i nudi sono la moneta dell'amore. Quindi smettetela di farci vergognare. Fate vergognare gli stronzi che creano elenchi online protetti da password di ragazze minorenni nude". (1.01 – traduzione mia). Non si hanno peli sulla  lingua, non ci si fa problemi a dire cose scomode.

Gli effetti del porno, la pressione dei coetanei, l’assenza di una bussola morale, le trappole del web, le famiglie sfasciate, gli abusi fisici e verbali, le app di incontri, gli adulti assenti, le paure e le insicurezze di un delicato momento della crescita: c’è molta profondità e umanità, anche se un’umanità di cui è triste rendersi conto, in questa serie che fa anche affidamento in modo molto estensivo alla voce fuori campo di Rue. Questa, si dice sempre, è una modalità di cui si approfitta troppo e di cui si potrebbe fare a meno se non viene utilizzata con una logica specifica che la renda significava. Qui ci sono lunghi brani di monologhi, e funzionano.

Se la figura dello “spacciatore buono”, che si dà alla criminalità per sostenere la nonna in coma di cui si prende cura, nonostante il bravo interprete, mi pare un po’ favolistica, le altre le ho trovate tutte convincenti, e ho particolarmente apprezzato quella che coinvolge Nate: l’odio per se stesso e il rapporto tossico con la sua ragazza, i ricatti che mette in piedi per preservare la sua immagine di bravo ragazzo, il confronto con il padre (spettacolosa la season finale a questo proposito)…  

La prima stagione, a cui ne farà seguito una seconda, termina, in modo inaspettato ma efficace, con un numero musicale.    

domenica 13 ottobre 2019

BATWOMAN: mal recitata e scialba


È la recitazione il punto debole di Batwoman, e specificatamente quella della bella  interprete Ruby Rose (Orange is the New Black) che non brilla per abilità “tespiane”, diciamo così, ingessata e monocorde. Non c’è ammontare di spavalderia che riesca a nascondere questa pecca. E va bene raccogliere la staffetta da Batman, che nella narrazione è misteriosamente scomparso 3 anni prima, ma lui è così onnipresente che a stento lei emerge: se per la fine del pilot non si riesce nemmeno a riconoscere l’eroina per quello che è, una donna, una persona diversa, e la si vede ancora come il più famoso cugino, è certo che abbiamo un problema.  

Introdotta nella puntata crossover di Arrow “Elsewords – Altrimondi”, la nuova entrata della scuderia di Greg Berlanti, sviluppata in questa incarnazione da lui e da Caroline Dries, è basata ovviamente sull’omonima eroina dei fumetti della DC, ed in particolare sulla graphic novel del 2010 Batwoman: Elegy.  

Il passato di Kate Kane, nome civile di Batwoman, è chiaro: ha perso la madre e la sorella in un incidente d’auto da cui l’alter ego di Bruce Wayne non è riuscita a salvarle, e le lo ha sempre ritenuto responsabile di questo; è stata espulsa dall’accademia per essere lesbica e nello stesso momento ha perso così la sua ragazza, Sophie (Meagan Tandy), che ha preferito mentire per potersi invece diplomare. Ora Gotham, la cui sicurezza è mantenuta dai Crows (i Corvi), fondata dal padre Jacob Kane (Dougray Scott), viene minacciata dalla temibile Alice (Rachel Skarsten), leader della Woderland Gang  (la Gang delle Meraviglie), che rapisce Sophie. La sorellastra di Kate, Mary Hamilton (Nicole Kang), la avverte e lei, che si stava allenando per conto suo, rientra in città. Scoperta la vera identità di Batman, estorcendo forzatamente l’aiuto del giovanissimo Luke Fox (Camrus Johnson), che custodisce la Wayne Tower, decide di modificarne il costume del cugino e di ergersi lei a paladina della città. ATTENZIONE SPOILER. La scoperta maggiore che farà, alla fine del pilot, è rendersi conto che Alice, la sua nemesi simil-Joker, altri non è se non Beth, la sorella che lei credeva morta nell’incidente d’auto di anni prima.  

Da quanto traspare dal pilot, oltre ad un look genericamente non troppo accattivante – nei costumi, ma anche della scenografia (salvo solo il momento in cui Kate scopre la Batcaverna – la sceneggiatura è completamente dimenticabile e l’approfondimento psicologico dei personaggi è lasciato al caso. La storia si snoda secondo tappe narrative ben definite con un buon ritmo, e tutto è sufficientemente chiaro, ma è anche tutto piuttosto preordinato e scialbo, non vibra di passione intellettuale o emotiva. Il sottotesto, potenzialmente ricco, rimane inconsistente. Del voice-over si potrebbe facilmente fare a meno. I rapporti fra i personaggi suonano tutti forzati. Alice, ben recitata, è l’unica luce che scappa dal buco nero e che presenta del potenziale.  

Personalmente ero affezionata dall’infanzia al personaggio, ma di questa vigilante i cui dolori emotivi non sembrano più vissuti della tuta rifatta che ha deciso di indossare faccio volentieri a meno.     

martedì 8 ottobre 2019

CHERNOBYL: una ricostruzione parenetica che onora eroi senza nome


“Essere uno scienziato vuol dire essere un ingenuo. Siamo così presi dalla nostra ricerca della verità da non considerare quanto pochi siano quelli che vogliono che la scopriamo, ma la verità è sempre lì, che la vediamo o no, che scegliamo di vederla o no. Alla verità non interessano i nostri bisogni, ciò che vogliamo, non le interessano i governi, le ideologie, le religioni. Lei rimarrà lì, in attesa, tutto il tempo. E questo, alla fine, è il dono di Chernobyl. Se una volta temevo il costo della verità ora chiedo solo: qual è il costo delle bugie?” (1.05)
Ha vinto l’Emmy come miglior miniserie del 2019, ha ricevuto approvazione quasi universale dalla critica con un punteggio su Metacritic di 83, è stata biasimata dai russi come propaganda statunitense che li vuole mettere in cattiva luce tanto che vogliono girarne una contro-versione (si legga qui in proposito): Chernobyl è stata una coinvolgente coproduzione HBO-Sky sul disastro nucleare del 26 aprile 1986 che diversi di noi (sicuramente quelli che come me all’epoca erano adolescenti) ricordano bene: l’esplosione del reattore numero quattro di una centrale in Ucraina che ha diffuso una radioattività considerata pari a centinaia di volte la bomba di Hiroshima.  

Ideata e scritta da Craig Mazin, che si è ispirato al libro Preghiera per Černobyl’ della premio Nobel per la letteratura Svjatlana Alexievič, e diretta da Johan Renck, questa ricostruzione degli eventi segue lo scienziato Valerij Legasov (Jared Harris, Mad Men, The Crown), vicedirettore dell’Istituto di energia atomica Kurchatov, e il politico Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), vicedirettore del consiglio dei Ministri, a capo dell’ufficio per il combustibile e l’energia e della commissione che deve indagare sull’evento. Il rapporto fra i due, e la progressiva presa di consapevolezza degli eventi da parte di quest’ultimo, che da arrogante burocrate si trasforma facendo tutto quello che può per rimediare alla situazione, è il vero punto di forza della narrazione, uno spettacolo nel modo sottile, ma evidente, di costruzione della stima reciproca, se non addirittura amicizia, fra due uomini che la sorte ha gettato insieme. Il vero successo artistico per me sta qui. Altro personaggio di rilievo è stata Ulana Khomyuk (Emily Watson) una scienziata bielorussa dell’istituto per l’energia nucleare che indaga sul disastro. Come espresso esplicitamente in chiusura, quando vengono riportati i dati sull’evento al di là della ricostruzione della finzione, si tratta di un personaggio inventato che rappresenta tutti quei fisici e ingegneri che nella realtà si sono spesi per risolvere l’incidente.   

Il resto della trama di costruisce su personaggi minori: il pompiere fra i primi soccorritori che lascia la moglie incinta; la moglie di lui che non vuole allontanarsi dal suo amato e che finirà per perdere il bimbo che porta in grembo; il ragazzo imberbe incaricato di uccidere tutti gli animali che trova perché contaminati e, se trova il coraggio di sparare a un cane dopo che cerca di farlo scappare, non ha cuore di liberarsi di una cucciolata con la madre; i contadini costretti ad evacuare (incarnati da una donna anziana che si rifiuta di lasciare la sua casa e continua a mungere la sua mucca); i minatori mandati in missione suicida nei sotterranei; gli operai lasciati per pochi secondi sui tetti radioattivi; semplici abitanti del luogo che avevano assistito al tragico spettacolo da un ponte, di cui non ne sopravvivrà nemmeno uno, ci viene raccontato in chiusura. Qui, al di là dei volti riconoscibili che umanizzano le vicende, ci sono tanti, tantissimi volti anonimi, che bene esprimono quello che è il prezzo di quanto è accaduto, ovvero migliaia di vite a cui non riusciremo mai a dare un volto o un nome che hanno pagato un prezzo altissimo soffrendo e sacrificandosi (a loro è dedicata quest’opera). Si onorano tanti eroi senza nome.   

E il senso del racconto è poi quello di cercare e di capire il perché tutto questo sia accaduto, di mostrare la concatenazione di tanti piccoli errori – ignoranza, insabbiature, bugie, abusi, arroganza, segreti, incompetenza -  che nell’insieme hanno portato alla catastrofe, e, come fa notare la citazione finale che ho messo come cappello introduttivo, il rischio dell’omertà, che sia dovuta a ideologia o vigliaccheria, e delle menzogne. E in questo senso quest’opera ha sicuramente un senso parenetico, di monito a non ricadere nella stessa trappola, alla quale siamo inevitabilmente destinati se la situazione non cambia.

Notevole è stata l’inquietante colonna sonora di Hildur Gudnadottir. Come  ha ben scritto Randall Coburn (AVClub): “Anche se nulla spezza i nervi come un dosimetro scoppiettante, i droni elegiaci a ripetizione di Gudnadottir evocavano il lamento marcescente di una sirena lontana, fungendo da manifestazione uditiva dell'aria velenosa”. Stilisticamente è stata tesa, senza un momento sosta, ma per il resto anche è stata anche una produzione molto classica.

Se colpa significa negligenza, imprudenza e imperizia, qui ci troviamo ad un esempio lapalissiano di colpa, e di consapevolezza della necessità di prendersene la responsabilità. Una miniserie che esorta a guardare in faccia l’orrore morale perché non si concretizzi in altre forme e guarda negli occhi con altrettanta chiarezza alla forza umana di far fronte alle sue conseguenze.

lunedì 30 settembre 2019

BOB ♥ ABISHOLA: non diverte


Non fa ridere Bob Abishola (Bob hearts Abishola – Bob cuore Abishola, in italiano forse potremmo dire "Bob Lovva Abishola"), la nuova serie sull'americana CBS di Chuck Lorre (Due uomini e mezzo, The Big Bang Theory) e Eddie Gorodetsky, Al Higgins e Gina Yashere (una comica britannico-nigeriana). Nemmeno un po’. E questo la boccia come sit-com. Funziona meglio sul lato umano e di tenerezza, ma non a sufficienza.

Bob (Billy Gardel, Mike e Molly) è un uomo di mezza età che nella vita ha una fabbrica di calzini a gestione familiare, a Detroit. Fra lo stress lavorativo e quello provocatogli dalla madre Dottie (Christine Ebersole), il fratello Douglas (Matt Jones) e la sorella Christina (Meritbeth Monroe) finisce per avere un attacco di cuore. In ospedale, il Woodward Memorial Hospital, si innamora dell’infermiera di origine nigeriana che si prende cura di lui, Abishola  (Folake Olowofoyeku), che ha un figlio, Dele, per cui sogna la carriera di medico, e che vive con zia Olu (Shola Adewusi) e zio Tunde (Barry Shabaka Henley). Bob inizia a corteggiare Abishola, regalandole dei calzini. A raccogliere le confidenze di lei e a commentare la situazione ci sono anche la collega Gloria (Vernee Watson) e l’amica Kemi (Gina Yashere).

Da una sit-com che infila una scorreggia entro il primo minuto nella speranza di provocare ilarità, si capisce che non si punta troppo in alto, ma la premessa è interessante. Nel podcast di “TV’s Top Five” (puntata del 20 settembre 2019) Lorre dichiara di trovare l’immigrazione un argomento politico, ma gli immigrati un argomento semplicemente umano: vuole celebrarli perché sono loro che hanno reso grande l’America e, con loro, il loro coraggio e la determinazione che ci vogliono  per andare a vivere in un Paese straniero cercando una vita migliore. Nel confronto fra culture diverse spera di poter guardare la realtà in prospettiva fresca, scoprendo valori che magari un tempo appartenevano anche alla cultura americana, ma ora apparentemente non più. Fa l’esempio specifico del rispetto per le persone più vecchie e indica una scena del pilot che in effetti salta agli occhi (ho ascoltato l’intervista dopo aver visto la puntata e ammetto di aver notato da sola quanto diceva): Dele serve la colazione alla madre Abishola. L’intenzione perciò c’è, ed è nobile, e si potrà realizzare lì dove si riuscirà ad evitare la caricatura etnica e gli stereotipi da cui all’esordio non si sfugge (specie con gli zii).

Dove pure c’è potenziale è anche in quello che in The Kominsky Method Lorre ha dimostrato di saper esplorare bene: la vulnerabilità dell’essere umano. Un uomo sentimentalmente solo, ma con desiderio di amare e con un certo fascino gentile, e una immigrata tosta e pragmatica che deve lavorare sodo e crescere un figlio, cominciano a trovarsi interessanti a sufficienza da voler imparare a conoscersi. Può davvero essere la base di qualcosa di autenticamente romantico e questo è evidente che lo comprendono bene. Ugualmente una miniera interessante può essere l’esplorazione del rapporto fra i neri afro-americani e i neri africani. Come già in Mom (pure di Lorre) il riso non preclude parti drammatiche o comunque serie.

La recitazione è buona, i passaggi di scena con le slugline scritte a caratteri cubitali sono quantomeno originali.

Rimane, per il poco che ho visto, il problema enunciato all’esordio: non diverte. E avrà speranza di sopravvivere solo se riuscirà a farlo, presto.

lunedì 23 settembre 2019

EMMY AWARDS 2019: i vincitori

Photo Credit: Kevin Winter/Getty Images (da THR)


Sono stati consegnati ieri sera gli Emmy Awards, giunti alla loro 71esima edizione.


Sotto, i vincitori:

Miglior drama: Game of Thrones (HBO)
Miglior attrice in un drama: Jodie Comer, Killing Eve
Miglior attore in una drama: Billy Porter, Pose
Migliore attrice non protagonista in un drama: Julia Garner, Orzak
Miglior attore non protagonista in un drama: Peter Dinklage, Game of Thrones
Miglior sceneggiatura di un drama: “Nobody is ever missing” di Succession, scritta da Jesse Armstrong
Miglior regia di un drama: “Reparations” di Orzak, diretta da Jaseon Bateman

Miglior comedy: Fleabag (Amazon)
Miglior attrice in una comedy: Phoebe Waller-Bridge, Fleabag
Miglior attore in una comedy: Bill Hader, Barry
Miglior attrice non protagonista in una comedy: Tony Shalhoub, The Marvelous Mrs. Maisel
Miglior attore non protagonista in una comedy: Alex Borstein, The Marvelous Mrs. Maisel
Miglior sceneggiatura per una comedy: “Episode 1” di Fleabag, scritta da Phoebe waller-Bridge
Miglior regia per una comedy: “Episode 1” di Fleabag, diretta da Harry Bradbeer

Miglior limited series o film: Chernobyl
Miglior attrice in una limited series o film: Michelle Williams, Fosse/Verdon
Miglior attore in una limited series o film: Jharrel Jerome, When they see us
Migliore attrice non protagonista in una limited series o film. Patricia Arquette, The Act
Miglior attore non protagonista in una limited series o film: Ben Whishaw, A Very English Scandal
Miglior sceneggiatura per una limited series, film o speciale drammatico: Chernobyl, scritto da Craig Mazin
Miglior regia per una limited series, film o speciale drammatico: Chernobyl, diretto da Johan Renck

Miglior film per la TV: Black Mirror. Bandersnatch (Netflix)


Per altri vincitori, con l’elenco anche di tutti i nominati, si veda qui.

venerdì 20 settembre 2019

THE SOCIETY: adolescenti ricostruiscono la società


The Society è un teen drama di Netflix che vede un gruppo di ragazzi adolescenti che, di ritorno da una sorta di gita interrotta dal maltempo, all’improvviso si ritrovano da soli, isolati e senza adulti in genere, in quella che sembra una copia perfetta della cittadina di West Ham, in Connecticut nel New England, in cui abitavano, circondata solo da foresta, e devono cavarsela con le proprie forze e far funzionare la nuova società che sono costretti a costruire. 

Ideata da Christopher Keyser, che già aveva esplorato il tema dell’assenza dei genitori in Party of Five, questa serie è un po’ Il Signore delle Mosche (a cui è in parte ispirato), un po’ The 100, un po’ Riverdale, un po’ Persons Unknown e Wayward Pines o Under the Dome. Altre influenze, esplicitamente richiamate, sono Walden di Thoreau,  Peter Pan, e Rosencrantz e Guildersten sono morti di Stoppard.

I protagonisti che si contendono la scena sono numerosi: Cassandra Pressman (Rachel Keller, Legion) leader naturale del gruppo, che ha problemi di cuore; sua sorella Allie (Kathryn Newton, Big Little Lies), che presto diventa forzatamente il punto di riferimento della comunità; il loro cugino Sam (Sean Berdy, Switched at Birth), un ragazzo sordo gay, e la sua migliore amica Becca (Gideon Adlon), che è incinta; Il fratello maggiore di Sam, Campbell (Toby Wallace), che mostra tendenze psicopatiche e ha un comportamento abusante e intimidatorio nei confronti della sua ragazza, Elle (Olivia DeJonge); il miglior amico di Allie, Will (Jacques Colimon), cresciuto con genitori in affido e senza una sua casa; Luke (Alexander MacNicol), ex-giocatore di football, e la sua ragazza Helena (Natasha Lui Bordizzo), molto religiosa; Harry (Alex Fitzalan), un ragazzo ricco abituato a spadroneggiare in città e la sua ex Kelly (Kristine Frøseth); e Gordie (Jose Julian), un giovane con aspirazioni da medico che ha una cotta per Cassandra.

Ammetto che sono affascinata dalla premessa di fondo a prescindere, qui mi è anche piaciuto molto come è stata realizzata – a dispetto del pietoso poster. Il mistero del dove siano, perché siano lì, se i loro genitori siano ancora vivi o no (lo si scopre nella finale di stagione) e come fanno eventualmente a tornare “a casa” è un filo presente, ma tenue. È il pretesto, in fondo…

Il cuore delle vicende è più di tipo politico-sociale: qual è il modo migliore di autoregolarsi e gestirsi, la democrazia o la dittatura? Il socialismo o il capitalismo? Che poteri e che limiti deve avere un governo? E le forze dell’ordine? Quali sono le priorità in una comunità? Come cambia le persone il potere? Che confine ci sono fra interessi personali e comuni? Che sacrifici comporta spendersi a favore della comunità? Come affrontare la scarsità di risorse, alimentari, ma anche culturali? Che cosa significa costruire una nuova vita? Come arginare gli elementi distruttivi o pericolosi di una società? Come va gestito il dissenso? Come si infliggono punizioni? Come si fanno rispettare le regole? Come si decide chi comanda e fa rispettare le regole? Come si tengono in equilibrio le vicende personali e quelle della comunità? Che cosa conta nella vita?

Si dibattono perciò queste problematiche di diritto e scienze politiche, ma anche di natura etica e morale, sia esplicitamente che implicitamente, attraverso argomenti ambiziosi e inaspettati colpi di scena. Si mostrano quanto concrete e quotidiane siano queste questioni, con echi alla realtà che viviamo. Attraverso il microcosmo degli adolescenti si ha, in un certo senso, una versione del mondo che potrebbe essere definita ad usum Delphini, ma che non suona esplicitamente pedagogica, ma è più di stimolo alla riflessione in una trama avvincente. Le speculazioni intellettuali dei ragazzi, che dibattono queste questioni in arene pubbliche o privatamente sono stringentemente legate alla loro realtà, non esercizio astratto. Ne va della loro sopravvivenza e della qualità della loro vita.

I dialoghi non sono particolarmente memorabili, ma la costruzione narrativa è molto solida, e gli interpreti sono talentuosi. Al di là delle premessa fantastica è tutto molto credibile. La parte femminile del cast è servita meglio nel senso che i personaggi femminili sono approfonditi di più, mostrano più spina dorsale e sono genericamente ritratte in modo più positivo della controparte maschile, a cui per ora sono stati riservati ruoli antagonistici o di supporto. Ci sarà tempo di approfondire nella confermata seconda stagione. Un YA adatto anche agli adulti.

lunedì 9 settembre 2019

PEN15: vita di due pre-adolescenti


In PEN15 (da leggersi come “pen-fifteen”, ma anche come “penis” ovvero “pene”, dell’’americana Hulu) due attrici trentenni, Maya Erskine e Anna Konkle, co-ideatrici insieme a Sam Zvibleman. interpretano due ragazzine delle medie  – se stesse da giovani, si può immaginare, considerato anche che i personaggi hanno lo stesso nome di battesimo e che la serie è ambientata nei primi anni 2000, in un’epoca pre-cellulari ed e-mail. Con una vibrante commedia in cui si mostrano i dolori e le gioie della pre-adolescenza si porta attenzione, con rara onestà e assenza di pudore, a verità su quella fase della vita che si tendono a dimenticare o ignorare.

Maya, la cui madre (Matsuko Erskine, vera madre dell’attrice) è giapponese, vive con lei e il fratello in un nucleo familiare felice: il padre batterista (Richard Karn) è spesso via per lavoro, ma manda ogni sera un fax alla figlia per farle sentire la sua presenza; Anna è amata dai genitori (interpretati da Taylor Nichols e Melora Walters) che però fra loro non fanno che litigare e sono prossimi al divorzio. Le due amiche sono come sorelle e condividono tutto, che sia giocare coi Sylvanian, fumare la prima sigaretta, parlare delle cotte per i ragazzi o depilarsi per la prima volta…

Ci sono momenti in cui è evidente che si tratta di due adulte che interpretano delle ragazzine, ma la sospensione dell’incredulità funziona alla grande, anche perché per la gran parte del tempo risultano assolutamente credibili. Il resto del cast giovane è composto da ragazzi che hanno effettivamente l’età che si suppone debbano avere, e anche se non ce ne è bisogno perché si immagina, la serie rassicura con una scritta in sovrimpressione che in alcune scene vengono usati dei body double.

Sono partita un pochino tiepida nei confronti di questo programma apprezzato dalla critica. Avevo l’impressione che si proponesse una versione di quell’età un po’ come, quando avevo quegli anni, me la suggeriva la rivista “Cioè” ovvero donne giovanissime interessate solo ai ragazzi, al look e alla musica. Io a quell’età non mi ci ritrovavo, e ora da adulta ritengo tutt’ora che quella versione della pre-adolescenza sia stereotipata e riduttiva, ma anche che probabilmente ero uno po’ fuori dal coro, io che, di fatto, sono sempre probabilmente stata anche percepita come un po’ “strana”, rispetto alle mie coetanee. Ritengo vero, ad esempio, che le persone di quell’età fossero e siano interessate ai cantanti, per quanto a me non avesse mai potuto interessare di meno, quando avevo già un forte interesse nei confronti del piccolo schermo, che veniva all’epoca ignorato. All’inizio vedevo perciò in questa serie un ennesimo specchio distorto, un falso rispetto al mio sentire e pensare a quell’età. Presto però, e con il passare degli episodi, mi sono completamente ricreduta e penso che sia siano raggiunti livelli di profondità notevoli nello scavare nella psiche verde di quei momenti così vulnerabili e fondanti.

PEN15 non mostra adolescenti extra-cool da copertina di rivista patinata, come troppo spesso accade in TV, ma quelle della vita reale, impacciate e inesperte, che cercano di imparare a navigare le prime relazioni sociali, e a gestire situazioni più grandi di loro, il giudizio e le aspettative dei coetanei e degli adulti (1.04 in questo senso è particolarmente significativa), e a capire chi sono (in 1.06 Maya fa i conti con la parte giapponese di sé, ad esempio, e si parla di razzismo in modo sorprendentemente originale, nella misura in cui nasce in modo apparentemente innocuo e sotterraneo, non crudelmente voluto)… da un lato sono apparentemente adulte, dall’altro di un’ingenuità disarmante. Si fanno magari pesanti allusioni sessuali, contemporaneamente ci si incanta ad occhi aperti a vedere il compagno di classe che entra nella stanza, si costruiscono e distruggono amori a ritmo di bigliettini di carta passati fra i banchi di scuole, si scopre la masturbazione…

A quest’ultimo tema è dedicata la puntata “Ojichan” (1.03) e c’è una buona dose di umorismo nel mostrare l’imbarazzo di Maya, che vive questo momento di scoperta del sé come se venisse costantemente osservata da un antenato defunto. Pur consapevole del fatto che questo sia un campo della vita in cui non esiste un’età fissata per essere scoperto, personalmente mi sembrava un’età decisamente molto tardiva. Mi ero posta lo stesso interrogativo, se appunto non fosse un po’ tardi, anche guardando “Ramy” che fa fare le prime esperienze al protagonista maschile grosso modo alla stessa età. Ho cercato di indagare in proposito, ed evidentemente, ammesso appunto che non c’è mai un troppo presto o troppo tardi, è un’età in cui nella media è ragionevole iniziare.

La parte sorprendente è anche quanto espliciti si sia nel mostrare la realtà: la sostanza lubrificante della vagina viene mostrata sulle mani di Maya, che la osserva; quando le arriva il ciclo (che lei non confessa perché ha timore di diventare donna e vorrebbe rimanere ancora un po’ bambina), si vede il sangue, anche raggrumato, sulle mutante e sulla carta igienica; quando si mettono nella vasca da bagno a radersi le gambe, si vedono i peli lunghi. Non ci si nasconde da realtà quotidiane della vita delle giovani donne insomma, quando normalmente queste sono aspetti ancora tabù, che raramente si mostrano senza imbarazzo. Non  ci sono sterilizzazioni e addolcimenti, si aspira all’autenticità.

Lo stesso vale per i sentimenti, le prime cotte e simpatie, delicatissimi e appena abbozzati, tante volte, e proprio per questo forse così difficili da rendere con la pregnanza e l’acume con cui ci si riesce. Qui c’è un lavoro di messa in scena, ma ancora prima di scrittura, davvero lodevole. Le puntate della prima stagione sono 10.

sabato 31 agosto 2019

FOSSE/VERDON: un pas de deux biografico


“Lui era un filmmaker e uno dei registi e coreografi teatrali più influenti; lei era la più grande ballerina di Broadway di tutti i tempi” (The Hollywood Reporter): la loro storia romantica e creativa viene ripresa dalla miniserie in otto puntate Fosse/Verdon (FX), basata sulla biografia “Fosse” di Sam Wasson, sviluppata da Steven Levenson e Thomas Kail e con produttore esecutivo, fra gli altri, Lin-Manuel Miranda (Hamilton) oltre ai due attori che interpretano i protagonisti del titolo, Sam Rockwell e Michelle Williams. La figlia della coppia, Nicole Fosse, attrice e ballerina, pure è co-produttrice esecutiva, ed è stata parte della ragione del taglio “a due” che è stato dato alla storia. Due icone della cultura americana del teatro musicale ricostruiti da contemporanei nomi pesanti di quell’ambiente.

Elegante e ricco di riferimenti che sicuramente sfuggono a chi non è esperto dell’argomento (come me), questo pas de deux biografico divaga focalizzandosi su alcuni momenti topici delle loro vite e con un obiettivo ispirato al movimento #metoo, quello di ricalibrare il mito di Bob Fosse, rinunciando allo stereotipo dell’autore maschio solitario, per mostrare più realisticamente quanto il suo successo fosse legato anche alla figura di Gwen Verdon, lei stessa brillante e grande motrice della fortuna di lui. (New York Times) 

Levenson si è domandato se quello che si accingeva a mostrare fosse solo l’ennesimo ritratto di una persona orribile che fa arte magnifica, ovvero la trita storia di un uomo brillante tormentato da demoni che lo spingono nella vita personale a fare cose terribili, ma che riesce a farsi redimere da quello che crea con il sua creatvità. Lui e gli altri coinvolti nel progetto hanno coscientemente respinto questa narrativa, in cui non credono – comportarsi male ed essere geniali non sono due cose reciprocamente necessarie, anzi – e hanno cercato di proporne una alternativa, consapevoli di come storicamente l’arte sia stata realizzata e in che modo ne è stato distribuito il merito e il credito, con forte pregiudizio sessista che ha penalizzato le donne. “Hanno deciso che il programma avrebbe esplorato, come la mette Levenson, ‘come queste complicate partnership e collaborazioni diventano la storia di una sola persona, quasi sempre l’uomo’. ‘Fosse/Verdon’ va avanti e indietro nel tempo, ma si concentra grosso modo, nella decade fra ‘Cabaret’ e ‘All that Jazz’. ‘È veramente una storia di interdipendenza e codipendenza e’ – Levenson fa una pausa qui – ‘e amore’”.   

Attraverso le otto puntate, che partono prima della premiere cinematografica nel 1969 del film Sweet Charity, che si sarebbe rivelato un costoso flop, e che si focalizzano solo su alcuni momenti, settimane o mesi, zigzagando nel tempo con una narrazione un po’ a puzzle, impariamo a conosce entrambi.

Lui, tutt’ora l’unico ad aver vinto un Tony, un Oscar e un Emmy nello stesso anno per differenti progetti, era un donnaiolo narcisista con problemi di dipendenze da droghe, stacanovista ora auto-celebrativo ora pieno di odio per se stesso, autodistruttivo e suicidario, tanto da finire in clinica psichiatrica (1.05), e negativo anche nei confronti di chi lo circondava. Aveva cominciato a lavorare giovanissimo in un locale di burlesque, e qui era stato introdotto al sesso a 13 anni. La serie è attenta a mostrare come il racconto della sua prima vota, celebrata dagli amici come una gran fortuna, e da lui stesso venduta come tale, nei suoi ricordi fosse in realtà quello che era: abuso su minore. Non si fanno grandi predicozzi, e si rimane legati allo spirito dell’epoca, ma non si rimane intrappolati nel mito, facendo ben capire la natura di quegli incontri avvenuti troppo presto che gli avevano condizionato il modo di vivere la vita sessuale successiva.

Lei era una madre attenta e una moglie presente, ma con il fuoco per il ballo e la consapevolezza della propria bravura e di essere stata un nome ben prima di lui. Costretta a sposare un uomo di cui era rimasta incinta da adolescente, era tornata a vivere con i suoi quando il matrimonio era diventato abusante. Il figlio avuto lo aveva lasciato alle cure dei suoi per tornare sulle scene, denigrata per questo. Lei, con Bob, non era solo una musa passiva, ma era un’attiva collaboratrice, non solo perché ne incarnava l’estetica e riusciva a comunicarla, ma cercata da lui per riuscire a mettere a fuoco i propri progetti. Era protettiva di lui e della sua carriera, sapendo quando e quanto lasciarlo o tenerlo.

Il loro rapporto è centrale, un’intesa intellettuale ed erotica dove lui è l’artista irascibile e temperamentale, lei la presenza calmante che lo centrava e gli dava direzione. Lui era quello che voleva brillare più di tutti e lei ne è consapevole: “non riesci a sopportare che sia io la stella, non tu” gli grida arrabbiata a un certo punto (1.07). Un matrimonio professionale anche quando non era più un matrimonio personale. Nonostante il tentativo di riequilibrio però, la leggenda Fosse rimane schiacciante, e si fatica a mostrare il contributo autonomo della Verdon che non fosse funzionale a far emergere quello di lui. Questo anche nonostante prove attoriali d’eccellenza, che ben hanno anche saputo modulare età diverse della vita dei personaggi.

Quello che il pubblico impara subito a riconoscere, se già non lo conoscesse, è lo “stile Fosse”, nei movimenti e nel loro significato: il cappello a bombetta, le silhouette, le anche oblique, le divaricate, le gambe angolose,  i movimenti a scatti ripetuti delle spalle, le mani a ventaglio, i corpi in pendenza, i movimenti sinuosi… e un retrogusto adulto, decadente, anche equivoco e cinico attraverso la forma contenuta e apparentemente gioiosa della commedia musicale. Questo è quello che si dice delle opere di questi artisti e questo è quello che la serie mostra di loro come persone.

Su The Hollywood Reporter, Daniel Fienberg,  nota come su questa miniserie c’è, solo a sentirla nominare, l’ombra lunga di Ryan Murphy che con essa non ha avuto nulla a che fare. “Non è Ryan Murphy” mi sono ripetuta più volte prima di mettermi a guardarla. È uno sguardo indagatore, riverente ma allo stesso tempo consapevole, su due vite che hanno lasciato un’impronta indelebile sulla cultura teatrale americana.   

giovedì 22 agosto 2019

LODGE 49: "smonata"


Ideata da Jim Gavin che si è ispirato al romanzo di Thomas Pynchon “L’incanto del lotto 49”, Lodge 49 (AMC, Amazon Prime), è una serie che riflette sul senso della vita e dei rapporti umani con un vago senso di realismo magico che permea le vicende di personaggi apparentemente sconfitti dalla realtà.

I protagonisti sono Sean “Dud” Dudley (Wyatt Russell, figlio di Kurt Russell e Goldie Hawn), un ex-surfista californiano che durante un viaggio in Nicaragua è stato morso da un serpente e gli è rimasta una ferita mai guarita completamente che lo lascia zoppicante, che vive alla giornata, e sua sorella gemella Liz (Sonya Cassidy), che lavora come cameriera in un locale senza troppe pretese, lo Shamroxx. Dopo la morte del padre, che gestiva un negozio di pulizia di piscine e che li ha lasciati con un grosso debito da estinguere, si ritrovano ad affrontare una vita economicamente, e sono solo, incerta. Un giorno sulla spiaggia, Dud trova un anello con il simbolo di quello che viene chiamato l’Ordine della Lince. Per puro caso (?) si ritrova di fronte a un edificio che porta quel simbolo e viene in contatto con la Loggia 49, un gruppo di svariati personaggi con aspirazioni alchemico-spirituali, un po’ famiglia l’uno per l’altro, e decide di iscriversi diventando “scudiero”, sperando di trovare un nuovo senso a tutto. Mentre Liz cerca disperatamente di guadagnare il necessario per vivere e vede poco altro, nella vita di Dud, che ha un atteggiamento molto più rilassato e positivo a dispetto di tutto, entrano a far parte gli iscritti della loggia: Ernie Fontaine (Brent Jennings), un venditore di prodotti idraulici di mezza età all’inseguimento dell’elusivo “Capitano” che gli faccia fare un colpaccio professionale, amante della sposata Connie (Linda Emond) e “Cavaliere Luminoso” che aspira ad essere il prossimo Sovrano Protettore della loggia, dopo Larry (Kenneth Welsh, Twin Peaks), che dà ormai segni di instabilità; Blaise (David Pasquesi), farmacista alternativo studioso dei misteri alchemici e storici della loggia nonché suo barman.

Se dovessi descrive con una sola parola la serie, sceglierei una parola dialettale veneta: “smonata”, ovvero disillusa, demotivata, vagamente svogliata. Allo stesso tempo però c’è un senso di residuale resistenza umana verso il grigiore della vita e di anelito verso un’esistenza autentica, e un sentimento di ottimismo. Ernie (1.04), in quello che incapsula lo spirito ultimo, confessa che non vuole vivere per sempre, vuole vivere davvero, anche per poco e col poco che ha, con contatti umani. La gente cerca gli unicorni quando abbiamo i rinoceronti, dice. Non è una serie contro le fantasie e le ambizioni, ma è una serie che invita a trovare magia nella realtà. I toni caldi e luminosi della Long Beach californiana la immergono in un’aura di speranza, e si è lontanissimi da possibili altisonanti pomposità.  Volatili segni invitano a leggere in modo simbolico molto di quello che vediamo sullo schermo. Si parla di sogni, di invecchiare, di amore, capitalismo, morte e lutto, desideri… 

Ammetto che mediamente ha entusiasmato la critica più di quanto non abbia preso me, che pure ne vedo l’ambizione e l’aspirazione filosofica. La parte spirituale mi ha fatto ripensare a The Path, perché ne condivide segni e immaginario, in alcuni passaggi, ma se lì si riflette sull’oligarchia di una setta e sul suo potere corrosivo e opprimente, qui non ci si spinge mai in terreni propriamente religiosi, e si guarda alla crescita personale, alla liberazione individuale e al senso di comunità e fratellanza.  E c’è una sottilissima pervasiva sotterranea ironia che redime da ogni possibile fanatismo – che sia l’arrivo dell’emissario della Loggia di Londra o la scoperta in una stanza segreta di una “mummia” (1.04), a dispetto di Blaise che si rifiuta di definirla tale... Ci si spinge verso il surreale, ma si rimane sul confine, sempre comunque ancorati alla realtà.

La seconda stagione negli USA è disponibile dal 12 agosto. Presto anche sullo store italiano, immagino. 

lunedì 12 agosto 2019

L'eccellente RAMY: un musulmano in cerca di identità


È un viaggio, prima di tutto metaforico, ma per un paio di puntate anche fisico, alla ricerca della propria identità personale, culturale, spirituale e sociale quello che Ramy Yousseff intraprende come autore dell’autotitiolata Ramy (dell’americana Hulu), un tentativo di scoprire chi è, in che cosa crede e chi vuole essere nella vita, sia come singolo che nella comunità a cui appartiene. E con una voce distintiva e originale confeziona quella che per me, almeno per ora, è la miglior serie dell’anno: non c’è puntata in cui non si venga provocati a pensare, non si rimanga a bocca aperta per la profondità della riflessione e per la vis comica che permette di ridere anche nella più inaspettata delle situazioni – chi avrebbe detto che lo avrei fatto di fronte alla tragica dichiarazione di una adolescente che minaccia di togliersi la vita (1.08) o che avrei sorriso con partecipe comprensione dell’affermazione di una donna che lamenta la mancanza di “misogninia vecchia scuola”. Questa serie ci riesce.

La coordinata principale mi pare alla fine il disorientamento,  l’essere persi alla ricerca di qualcosa che forse non esiste, o esiste solo per tasselli che si giustappongono e compongono un mosaico ben diverso da quello che ci si aspetterebbe. “Sono perso” (1.09) gli dice il cugino ad un certo punto: lo sono tutti, lo siamo tutti.

Ramy Hassan (Ramy Youssef) è un musulmano di orgine egiziana che vive in New Jersey, negli Stati Uniti, con i genitori Farouk (Amr Waked) e Maysa (Hiam Abbass, Succession),  amorevoli (lo chiamano spesso “habibi”) e relativamente permissivi, e con la sorella Dena (May Calamawy), studentessa universitaria. Lavora, ha delle relazioni, e un gruppo di amici, fra cui Mo (Mohammed Amer) e Ahmed (David Merheje), con il suo stesso background religioso, e Steve (Stephen Way), che ha una grave disabilità dovuta ad una forma di distrofia muscolare ed è sulla sedia a rotelle e necessita spesso anche del ventilatore, che conosce fin da ragazzino, quando in seguito agli attacchi dell’11 settembre gli amici che precedentemente frequentava lo allontanano: “sei un terrorista?” gli chiedono dopo che non si sentono di fidarsi più di lui visto che quello che racconta sulle sue abitudini masturbatorie, che non ha ancora propriamente sviluppato e capito, non li convincono (1.04).

Ramy è un millennial che cerca di essere una brava persona. Solo, non ha ancora capito del tutto che cosa vuole dalla vita e che peso vuole che abbiano le proprie radici. È diviso fra la comunità religiosa e  la vita laica intorno a sé e si sente non del tutto appropriato in nessuna delle due, lacerato e frastornato da ipocrisie e da valori contraddittori. Intraprende un viaggio in Egitto (1.09; 1.10) per comprendere meglio la cultura da cui proviene, per trovarsi ancora di più a brancolare nel deserto in preda ad allucinazioni e vedere che la vecchia realtà così come l’aveva immaginata alla fine è morta.

Molte sono le tematiche affrontate e prima fra tutte l’essere diversi, esotici, e per questo isolati, soli: lui si sente spinto in direzioni opposte di fronte a “tentazioni” che gli si propongono e non vorrebbe seguire, come bere, drogarsi, fare sesso durante il Ramadan – trova il tutto o il nulla, ma cerca un equilibrio; la sorella soffre la discriminazione legata al fatto di essere una donna e, ancora vergine, è perseguitata dagli insegnamenti del padre che da quando era bimba ha dipinto il sesso come il peccato peggiore, con conseguenze apocalittiche – “un uomo e una donna non sono mai soli, fra loro c’è sempre il diavolo” (1.06) è la prima cosa con cui aveva esordito quando era ancora in età da avere le carte dei Pokemon come interesse principale; la madre non regge la solitudine ora che i figli son grandi e il marito sempre al lavoro e non si sente più desiderata e cerca, inventandosi un lavoro, un contatto umano che possa dare nuovo senso alle sue giornate (1.07); l’amico Steve è fino troppo consapevole che la disabilità gli limita fortemente le possibilità di relazioni sentimental-sessuali e vorrebbe poter cogliere le poche occasioni che ha…Ogni puntata, per ragioni diverse, è un piccolo gioiello.

Ramy è concentrato sulla propria ricerca di autenticità e di senso della vita, ma non in modo così egoico da non vedere quella degli altri, da non vedere ad esempio che certe frasi che i genitori gli ripetono hanno il valore apotropaico di scongiurare quello che temono, vede ed è anche spaventato dalle difficoltà altrui verso cui mantiene un distacco comunque empatico. Fatica invece a riconoscere all’inizio le stesse difficoltà in un mondo altro, che si aspetta più “vero”, l’Egitto, per rendersi poi conto che cambia la realtà – è un luogo in cui è percepito come potenzialmente più pericoloso bere un bicchiere d’acqua di rubinetto che farsi una pista di coca-, ma le difficoltà sono le stesse.

Ramy è celebrata per essere la prima serie su una famiglia arabo-musulmana, fatta di persone normali, non di percepiti potenziali nemici dell’occidente. Per alcuni aspetti siamo un po’ sullo stesso terreno di Master of None, ma raggiunge vertici maggiori perché è meno “fighetto”, meno staccato dalla cultura di origine, è più disorientato. Leggero e divertente, ma allo stesso tempo acuto e reale. Notevole davvero. È stato rinnovato per una seconda stagione.

domenica 4 agosto 2019

UPFRONTS 2019-2020: the CW

La CW ha presentato agli upfronts solo 3 nuovi programmi per la stagione 2019-2020. Sono:

Batwoman. Kate Kane (Ruby Rose, Orange Is the New Black), meglio conosciuta come Batwoman, sarà la prima supereroina lesbica protagonista di una serie TV. Si tratta dell'ennesima produzione di Greg Berlanti, e l'adattamento viene da Caroline Dries (The Vampire Diaries), che sarà la showrunner. Qui il promo.

Nancy Drew. L'esordiente Kennedy McMann interpreta la giovane investigatrice Nancy Drew in questo adattamento della serie di classici libri. Siamo nell’anno dopo il diploma e la protagonista deve mettere in attesa l’università quando viene coinvolta in una tragedia familiare e in un'indagine su un omicidio. Anche Riley Smith (Proven Innocent) e Leah Lewis sono fra i protagonisti. Questo adattamento viene dal team di Josh Schwartz e Stephanie Savage (The O.C., Gossip Girl, Marvel's Runaways) insieme a Noga Landau. Qui il promo.


In midseason:

Katy Keene. Si tratta di uno spin-off di Riverdale che si concentra su quattro ventenni che cercano fama a New York City: Lucy Hale (Pretty Little Liars) è la Katy del titolo, futura stilista di moda che lavora al Lacy’s Department Store, che ha come capo una leggendaria personal shopper, Gloria (Katherine LaNasa), e ha un fidanzato di lunga data, KO Kelly (Zane Holtz), che sogna di diventare una pugile professionista. Katy fa amicizia con l'aspirante cantautrice Josie McCoy (Ashleigh Murray, che per questa serie lascia così Riverdale). Il  performer Jorge Lopez (Jonny Beauchamp), loro compagno di stanza, punta a Broadway, e spera di sfondare come drag queen, Ginger. Altra giovane artista del loro giro è “it girl” Pepper Smoth (Julia Chan) che intende aprire la propria versione della Factory di Andy Warhol. Prodotta da Greg Berlanti (che avrà così in onda il numero record di ben 18 serie nel 2019-202), si svolge circa cinque anni dopo Riverdale, e non sono previsti incroci fra le due serie. Qui il teaser.