martedì 27 agosto 2024

HOUSE OF THE DRAGON: la seconda stagione

Personalmente ho trovato appagante la seconda stagione di House of the Dragon (HBO, sky Atlantic) che ha una sua identità diversa dal Trono di Spade, pur essendone chiaramente una costola, ambientata circa 200 anni prima, anche se molti sono rimasti delusi soprattutto da una conclusione anticlimatica o comunque priva degli eventi significativi che speravano.

ATTENZIONE SPOILER

Ci sono due schieramenti contrapposti della famiglia Targaryen che regna a Westeros. Da un lato ci sono i Verdi, attualmente al potere: ad Approdo del Re il figlio maggiore della regina vedova Alicent (Olivia Cooke), Aegon (Tom Glynn-Carney), è il sovrano: è giovane, insicuro e inesperto, ma vuole fare di testa sua. La madre lo sostiene convinta che il defunto marito volesse effettivamente lui sul trono. Nonno Otto (Rhys Ifans) lo consiglia, ma nella sua irruenza il ragazzo crede di saper meglio lui che cosa è giusto fare e lo licenzia senza mezzi termini. Inoltre decide di andare in battaglia lui stesso, guidando un drago, ma il tradimento del fratello minore Aemond (Ewan Mitchell), che vuole per sé il potere, lo riduce a un invalido perennemente sofferente, situazione che consente a Larys Strong/"Piededuro" (Matthew Needham) di avvicinarsi a lui come consulente. Il popolo è scontento perché affamato ed è tenuto all’oscuro delle effettive condizioni del regnante.

Dall’altro lato nella pretesa al trono ci sono i Neri, rappresentati dalla regina Rhaenyra (Emma D'Arcy), legittima erede di Viserys I. Spetterebbe a lei  sedervisi, per volontà paterna, e se Alicent è convinta del contrario è solo perché ha mal interpretato i vaneggiamenti del marito morente. Rhaenyra vorrebbe riconquistare il ruolo che le spetta, anche con la forza se è necessario, ma rimane cauta perché ha ereditato dal padre 80 anni di pace e non vuole mettervi fine con leggerezza. I consiglieri vorrebbero che si mettesse da parte, anche perché donna, ma lei ha la stoffa per governare e intende farlo. Il marito Daemon (Matt Smith) si reca da altri signori del regno per chiedere sostegno e raccogliere alleanze per un esercito, mentre a Roccia del Drago lei, che fino in ultimo non sa se poter contare sulla lealtà del marito, arruola nuovi Cavalieri di Draghi fra i “bastardi”, una cosa mai fatta prima, dal momento che solo chi ha sangue Targaryen è in grado di farlo, ma fino ad ora per cavalcare questi esseri considerati alla stregua di dei erano solo stati scelti mobili di nascita legittima. La cosa non aggrada molto al figlio Jacaerys (Harry Collett). Fra i consiglieri di Rhaenyra, c’è Mysaria (Sonoya Mizuno), ex-prostituta.

La guerra civile è inevitabile, e si condensa bene nella sorte che spetta ai membri della Guardia Reale Arryk and Erryk Cargyll (Luke ed Elliott Tittensor), costretti a combattere l’uno contro l’altro.

La puntata più appassionante della stagione è stata indubbiamente “Il drago rosso e il drago dorato” (2.04) scritta da Ryan Condal e con la regia di Alan Taylor, e questo anche perché si vedono all’opera i draghi, aspetto epico che è sempre un appassionante piacere, ma soprattutto perché c’è una lotta senza esclusione di colpi in cui perde la vita Rhaenys (Eve Best), la regina che non fu, oltre che il tradimento di Aemond che colpisce il fratello. Tuttavia come ci viene ricordato da Mysaria nella puntata successiva (2.05) “esiste più di un modo per combattere una guerra”, non solo attraverso le armi. È stato criticato da qualcuno che non è realistico che si cerchi così persistentemente la pace, perché non sarebbe stato così in epoca medievale. L’accusa sarebbe di essere “troppo morali”, anche rispetto al fatto che il popolo si lamenta dell’abbondanza dei regnanti quando loro muoiono di fame, nella convinzione che certe disparità socio-economiche erano considerate nell’ordine delle cose in quelle epoche e per questo non contestate. Ammesso anche che sia vero, l’obiezione non ha fondamento per il fatto che siamo in un mondo immaginario, non reale, per quanto ispirato magari al nostro medioevo – in proposito si veda questo interessante video di iStorica in cui si spiega come la serie si ispiri all’Anarchia, una guerra di successione che divise per vent’anni l'Inghilterra nel XII secolo. E poi, delle tante licenze poetiche che si possono prendere, quella di carcare di preservare la pace un po’ più a lungo non sarà eventualmente certo un problema, soprattutto viste tutte le critiche di eccessi di violenza che macchiavano la serie madre, e lo stesso vedere i poveri che si lamentano della propria situazione criticando l’atteggiamento dei ricchi.

Semmai è più ragionevole lamentarsi della Siberia narrativa in cui è stato Daemon che, separato dal resto del cast principale, si è trovato ad Harrenhal ed è stato tormentato tutto il tempo da allucinazioni e incubi visionari, da una giovane Rhaenyra (Milly Alcock) fino a scene che iniziano con un montaggio in cui lo si vede far sesso con una donna e in cui si capisce alla fine che si tratta di sua madre Alyssa Targaryen (Emeline Lambert), che molti hanno trovato tediose e in quest’ultimo caso disturbante. Se concordo che fossero abbastanza sottotono, ne capisco il valore per il personaggio per il cui il viaggio è soprattutto spirituale e lo porta alla fine della stagione a confermare la sua lealtà alla moglie. La sua assenza però, soprattutto dinanzi al pungolo di una guerra imminente, è vero che si è fatta sentire. E ha brillato la determinazione dell’adolescente Ser Oscar Tully (Archie Barnes), che in parecchi hanno già definito la versione maschile di Lyanna Mormont, nel gestire Daemon.

Tutti, non solo me compresa ma George Martin compreso (si legga qui), hanno trovato assolutamente adorabile un piccolo personaggio che è stato aggiunto nella versione televisiva, il cane di Formaggio, un ammazzatopi che Daemon aveva assoldato, insieme alla guardia cittadina Sangue, per uccidere Aemond. Il piano fallisce e al posto viene scozzato il principino Jaehaerys prelevato dal proprio lettino. Formaggio viene impiccato e l’adorabile cagnolino lo si vede fedele fino in ultimo. Il pubblico si è arrabbiato di più per il fatto che Formaggio a un certo punto gli ha tirato un calcio che non per il bambino umano assassinato. Scrive bene Martin: “quel cane è stato fantastico. Ero pronto a odiare Formaggio, ma l'ho odiato ancora di più quando ha preso a calci quel cane. E poi, quando il cane si è messo ai suoi piedi, con lo sguardo rivolto verso l'alto... mi ha quasi spezzato il cuore. Una cosa così piccola... un cane così piccolo... ma la sua presenza, i pochi brevi momenti in cui era sullo schermo, hanno dato all’ammazzatopi così tanta umanità. Gli esseri umani sono creature così complesse. La presenza silenziosa di quel cane ci ha ricordato che anche il peggiore degli uomini, il vile e il venale, può amare ed essere amato”. Mi aggiungo alle voci di coloro che vorrebbero che gli autori trovassero un modo per farlo ricomparire con una coda scodinzolante, da qualche parte.

In ogni caso ad affascinare sono stati soprattutto i rapporti fra le persone. Egon-Aemond. Si è tanto parlato della scena di nudo frontale di Ewan Mitchell (2.03), ma se è stato tanto significativo è perché vediamo che Aemond se ne va senza veli quando Aegon lo schernisce mentre è a letto con una prostituta. Alicent – Rhaenyra. Io non ci vedo la tensione lesbica che alcuni ci leggono, leggere sempre tutto in termini sessuali mi pare mancanza di fantasia, ma il loro rapporto di ex-amiche, due donne su schieramenti opposti è un asse portante. Rhaenyra-Mysaria. Si è dato vita a una complicità femminile notevole che qui sì può avere senso sia sfociata in un bacio. Aegon-Larys…

Chi vuole solo azione, guerra e sangue, questa stagione sarà moscia, più di preparativi e attesa che altro, ma narrativamente è stata solida. 

lunedì 19 agosto 2024

THE GOOD DOCTOR: una series finale inclusiva

Con una settima stagione più corta delle altre (solo 10 episodi) The Good Doctor (ABC, Rai2) ha chiuso il suo corso con una series finale delicata ed appropriata.

SPOILER SULLA FINALISSIMA

L’arco conclusivo ha visto il dottor Shaun Murphy (Freddie Highmore) dibattersi davanti a due casi importanti per cercare di salvare da un lato il Dr. Aaron Glassman (Richard Schiff), suo mentore e figura paterna, a cui era tornato il cancro, e dall’altro l'amica di sempre, la dottoressa Claire Browne (Antonia Thomas), alle prese con una grade infezione, rientrata negli USA per farsi curare anche lei per un cancro, in questo caso al seno, proprio per questo ultimo atto, dopo lunga assenza giustificata dal fatto che alla fine della quarta stagione aveva deciso di trasferirsi in Guatemala per seguire una clinica lì. Per il primo purtroppo è calato il sipario, e il programma lo ha espresso in modo molto elegante, semplicemente mostrandoci Sean su una giostra da solo; la seconda ha avuto più fortuna, grazie proprio alla brillantezza dei propri colleghi e al sostegno di un ritrovato Jared Kalu (Chuku Modu), nonostante la perdita non indifferente di un braccio.

La serie ha detto ormai quello che aveva da dire: si è portata consapevolezza su alcune problematiche dell’autismo e, come ha rilevato in più di un’intervista l’attore protagonista, si è riusciti a mostrare come anche le persone con autismo possano cambiare ed evolversi , così come le persone neurotipiche. Nella settima stagione si è pure potuto vedere il dottor Murphy nel ruolo di padre. L’evento più significativo è stata la prematura scomparsa del dottor Asher Wolke (Noah Galvin) a causa di un violento attacco omofobico, proprio a ridosso del fidanzamento con Jerome Martel (Giacomo Baessato). E sono stati introdotti due nuovi studenti praticanti, la dottoressa Charlie Lukaitis (Kayla Cromer), pure lei nello spettro dell’autismo e che idolatra Shaun, anche se lui non la vede con lo stesso favore, e Dominick “Dom” Hubank (Wavyy Jonez), molto in difficoltà di  fronte alla vista del sangue.

Già in corso di via si è notato l’impegno a chiudere le vicende. Con l’avvicinarsi della conclusione già avevano dato il lieto fine per altri personaggi come la dottoressa Morgan Reznick (Fiona Gubelmann) e il dottor Alex Park (Will Yun Lee) che si sono finalmente sposati. Della finalissima, che è stata appropriatamente intitolata “Goodbye” (7.10), erano le ultime battute quelle di cui ero più curiosa, vedere in che modo si sarebbe scelto di dire l’addio definitivo al San Jose St. Bonaventure Hospital. Si è andati nel futuro. Nella coda di quella che diversamente sarebbe stata una puntata come le altre, vediamo  Shaun impegnato in un TED Talk – sullo sfondo appaiono i nomi dei pazienti che ha aiutato nella sua carriera: gli effettivi nomi dei personaggi con cui ha interagito nel corso delle puntate; Adam, il primo che compare, è quello che ha salvato nel pilot. Ascoltando il suo discorso, pronunciato in onore del  dottor Glassman, e vedendo chi è presente, veniamo a sapere “come sono andate le cose”: è diventato primario di chirurgia; ha aperto insieme Claire  una fondazione per promuovere la presenza medici neurodivergenti, la Dr. Aaron Glassman Foundation for Neurodiversity in Medicine; con Lea (Paige Spara) ha avuto un altro figlio, una bambina questa volta…Più o meno tutti sono fra il pubblico. La dottoressa Audrey Lim (Christina Chang) la vediamo pronta a partire con “Surgeons for a Better World" per un’altra opportunità lavorativa e la dottoressa Bria Samoné Henderson vediamo che si è sposata con Danny Perez (Brandon Larracuente).

C’è stato insomma un lieto fine che ha cercato di non lasciare fuori nessuno e ci è riuscito. Forse questi personaggi mancheranno, ma ha chiuso in modo appagante e in linea con quello che la serie è stata in questi anni: un appuntamento gradevole che ha sostenuto l’inclusività.

venerdì 9 agosto 2024

LA REGINA CARLOTTA: uno spin-off di Bridgerton

La regina Carlotta (Netflix), la serie che ha debuttato il 4 maggio 2023, con molta consapevolezza adotta il sottotitolo Una storia di Bridgerton. La ragione non è solamente che è, appunto, uno spin-off di Bridgerton, ma che sebbene sia ispirata infatti alle vicende della Regina consorte del re del Regno Unito, Carlotta di Meclemburgo-Strelitz, non è storia vera, è una rilettura rosa che si prende molte licenze poetiche.

La più significativa di tutte è che molti studiosi ritengono fondatamente che la regnante avesse un'eredità culturale mista e fosse nera, ma questo è stato spesso insabbiato. La serie, che non a caso è stata ideata e prodotta da Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy), si è invece chiesta che cosa sarebbe successo se la società avesse accolto queste differenze invece di ignorarle e negarle e avesse elevato le persone nere (o di colore in senso più ampio) a posizioni e ranghi di rilievo. Nelle vicende ci si riferisce a questo come al “grande esperimento”, che non è avvenuto nella realtà, ma nella fantasia degli autori che reimmaginano come sarebbe potuto essere il mondo se fosse stata fatta una scelta simile. Urge domandarsi che tipo di valore epistemologico abbia un simile esperimento, in questo caso non sociale ma narrativo, se ne abbia uno al di là della mera soddisfazione di un mondo più equo almeno nella fantasia e dell’aprire la mente ad immaginarlo come possibile.

Queen Charlotte si muove fra due assi temporali: uno nel 1817, il presente di Bridgerton (si è debuttato fra la seconda e la terza stagione di questa), in cui la regina (Golda Rosheuvel) fa pressione sui suoi numerosi figli perché si decidano a fornirle un/a erede al trono – nella realtà, solo il quarto è stato in grado di produrne uno, quella che poi sarebbe diventata la regina Vittoria, quando lei era ormai scomparsa; uno nel 1761, che ci fa scoprire la backstory di Carlotta, quando giovanissima (una perfetta India Amarteifio) viene data in sposa dal fratello Adolfo (Tunji Kasim), a un uomo che non conosce nemmeno, re Giorgio III (Corey Mylchreest, e se nel suo scarnissimo curriculum ha interpretato Adone in The Sandman è perché brutto non è, mettiamola così), conosciuto dalla storia come il “re pazzo”.  

Le vicende, che portano tutte la regia di Tom Verica (che per me sarà sempre il papà nella rimpianta serie American Dreams), si concentra sullo spaesamento delle nuova venuta e sul matrimonio con il re che mal vive la pressione del suo ruolo. Vorrebbe poter essere “solo Giorgio”, dedicarsi alla scienza, all’astronomia e all’agricoltura e non agli impegni imperiali che gravano su di lui, anche perché periodicamente ha episodi psicotici. Ufficialmente si dice che soffrisse di porfiria, ma oggidì si sono avanzate altre ipotesi (avvelenamento da arsenico, disturbo bipolare, problemi psichiatrici di altra natura). Sebbene nella sue fasi buone il consorte fosse amabile e affascinante, il pubblico empatizza subito con la neo-arrivata che si ritrova a dover far fronte a comportamenti inspiegabili che la lasciano profondamente triste e sola, anche perché per questi non vi è alcuna spiegazione. Quando la spiegazione arriva (dedicando una puntata a “riempire i vuoti” che c’erano dall’aver visto la sola prospettiva di lei al comportamento di lui, mostrando così l’immagine completa) si soffre con il paziente che si fa sottoporre a letterali torture da un medico sadico che promette di guarirlo, pur di star meglio, e si ha nuovo rispetto per Carlotta che gli sta vicino e fornisce il balsamo migliore con il suo amore. E se la “malattia mentale” è tabù e si brancola nel buio ora, immaginarsi fra ‘700 e ‘800.

Personalmente non ho mai avuto in particolare simpatica il personaggio della regina, troppo capricciosa e distante per i miei gusti, né al di là di questo aspetto in fondo irrilevante l’ho mai trovata degna di un secondo sguardo. Eppure, questo approfondimento l’ha davvero umanizzata e resa vulnerabile e amabile: una donna risoluta, forte, ma mossa da cervello e cuore al posto giusto, si direbbe. E allo stesso tempo si è dato ampio e gradito rilievo ad altri personaggi: la dinamica, frizzante Lady Agatha Danbury (Adjoa Andoh), che diventa presto la migliore amica della regina, ma che era inizialmente (Arsema Thomas) incastrata in un matrimonio con un uomo molto più vecchio di lei e alla sua morte si era innamorata niente meno che del padre della giovanissima Violet (Connie Jenkins-Greig), che ora conosciamo come la viscontessa madre di tutti i Bridgerton (Ruth Gemmell) e assistiamo a come è nata quella amicizia e le vediamo ora vedove confidarsi sul proprio “giardino” (il luogo principe del piacere sessuale insomma), sulla solitudine e le relazioni; e, grande sorpresa, scopriamo un giovane Brimsley (Sam Clemmett), segretario e valletto personale della regina, sempre pochi passi dietro a lei: siamo abituati a vederlo ritto accanto a lei (Hugh Sachs) ormai anziano, ma è magnifico infilarsi nei ricordi che lo vedono avere una romantica storia con Reynolds (Freddie Dennis), segretario e valletto del re, e scoprire quello che i due hanno fatto per la coppia di cui sono fedelissimi servitori. Plot secondari molto ben calibrati. La voce di Lady Whistledown (Julie Andrews in originale, Melina Martello nella versione italiana) assicura continuità. L’ampiamento del worldbuilding dell’epoca antecedente a quella Regency in cui abbiamo conosciuto i personaggi è appagante per chi segue le vicende.

In costumi mozzafiato e gloriose ambientazioni, non mancano balli e occasioni mondane, l’attesa riflessione su protocolli e convenzioni sociali, e c’è naturalmente il classico must del genere rosa in cui lui confessa di non poter vivere senza di lei, ragione di vita, con un fluire di sentimenti e passione che non si riescono a trattenere. Però si va oltre: Carlotta acquisisce progressivamente consapevolezza della sua posizione e del suo ruolo, così come Agatha sa mantenersi in buon equilibrio facendo valere i propri interessi, ma allo stesso tempo mantenendosi fedele all’amicizia con la regnante. E non c’è l’asettico “vissero felici e contenti”, ma vissero felici nella misura in cui le circostanze della vita lo hanno consentito, che vista la malattia di lui non è stata poi così generosa. In mezzo a tanta fantasia, un nocciolo amaro che non ha reso meno apprezzabile la serie, anzi. Molti l’hanno salutata come la migliore. Non disdegnerei altre incursioni del passato dei personaggi con appositi spin-off.

martedì 30 luglio 2024

DEAD BOY DETECTIVES: un teen drama sovrannaturale scacciapensieri

   

Sarà che non conoscevo in precedenza i personaggi di Dead Boy Detectives, ideati originariamente da Neil Gaiman e Matt Wagner per la DC Comics, per cui avevo aspettative su come dovessero essere, ma ho trovato gustosissima questa serie gotico-sovrannaturale portata da Steve Yockey su Netflix dopo che inizialmente doveva debuttare su HBO Max. Poi il ritmo è diventato più tradizionale, ma nel pilot è stato così incalzante per me, e con il plot segmentato in momenti con una titolazione apposita che ne scandisce le parti che conserva anche in seguito, che ho pensato che era proprio adatta alla generazione attuale che vuole momenti agili “spelled out”, esplicitamente spiegati rispetto a quello di cui tratteranno. Una forte mitologia e protagonisti affascinanti testimoniano il talento di Gaiman, ma mi hanno anche fatto ripensare a Buffy. Non è a quel livello come serie, ma nessuno vieta che possa crescere. Gagliarda anche la sigla.     

Protagonisti sono due fantasmi di ragazzi poco più che adolescenti: Edwin Payne (George Rexstrew) che è finito all’inferno, dopo che i suoi compagni di college nel 1916 lo hanno offerto in sacrificio, e dopo decenni di torture è riuscito a scappare; e Charles Rowland (Jayden Revri), ragazzo punk dell’era Thacheriana già oggetto di abusi domestici da parte del padre, morto nel 1989 a seguito di bullismo da parte dei compagni di classe per ipotermia ed emorragia interna. Se il primo è ingessato e un po’ saputello, il secondo è apparentemente sempre di buon umore. Cercano di scampare alla Morte (Kirby Howell-Baptiste), e intanto gestiscono una loro agenzia per risolvere casi sovrannaturali, per aiutare spesso i defunti a lasciare finalmente questo piano di realtà in cui sono intrappolati seppur morti e raggiungere l’aldilà. Un giorno si rivolge a loro una ragazza medium, Crystal Palace (Kassius Nelson), che come tale è in grado di vederli, a cui ha rubato la memoria un demone, David (David Iacono). Presto si unisce al duo e si spostano per un caso da Londra a Port Townsend, Washington, dove rimangono bloccati (solitamente riescono a spostarsi da un luogo all’altro attraverso gli specchi). Crystal affitta una stanza sopra la macelleria Tongue & Tail gestita da  Jenny Green (Briana Cuoco) e fa amicizia con un’altra affittuaria, la confettosa Niko Sasaki (Yuyu Kitamura), che a causa di un’esperienza di pre-morte pure riesce a vedere Edwin e Charles e diventa ufficiosamente parte di un quartetto.

Nella cittadina americana hanno a che fare con una serie di personaggi ricorrenti, che aggiungono fascino a questa serie adolescenziale: hanno feroci scontri con Esther Finch (Jenn Lyon), una strega immortale che fa di tutto per rimanere giovane, e che ha trasformato il suo corvo in un attraente ragazzo Monty (Joshua Robert Colley) per avvicinarsi a loro per distruggerli; devono eludere la Night Nurse (Ruth Connell), che si occupa del dipartimento di soggetti smarriti dell'Aldilà che cerca di individuarli per riportarli dove ritiene debbano stare, e il Re dei Gatti (Lukas Gage), che si è invaghito di Edwin; il solo ad aiutarli in qualche occasione è Tragic Mick (Michael Beach) un tricheco diventato uomo che rimpiange la sua forma passata e che gestisce un negozio di oggetti magici.

Uno degli aspetti migliori della serie è l’amicizia fra i due protagonisti, entrambi con un passato tragico alle spalle e che ci sono sempre l’uno per l’altro; le due ragazze si sono unite in seguito, ma Chrystal in particolare si è integrata subito. Molto spassoso è stato come hanno giocato sull’omosessualità repressa di Edwin in considerazione che, oltre alla naturale timidezza, proviene da un’epoca diversa dalla nostra. Si è riuscito a flirtare un po’ con i doppi sensi, che inizialmente lui non coglieva o con cui si sentiva a disagio, per arrivare progressivamente a un riconoscimento di se stesso che è stato comunque intenso e delicato.

Si sono ben amalgamate le classiche tematiche adolescenziali e tropi del genere (ad esempio l’amore non corrisposto) a quelle gustosamente horror, ma non con l’estetica macabra che pare caratterizzasse il lavoro di Gaiman, ma più giocoso  - un leggero steampunk incontra Heath Robinson, dice bene il Guardian - e di fatto però anche trascurabile. Quello che motiva la missione della Dead Boy Detective Agency è ha un che di amaro: le loro morti non avevano importanza e nessuno le ha mai risolte e loro vogliono di garantire che altre anime non vengano dimenticate come loro e così, fra mostri, demoni e spiritelli dispettosi dei denti di leone che possono essere conservati in un barattolo, risolvono il caso della puntata, accumulando anche una mitologia molto densa.

Un perfetto scacciapensieri: una serie pop-corn che spero rinnoveranno perché intendo proseguirla.

sabato 20 luglio 2024

THE NEW LOOK: creare è sopravvivere

Mi aspettavo si parlasse molto di più di moda, nella serie The New Look (AppleTV+), che ha come protagonisti Christian Dior e Coco Chanel, invece inaspettatamente ma come è presto evidente dalla sigla del programma, molta dell’attenzione è rivolta alla seconda Guerra Mondiale: a quello che nel contesto di questo evento storico è accaduto intorno ai personaggi, al senso della loro professione in simili tempi e circostanze e ai compromessi con cui questi due creatori di haute couture sono dovuti scendere a patti, in qualche caso. Non che non ci sia spazio in ogni caso anche per le creazioni sartoriali. Lo stesso titolo della serie deriva dalla definizione che di una collezione di Dior del 1947 è stata fatta da Carmel Snow (Glenn Close), capo-redattrice dell’edizione americana di Harper’s Bazaar che, assistendo alla prima sfilata dello stilista a Parigi, ha esclamato: “It's such a new look!”. 

Ispirata a eventi reali, la serie esordisce in una prestigiosa cornice: Dior (un sempre spettacoloso Ben Mendelsohn, Bloodline) è stato invitato alla Sorbonne davanti ad un gruppo di studenti che gli pongono delle domande. Una ragazza gli chiede se è vero che Coco Chanel (una risoluta, dinamica, impeccabile Juliette Binoche) ha chiuso la sua attività durante la guerra, mentre lui ha vestito le mogli della gerarchia hitleriana. Anche Cristóbal Balenciaga si è rifiutato, sottolineano, a cui fra parentesi è stata dedicata un’altra recentissima serie TV (Disney+). Gli organizzatori vorrebbero che non si sollevasse la questione, ma lui accetta di rispondere. Partono così le vicende che mostrano molti più chiaroscuri che non una divisione manichea in bianco e nero.

Allora lui lavorava per l’atelier di Lucien Lelong (John Malkovich), che in effetti ha scelto di continuare la propria attività e ha vestito le donne naziste, anche se umanamente fa la figura del gran signore in tutto il corso della narrazione; Dior ha utilizzato però i guadagni per finanziare la sorella, Catherine (Maisie Williams, la Arya di Game of Thrones, che brilla nelle atrocità che deve subire, del resto ha avuto una buona scuola, verrebbe da dire), membro della resistenza, poi catturata, torturata e finita nel campo di concentramento di Ravensbruck, e ha fatto di tutto per aiutarla. Coco Chanel dal canto suo non ha tenuto aperto il suo negozio, ma ha avuto relazioni e problematici contatti con persone legate al regime, come Hans von Dincklage (Claes Bang), detto “Spatz,” e si è cercato di reclutarla come spia insieme all’amica Elsa Lombardi (Emily Mortimer, che racchiude in sé un paio di amiche dell’icona della moda), tanto che aveva un suo nome in codice e a lungo non è potuta rientrare nella capitale francese perché sospettata di collaborazionismo, anche se lei ha sempre negato e si vede che la torbidità della sua posizione è dettata più dalle circostanze che da una presa di posizione. Però, per poter accedere al proprio conto bancario che le era precluso si è avvalsa delle leggi ariane a detrimento dei propri soci ebrei. Il mondo che si ritrae è perciò difficile, e si evidenzia come, ad essere in una posizione di rilievo, talvolta non si riesce a districarsi dal potere anche volendo.

Nella Francia del secondo conflitto mondiale ci ha portato di recente Transatlantic, ed è stato inevitabile, in qualche caso, ripensarci. In The New Look, ideata da Todd A. Kessler (Bloodline, Damages), si è molto più crudi: la serie non distoglie lo sguardo degli orrori della guerra. Quando Coco si ritrova a cena con Heinrich Himmler (Thure Lindhardt) si rabbrividisce a sentirgli dire come il loro obiettivo fosse di eliminare il loro senso di appartenenza, quindi le loro cose, quello che possevedavo e poi la loro dignità, la loro speranza, l’anima. È difficile assistere alle torture a Catherine, anche nella misura in cui in sono in fondo solo accennate – non ci si compiace nel mostrare le situazioni più abbiette, ma si percepisce l’autentica mostruosità di quanto è accaduto, e si soffre dell’ansia e della paura di Christian che non sa che cosa sia capitato alla sorella. Perfino il suo ritorno, giustamente, mostrava i segni della tragedia vissuta sulla propria pelle e nella propria mente. La sorte delle collaborazioniste, rapate a zero e insultate e infamate per la strada dopo la liberazione, incarnate una per tutte dalla famosa attrice Arletty, paiono un inferno del contrappasso (1.04). Il ritorno spettrale dei sopravvissuti è accolto con lo sgomento nell’osservare la realtà che sopraffà la gioia (1.05). Non è solo uno sfondo, è parte essenziale della narrazione.

Allo stesso tempo la moda come arte è vista come atto creativo di riscatto, mezzo di sopravvivenza, tentativo salvifico di andare avanti e di offrire speranza attraverso la bellezza. Questo è quello che si ripropone Dior, timido, riservato, non grande amante di un accesso di attenzioni. Vuole provare emozioni, sognare, vivere, costruire un nuovo mondo attraverso la propria elegante inventiva. Vive nell’atto di disegnare e creare i propri abiti, non gli interessa la fama, se non come scotto per poter fare quello che ama fare. Ha uno smisurato talento, ma sono gli altri che sanno più di lui metterlo economicamente a frutto. E se, terminata la guerra, in tutta la Francia non c’è stoffa da confezionare abiti veri e ci si deve accontentare di vestire delle bamboline-manichino, che al teatro della moda ricevono 100.000 visitatori, quando ha l’opportunità di avere un proprio atelier, complice il mecenatismo di un danaroso re de cotone, rimane l’uomo corretto che non sottrae le modelle ai proprio colleghi, ma preferisce scegliere una prostituta presentatasi insieme a molte, dopo un annuncio messo sul giornale. Deve rassegnarsi a sottrarre ai colleghi le sarte, ma anche lì poi si giunge a un compromesso. La rivalità non è mai fare lo sgambetto agli altri, domina la correttezza, l’amicizia sincera, un’etica del lavoro che insegna a perseverare con dignità. E ci tiene immensamente alla famiglia, che sia la sorella a cui dedica la sua prima fragranza, Miss Dior – e confesso che la prossima volta che vado in profumeria mi fermerò ad annusarla pensando alla serie, conoscendone l’origine -, che sia il fratello che si trova in un sanatorio (l’ospedale psichiatrico dell’epoca) o il compagno (che si vede molto poco in realtà, ma è presente).

Diversamente dagli abiti degli stilisti ritratti, la serie ideata da Todd A. Kessler (Bloodline, Damagesnon lascia a bocca aperta. La recitazione è impeccabile, ma i dialoghi potrebbero essere più incisivi e c’è una tendenza a sovraspiegare. Quando muore il padre di Christian (1.08), che poco prima gli aveva chiesto di andare a trovarlo, cosa che lui aveva rimandato di fare perché troppo pieno di lavoro, piange la sua morte e si arrabbia con se stesso. Non serviva che rimettessero in voiceover la conversazione avuta fra i due poche scene prima: ci arriviamo da soli che parte della sua reazione è il rimpianto di non aver acconsentito alla richiesta del padre. Questo accade troppo spesso. Una prevista seconda stagione è in ogni caso benvenuta.

mercoledì 10 luglio 2024

EXPATS: l'effetto delle tragedie

Nonostante sia una scelta ragionevolmente basata sul nome del libro di Janice Y. K. Lee da cui è tratta, ovvero The Expatriates (2016), in italiano diventato “Expats - La vita delle altre”, Expats, la miniserie in sei puntate ideata da Lulu Wang per Prime ha per me un titolo completamente sbagliato, perché fuorviante. Che si tratti di espatriati che vivono a Hong Kong è incidentale, non è quello il fulcro delle vicende, ma il tema principale, come senza mezzi termini dichiarano in apertura, è come facciano a sopravvivere quelle persone che involontariamente hanno causato delle tragedie, come fanno a perdonarsi e a farsi perdonare e a mettersi il passato alle spalle, come gestiscono la responsabilità di quanto è accaduto, come continuano con il senso di colpa e con il desiderio di una vita alternativa, e quando si meritino la compassione. Il punto focale è l’effetto che le tragedie hanno sulla vita delle persone, e sottolineo tragedie, perché non c’è un momento di leggerezza che sia uno in questa produzione emozionalmente molto carica.

Siamo a Hong Kong, sullo sfondo di proteste che si sono verificate nel 2014, e le tre protagoniste principali sono Margaret Woo (Nicole Kidman), ora casalinga che ha lasciato temporaneamente il lavoro per seguire il marito Clarke (Brian Tee) all’estero, che ha tre figli; Hilary Starr (Sarayu Blue), una donna di origina indiana che è la migliore amica di Margaret e che ha il matrimonio con David (Jack Huston) in crisi, incerta se avere un figlio o meno, e che considera un’amica la sua donna delle pulizie, Puri (Amelyn Pardenilla); e Mercy Cho (Ji-young Yoo), una giovane coreano-americana neolaureata alla Columbia University, che è convinta che la sua vita sia maledetta, dal momento che glielo ripetono da quando è nata. Margaret, stizzita e un po’ gelosa del rapporto che Essie (Ruby Ruiz), la tata filippina dei suoi figli, ha con loro, decide di non portarsela dietro quando esce per fare un giro al mercato serale della città, ma coinvolge invece Mercy, che ha da poco conosciuto, e le affida il più piccolo dei suoi figli, Gus, che vuole vedere una bancarella un po’ più distante. Mercy per distrazione perde di vista per un momento il piccolo che scompare nel nulla. Segue la frenetica ricerca, vana, e a seguire la disperazione più totale di tutti i coinvolti. Mercy, anche, comincia una relazione con David.

La miniserie riesce a brillare lì dove mette il dito nella piaga di ciascuna delle tre donne protagoniste: l’agonia della madre che ha perso un figlio e diventa ossessionata dall’obiettivo di ritrovarlo, a scapito di tutto il resto, degli altri figli ad esempio, tormentata dal senso di colpa e nella speranza che sia ancora vivo ma contemporaneamente anche timorosa del sollievo che potrebbe essere saperlo morto rispetto alle possibili alternative; i rapporti conflittuali di Hilary con i genitori: con la madre rimane bloccata in un ascensore ed è l’occasione per un feroce scambio di prospettive, con la figlia che ha visto negli anni gli abusi del padre e che non vuole un matrimonio in cui deve accettare le amanti del marito; la deriva di Mercy, abbandonata a sè stessa, nonostante una madre che si offre di aiutarla, divorata dal senso di colpa e allo sbando su quello che è meglio fare, con un passato che torna sempre a galla. Sentimenti crudi, spogliati di ogni finzione.

Sono notevoli anche gli aspetti in cui si riflette sulle classi, il denaro e il privilegio che queste donne danno per scontato, in cui si vede il loro egocentrismo: con nonchalance usano le persone al loro servizio nell’illusione che siano amiche, persone di famiglia. Lascia perfino a disagio. Durante i 90 minuti di “Central” (1.05), una puntata più lunga delle altre, ad essere al centro della narrazione sono proprio queste ultime, durante un tifone. Vediamo così che Essie, che videochiama il figlio nelle Filippine, vorrebbe raggiungerlo e finalmente smetterla di occuparsi dei figli degli altri, per dedicarsi al nipotino e, anche se non visto, è anche suo il dolore per la perdita di Gus, considerato tutto il tempo che gli dedicava; e vediamo Puri che scambia gossip con altre amiche sulle persone per cui lavora: Hilary la vede come un sostegno e incoraggia i suoi sogni di partecipare a una competizione canora, passando una serata insieme a sorseggiare del vino e a provare vestiti, ma sul dunque se ne dimentica. È chiaro come non sono nulla di più di staff domestico retribuito, a dispetto di qualunque dichiarazione in direzione diversa. Personalmente penso che sia anche normale, perché non è facile trovarsi dislocati in un Paese straniero, molto distante dal proprio, e aspettarsi che un espatriato possa intenderne facilmente le dinamiche socio-politiche o culturali anche sforzandosi, che voglia farlo preso dalla propria vita e che possa considerare qualcuno che ha assunto da poco tempo come una persona effettivamente significativa da un punto di vista emotivo. Troverei strano l’opposto. Quello su cui si fa luce è la mancata consapevolezza della realtà. Alla fine dei conti le protagoniste ignorano quello che non le riguarda e il contesto in cui si svolge, e non se ne rendono nemmeno conto, e forse in questo aspetto il titolo riesce ad avere un senso. In ogni caso questa produzione che medita sul privilegio, anche di fatto di potersi permettere l’inconsapevolezza, è pure stata oggetto di polemiche su questo fronte, accusata di essere sorda alla difficile situazione politica del Paese e di aver ricevuto dei permessi speciali per girare durante il lockdown per il COVID, evitando così restrizioni imposte ad altri.  

Nonostante momenti di grande forza, e una recitazione impeccabile da parte di tutte, piena di sottigliezze e contraddizioni, è nella coesione fra le varie parti che la narrazione è debole e non convince, e nonostante sia viscerale nel portare alla luce con onestà e credibilità tormenti e disillusioni, il tono greve alla fine risulta anche tedioso.  

lunedì 1 luglio 2024

BRIDGERTON: la terza stagione

Anche con la sua terza stagione Bridgerton si conferma una gustosa caramellina. Questa stagione mi ha convinta meno di altre rispetto alla coppia che era sotto i riflettori, Colin Bridgerton (Luke Newton) e Penelope Featherington (Nicola Coughlan), ma solo perché sono stati un po’ affrettati nel far sì che lui si rendesse conto dei suoi veri sentimenti, diversamente sono rimasta soddisfatta. E quante scene hot! Chi si sarebbe immaginato che una serie così mainstream e “di buoni sentimenti” (non siamo Game of Thrones, voglio dire) mostrasse scene a tre non con uno, ma ben due dei suoi leading men? Una era proprio con Colin con delle prostitute, e francamente non l’ho trovata particolarmente in linea con il personaggio, se non nella misura in cui lo si voleva far vedere ora smaliziato uomo di mondo. Potevano trovare un altro modo. L’altra era con Benedict (Will Tilston) e c’erano di mezzo i sentimenti e una storia vera e propria e in quel caso non mi è affatto dispiaciuta, anche perché per come era stato visto finora quel personaggio che non mostrasse attrazione anche per gli uomini mi era parso poco credibile. Audace, per quello che siamo abituati a vedere.

In primis bisogna riconoscere a Shondaland, che produce la serie, di aver saputo dimostrare con i fatti che non è poi così difficile realizzare la diversità sullo schermo se proprio lo si vuole. Inclusività e varietà basta volerle. Quand’è l’ultima volta che si sono visti tanti neri e bianchi insieme a pari merito? Evviva. E si è fatto lo stesso con la forma corporea. Non si non può notare l’ovvio. Parte del personaggio di Penelope è narrativamente condizionato dal fatto che è grassa.

Quando una giornalista ha commentato sul coraggio che la Coughlan ha avuto a mostrarsi senza veli, lei brillantemente ha risposto: "Sapete, è difficile, perché penso che le donne con il mio tipo di corpo, le donne con un seno perfetto, non si vedono abbastanza sullo schermo. Sono molto orgogliosa di far parte della comunità dei seni perfetti. Spero che vi piaccia vederli". È stata una battuta intelligente che ha creato ilarità, ma sappiamo ben tutti, anche perché in passato ha sempre riferito il fatto che le facevano bodyshaming grassofobico, che vedere una protagonista con la sua mole oggetto del desiderio romantico e sessuale maschile, al pari di chiunque altra, non è qualcosa che si veda di frequente. Ed è fantastico che ci sia.

La prima scena di sesso fra Pen e Colin (3.05) è stata davvero magnifica. Hanno mostrato lei nuda frontalmente dalla vita in su e lui totalmente nudo da dietro. Sono stati spinti, ma hanno saputo calibrare alla perfezione anche il consenso e il fatto che lei era vergine e “ingenua” – per tutte e tre le sorelle Featherington è stato reso chiaro che non se ne intendessero molto su quello che significasse andare fino in fondo, cosa giocata anche sull’ilarità, quando al “sorellastre di Cenerentola” della situazione dovevano cercare di rimanere incinte, ma era evidente che non mettessero in pratica attività consone all’ottenimento del risultato. Quindi un applauso su questo fronte.

E poi, per rimanere in tema di peso, la protagonista di questo arco non è mai stata definita solo dal suo aspetto fisico e ridotta a quello e basta. Certo, nessuno si aspettava attirasse un marito, ed è sempre stata la “carta da parati” dei balli, ignorata e sottovalutata da tutti;  anche per questo era potuta diventare la temuta scrittrice Lady Whistledown, che fa tremare l’alta società con i suoi gossip veritieri, e spesso impietosi. Penelope è sempre stata un personaggio a tutto tondo: tenera, amabile, intelligente, arguta, osservatrice, attenta, generosa, ma a tratti anche crudele. Attraverso il suo alter ego ha potuto prendersi delle rivincite, ma in primis esprimere se stessa.

Inizialmente il futuro sposo non gradiva questa sua attività, per il fatto di esserne stato ferito in passato, ma anche per invidia, come ha ammesso in seguito. Messa alle strette nello scegliere fra l’amore e la sua attività di scrittrice, che le dava potere e indipendenza, non è stata pronta a rinunciare alla seconda per il primo. Ha combattuto per mantenere questa parte della sua identità. Quando Cressida (Jessica Madsen) per un momento (3.05), mentendo, confessa di essere lei la temuta penna, Penelope se ne sente ragionevolmente usurpata. Alla fine, al centro dei riflettori di una grande festa da ballo ammette la verità e se ne prende oneri e onori (3.08).

Negli ultimi anni vari articoli hanno esaminato come il gossip abbia avuto un ruolo importante nelle relazioni sociali, per le donne in particolare, a cui non era permesso molto altro, e come sia stato spesso vilipeso proprio perché associato a loro, svilito a chiacchiera oziosa e demonizzato anche per il ruolo di solidarietà fra loro che creava. Sempre più studi lo esaminano non necessariamente come arma in negativo ma come strumento di potere sovversivo femminista.

In Bridgerton si è ragionato con leggerezza sulla condizione della donna e sul fatto che poter spettegolare significa poter avere una voce. In questa stagione si è parzialmente riabilitata la figura negativa e macchiettistica della madre di Pen, Portia Featherington (Polly Walker). Parlando con lei, la figlia si chiede che cosa ne sia dei suoi sogni se rinuncia alla sua scrittura. L’amara replica è stata “le donne non hanno sogni, hanno mariti”, con la conseguenza che una volta sposate sono i sogni dei mariti a diventare i loro. Se ci si crogiola nella fantasia della storia romantica e del vissero per sempre felici e contenti, non ci si limita alla favola da romanzo rosa, ma si mostra anche la verità della spietatezza del “mercato matrimoniale”, come viene chiamato senza mezzi termini, dove il valore della donna è solo legato al suo essere “sposabile”, nulla di meno romantico. Il personaggio di Cressida, che pure un po’ di backstory ha reso più umano e tridimensionale, è pure visto in quella prospettiva. Tanto zucchero e qualche pilloletta, insomma.

Come sempre ci sono stati costumi e  scenografie da sogno, e ci si può lamentare di storyline secondarie e scene riempitivo occupate da altri personaggi che hanno tolto spazio alla coppia, a cui un po’ più di tempo insieme non sarebbe guastato, e ci si sarebbe avvantaggiati di qualche episodio in più, se si escludono le considerazioni dei costi di produzione, ma al di là di molte critiche condivisibili, motivi per celebrare questo period drama che tanto buzz suscita ce ne sono anche al di là del semplice godersela come scacciapensieri.

mercoledì 26 giugno 2024

Un suggerimento: TIM GOODMAN su SUBSTACK

Se leggete questo blog, probabilità vuole che siate appassionati di televisione, o comunque vi interessi approfondire quello che guardate. Se anche conoscete bene l’inglese, vi invito a seguire Tim Goodman, su Substack, come io faccio con costanza.

Probabilità vuole anche, in realtà, che già lo conosciate essendo stato un critico televisivo per una ventina d’anni, dal 2010 al 2019 quello di punta di The Hollywood Reporter e in precedenza per  il San Francisco Chronicle, oltre ad aver scritto per molte altre pubblicazioni.  Ed ha anche insegnato nel dipartimento di Visual Studies del California College of the Arts come professore aggiunto dal 2006 al 2020 e Critica alla Graduate School of Journalism dell'Università della California, Berkeley, tutte cose che potete leggere sul suo curriculum. Io indubbiamente l’ho menzionato in più di un’occasione.

Riesce ad essere estremamente profondo, ma in un modo anche rilassato, e di lui apprezzo moltissimo quello che è espresso nelle righe a seguire, che traduco, che risalgono all’estate scorsa, ma che ha riproposto proprio in questi giorni (qui in originale):

"Non esistono serie televisive perfette, né dovrebbero cercare di esserlo. Tutte le più grandi hanno episodi difettosi in quasi tutte le stagioni, ma mai un'intera stagione che sia stata considerata brutta, o addirittura mediocre (sono un professionista e su questo potete litigare con me più tardi). Se credete nel wabi-sabi, come me, allora tutte le cose veramente belle hanno dei difetti e a volte i difetti contengono la bellezza. Ma in una conversazione strettamente incentrata sulle serie televisive, a volte bisogna amare una grande serie anche se i suoi difetti ci infastidiscono o ci deludono.

I mondi delle lagnanze e della delusione sono (purtroppo, ma questo è un altro discorso) terreno comune per i critici. Parte del lavoro consiste nel trovare i difetti e rivelarli. In teoria, questa abilità ha un valore per la società, perché aiuta le persone a capire cos'è la grandezza e perché, illuminando così contemporaneamente ciò che è meramente buono e perché. (È tutta un’altra questione stroncare le cose veramente orribili, ma io sostengo, o sostenevo, che ci sia un valore anche in quello).

È chiaro che non riesco a spegnere il mio cervello critico tanto spesso quanto vorrei. Ora evito semplicemente le cose brutte (a meno che non mi piaccia la loro bruttezza) e per il resto non ne parlo. Apprezzo gli sforzi artistici buoni e molto buoni, anche se non sono all'altezza di ciò che un critico potrebbe definire grande.

È tutta un'altra impresa amare una serie che azzecca molte cose, ma che inciampa anche quando spereresti che non lo facesse. A volte i passi falsi sono determinanti. A volte sono, beh, diciamo solo sfortunati. E si va avanti. Al giorno d'oggi, sono più interessato al motivo per cui sono disposto ad andare avanti e a continuare ad abbracciare qualcosa quando fallisce. Se questo vi sembra strano, beh, probabilmente non siete dei critici (e siatene riconoscenti). In passato, troppe volte un'ottima serie è stata vicina alla grandezza, ma continuava a commettere degli errori banali, degli errori di valutazione privi di logica, e io non riuscivo ad abbracciarla completamente. (Il che, se ci pensate, è un modo poco gioioso di vivere la propria vita - ed è per questo che ho detto che dovreste essere grati di essere solo degli spettatori attenti e sagaci, con una reale empatia e senza il tempo di serbare rancore o di essere delusi dalle cose che guardate, invece di essere dei critici – passate oltre, perché siete degli esseri umani normali)”.

Oltre al fatto che penso che le sue parole siano sagge, anche per le relazioni umane in generale, abbraccio io stessa questa filosofia.

Sia come sia, davvero ve lo caldeggio. E non parla solo di televisione, ma anche di cinema, musica, e della vita in generale.

Potete tornare a ringraziarmi in seguito per il suggerimento.  

sabato 22 giugno 2024

Libri e serie TV: sono stata ospite di BOOKATINI


Con mia grande gioia sono stata ospite di “Bookatini”, il podcast per chi è ghiotto di libri, realizzato da Tania Da Ros (mia sorella, nota anche come Libridine) e Francesca Vedovelli, una cara amica.

La puntata a cui ho partecipato, la numero 78, è stata dedicata ai libri da cui sono state tratte delle serie TV. Io ho parlato di The Handmaid’s Tale e di Normal People. Tania ci ha raccontato di Dexter, e Fra ha scelto Ripley.

È stata una gustosissima chiacchierata che vi invito ad ascoltare qui.

sabato 15 giugno 2024

CONSTELLATION: ambizioso, ma confuso

Constellation (Apple TV+) non è stata rinnovata per una seconda stagione: qualcuno ha avuto pietà. Non mancava di ambizione questa serie che presto (1.03) ha reso chiaro quale fosse il proprio concetto ispiratore, colonna vertebrale delle vicende, il principio di indeterminazione di Heisenberg. Peccato che sia stato svolto in modo molto confuso: ti aspettavi che progressivamente ci fosse maggiore senso e chiarezza, ma non arrivava mai. Spesso non si capiva chi era chi, e non mi considero una spettatrice del tutto sprovveduta. Poi si è scaduti in ingenuità risibili.

In questo thriller psicologico fantascientifico ideato da Peter Harness su un concetto di Sean Jablonski, Johanna “Jo” Ericsson (Noomi Rapace) è un’astronauta svedese che lavora per l’ESA sulla Stazione Spaziale Internazionale. Mentre sono impegnati in un esperimento chiamato Cold Atomic Lab (CAL), un oggetto li colpisce e il suo collega Paul (William Catlett) rimane ferito e muore. Jo esce in perlustrazione per valutare i danni e vede il cadavere di una cosmonauta russa. I colleghi sopravvissuti rientrano sulla Terra, lei invece rimane indietro per riparare il modulo di emergenza funzionante rimasto che, nonostante strani fenomeni a bordo, poi riporta a casa anche lei, dove la attendono con ansia il marito Magnus (James D'Arcy) e la figlioletta Alice (Davina Coleman e Rosie Coleman), ma dove desiderano conferire con lei anche l’eroe della NASA Henry Caldera (Jonathan Banks), che dirige l’esperimento che stavano conducendo, e Irena Lysenko (Barbara Sukowa), capo del volo della Roscosmos.

Tornata sul nostro pianeta però, la donna trova la realtà che la circonda e le persone intorno a lei diverse da com’erano e i fatti non sembrano collimare – la macchina di famiglia ha un colore diverso, la figlia non sa più parlare svedese, un collega dice di aver avuto una relazione extraconiugale con lei che lei ritiene di non aver mai avuto, il nome della vedova del suo collega è differente…-, viene messa in dubbio la sua stabilità mentale, almeno da alcuni, e le vengono somministrati dei farmaci contro quelle che apparentemente sono allucinazioni. Lei stessa non riesce ad essere sicura se il problema sia suo o meno. “La realtà è una cospirazione?”, recita la locandina.

È presto chiaro che esiste un mondo parallelo in cui ad essere morto non è il suo collega Paul, ma lei: Jo è il gatto di Shrödinger che è contemporaneamente vivo e morto, ma a causa dell’esperimento che stavano conducendo con il CAL in alcuni momenti il confine fra le due realtà è poroso: si hanno visioni dell’altra parte, che interferiscono con quello che accade, e delle due versioni della realtà, Jo sembra capitata in quella sbagliata. Anche sua figlia, particolarmente perspicace, si rende conto che quella che ha davanti non è la sua “mamma” o “mami” (la chiama in due modi diversi a seconda della versione in cui è). Anche di Caldera c’è un’altra versione, Bud, in cui non ha scritto un libro diventando una leggenda, ma è una sorta di fallito alcolizzato, e la stessa Irena ha vissuto lo stesso che sta passando Jo. C’è chi sa la verità, anche se non vuole dirla.

Come dicevo, ambizioso, ma estremamente contorto: le vicende si intuiscono, ma non si mai sicuri di sapere chi si sta vedendo, con il risultato di tanta confusione. Fra passato, presente e realtà parallele nello spazio e qui, i passaggi logici sfuggono e non in modo da stimolare una curiosità investigativa, ma in modo frustrante. Talvolta è bello lasciarsi trasportare dall’atmosfera, senza la necessità di comprendere ogni cosa. Non qui. La protagonista poi passa molto tempo in una baita in montagna immersa nella neve, ma poi le baite sono due, così come le figlie e lei cammina e cammina nella bufera fra una e l’altra. È un flashforward ricorrente, ma spostarsi su più timeline oltre che fra realtà diverse non è elettrizzante, rende solo più torbida la visione.  A bordo della stazione spaziale ha visioni di alcune delle realtà di casa. Tutto un minestrone. Il marito della protagonista, un insegnante di scuola elementare, pare un rammollito a cui la figlioletta di dieci anni deve spiegare le cose. Ad un certo punto la bimba esce dalla baita in piena notte e lui che cosa fa? Dorme. E passi, ma poi si sveglia, non la trova e va a cercarla riportandola indietro. Tempo di riprendersi e lei esce di nuovo non vista. Lui dov’è? Sta di nuovo dormendo. Ma andiamo! Risibile. E vedere un astronauta che si trova su una navicella di emergenza per il rientro che non si stacca e per farla funzionare si mette a tirare pugni al quadrante della sofisticata tecnologia, come faceva Fonzie per far partire la musica dei i juke-box, è stato imbarazzante. Mi sono sinceramente vergognata per loro. Non intendeva essere umoristico.

Forse era un potenziale film che è stato diluito impropriamente in una serie. Ci sono stati stimoli interessanti, riflessioni sull’orrore che può anche rappresentare lo spazio immenso, l’effetto psicologico che la distanza da casa può avere sulle persone, la sensazione di isolamento… il senso di disorientamento poteva avere un valore estetico di forma che rispecchia il contenuto, ma non può andare avanti ad oltranza, perché, anche complice il ritmo lento e le situazioni ripetitive, alla fine a nessuno piace rimanere perennemente nel vuoto.    

mercoledì 5 giugno 2024

BABY REINDEER: una potente storia di stalking e stupro sul protagonista

Atroce per quello che racconta, magnifico per come lo fa, Baby Reindeer (Netflix), è una storia di stalking e violenza sessuale, tratta dalla vita reale dell’attore/ideatore Richard Gaddis che dà il volto al protagonista. Non è una narrazione facile proprio per i temi trattati e la complessità emotiva con cui riesce ad affrontarli, ma è scritta in modo impeccabile sia nel suo outline che nel dialogo ed è recitata in modo altrettanto convincente. Il suo immediato, inaspettato successo è proprio dovuto al tam tam degli spettatori che ne hanno riconosciuto l’innegabile qualità. Quello che forse mi ha colpito di più, anche per la sua rarità, non è solo la tridimensionalità dei personaggi, guardati con empatia e amore, ma per la capacità di ammettere per sé stessi sentimenti e comportamenti profondamente conflittuali, con i loro risvolti autolesionisti.

ATTENZIONE SPOILER

Donald “Donny” Dunn (Richard Gadd) è un aspirante comico che lavora come barista al Heart, un pub londinese. Un giorno entra nel locale una cliente, Martha Scott (una Jessica Gunning già in odore di Emmy), che lui vede molto giù di corda, e le offre un tè. Lei, colpita dal gesto, comincia presentarsi lì continuamente lusingandolo e cominciandolo a chiamare “baby reindeer”, quindi “baby renna” – e nell’ultima puntata si spiega il perché di questo nomignolo. Comincia a mandargli centinaia di mail sgrammaticate al giorno e diventa la sua stalker. Nonostante lui scopra che lei è stata già condannata per simili comportamenti, accetta anche la sua amicizia su Facebook e il loro rapporto diventa sempre più complicato. Solo dopo sei mesi, quando ormai non ce la fa più e teme l’ossessione della donna, decide di denunciarla alla polizia. Martha, che si presenta con una sonora risata e una gioia aggressiva, ha chiari problemi psicologici, e Donny teme che possa mettere a rischio i suoi genitori e Teri (Nava Mau), la donna trans di professione terapeuta, di cui nel frattempo si è innamorato, la sua isola felice, che pure viene aggredita da una Martha gelosa, come pure lui stesso che finisce sanguinante. Nel ripercorrere quello che gli è accaduto, che poi racconta verbalmente in un crollo emotivo sul palco durante uno spettacolo (1.06), lo vediamo ricordare la violenza sessuale di cui è stato vittima (leggi infra), in un attorcigliarsi di eventi ed emozioni che sono difficili da districare l’uno dall’altro, imbevuti di odio per sé stesso.

Quello che è coraggioso è stato mostrare come questo ragazzo, molto sensibile, ha sentimenti che non sono solo generosi nei confronti di Martha. All’inizio ne prova pena e vuole aiutarla. È infastidito dalle sue attenzioni eccessive, ma contemporaneamente ne è attratto. Lei passa ore davanti alla fermata dell’autobus davanti a casa sua, si intrufola fra il pubblico nei suoi spettacoli comici, lo lascia perennemente senza tregua, vedendo fra loro una relazione che non esiste. Donny si vede costretto a cambiare casa. Martha è “una bomba ad orologeria nella sua vita”. Allo stesso tempo non è solo perché vede un’anima tormentata e infelice che le dà ascolto anche quando buon senso suggerirebbe di allontanarsene, ma in un qualche modo né è anche affascinato, trova conforto nelle attenzioni di lei. Lui si presenta come qualcuno che è sempre stato convinto che la realizzazione dei suoi sogni lo avrebbero condotto alla felicità, e constatare come non è facile raggiungerli lo delude. Da lei si sente visto e apprezzato, nonostante la sgradevolezza dei suoi approcci. Ne prova fascinazione, tanto da chiedersi, in un momento di allontanamento, se gli manchi: tutte le scene drammatiche, le attenzioni, la distrazione che lei gli permetteva. Martha lo vedeva come lui desiderava essere visto. Questa pulsante, tragica ma umana contraddizione è ammessa senza vergogna ed è il fulcro di ciò che la serie indaga.

Nel mettere a nudo il suo stato emotivo che lo ha condotto ad accettare simili attenzioni pur nella loro evidente pericolosità, di fronte alla domanda del poliziotto che gli domanda perché ci abbia messo così tanto a sporgere denuncia, ricorda quello che è accaduto anni prima (nell’ormai celeberrimo episodio 1.04). Era a Edimburgo per un festival in cui sperava di farsi notare come comico, e lo sceneggiatore di uno show televisivo di successo, Darrien (Tom Goodman-Hill, Mr Selfridge), che aveva lavorato con alcuni dei nomi che più lui rispettava nell’ambiente, lo aveva incoraggiato ed avevano cominciato a trascorrere molto tempo insieme. Poi la svolta: Darrien lo ha iniziato a droghe pesanti e poi ha abusato sessualmente di lui mentre era privo di coscienza o semi-svenuto. Insicurezza, rabbia, confusione sulla propria sessualità, fantasie omicide nei suoi confronti non hanno impedito al nostro protagonista di tornar da lui ancora e ancora, finché questi di punto in bianco non è sparito; nel presente “baby-renna” sente il senso di colpa per non averlo denunciato, quando ora invece si appresta a denunciare Martha.

Ho trovato grandiosa, e ragionevole, la reazione emotiva del personaggio, anche se c’è chi ha criticato la rappresentazione di un uomo gay maturo come predatore che fra grooming di un giovane ingenuo, “convertendolo” all’omosessualità, visto che è in seguito a questi incontri che Donny mette in dubbio le proprie preferenze, si domanda se ora sia bisessuale o che cosa, ed è solo in seguito a questi eventi che, dopo molti incontri sessuali toccata e fuga con chi capitava, scopre la gioia di nuovo con Teri. Io non ci do questa lettura, nel senso che non credo che il programma voglia alludere al fatto che sia lo stupro che ha fatto cambiare preferenze sessuali a Donny, ma come ogni esperienza sconvolgente, gli ha fatto mettere in dubbio e rivalutare quello che credeva vero per sé stesso. Ho pure trovato importante che mostrassero come quando sono gli uomini a venire molestati o aggrediti sessualmente, sì dà loro meno peso di quando non accade a una donna. La polizia non si preoccupa più di tanto di una donna stalker, finché lui non li costringe a cercare il suo nome sul web e non si accorgono che in effetti ha numerosissimi precedenti ed è pericolosa.

Alla fine delle vicende Martha si dichiara colpevole e viene condannata a 9 mesi di carcere e viene emessa nei suoi confronti un’ordinanza restrittiva della durata di cinque anni. La gente sul web ha cercato freneticamente di sapere chi fosse Martha nella vita reale, con tutti i potenziali rischi della questione, e c’è stata un’intervista valutata di dubbio valore etico, in cui si è fatta avanti una donna che dice di essere lei. Ugualmente molti hanno cercato di individuare chi fosse in corrispondente di Darrien nella vita reale: un’innocente è stato accusato, tanto che l’autore è dovuto intervenire per scagionare il malcapitato. Risvolti deprimenti.  

Ho trovato ancora una volta coraggioso chiudere con quello che è stato un po’ un tema ricorrente della miniserie, per quanto possa lasciare a disagio, ovvero che Donny in fondo vede Martha come sé stesso in uno specchio, con le proprie insicurezze e timore per il futuro. Quando qualcun altro ti vede veramente questo crea connessione, e quello che ha portato il protagonista a flirtare con una situazione così pericolosa senza tranciarla in partenza è stato proprio questo auto-riconoscimento. Nella series finale finisce in un bar e, specularmente a quanto era accaduto fra lui e Martha, lui si trova seduto sullo sgabello a ordinare qualcosa, ma non ha un centesimo con sé. Il barista, che lo ha visto piangere un momento prima e si è accorto del suo stato, gli offre a sue spese la bevanda. Esattamente quello che ha fatto lui con Martha. La corrispondenza è un’illuminazione per lui, una volta di più. Una chiusura impeccabile, come la serie tutta.

sabato 25 maggio 2024

IL PROBLEMA DEI TRE CORPI: deludente

Sono sinceramente rimasta delusa dalla trasposizione televisiva de Il problema dei tre corpi (Netflix), tratto dall’omonimo romanzo vincitore dell’Hugo Award di Liu Cixin, che avevo letto in prospettiva, e che era stato annunciato come un banchetto visuale. David Benioff e D. B. Weiss, che già avevano portato sul piccolo schermo Il Trono di Spade, e Alexander Wo sono anche stati convincenti nell’adattare quello che apparentemente era inadattabile, come ha ben osservato Variety per quanto ne esista già una versione cinese, Sān tǐ, nome che fa riferimento agli alieni menzionati nelle vicende.

L’incipit, piuttosto violento, ci vede all’epoca della rivoluzione maoista nella Cina degli anni Sessanta, quando la brillante astrofisica Ye Wenjie (Zine Tseng da giovane;  Rosalind Chao da adulta) viene mandata in un campo di lavoro in Mongolia dopo essere stata costretta a vedere il padre, un professore universitario, picchiato a morte davanti a un pubblico per il quale doveva servire da esempio, e poi, grazie alle sue grandi capacità, trasferita in una remota stazione che cerca il contatto alieno, contatto che lei avvia all’insaputa degli altri, con una razza, i Trisolariani conosciuti come Santì, che spera possano finalmente salvare la razza umana, ma che in realtà vedono noi alla stregua di insetti.

Nei tempi odierni, lei li attende con ansia, con il fervore di una profetessa, e come lei anche Mike Evans (Jonathan Pryce, Il Trono di Spade, The Crown) un attivista ecologico miliardario. In Inghilterra, sua figlia Vera Ye (Vedette Lim), diventata una apprezzata insegnante di fisica, si toglie la vita. Non è la prima scienziata a farlo, e un investigatore della Strategic Intelligence Agency, Clarence "Da" Shi (Benedict Wong), si mette ad indagare e fa rapporto a Thomas Wade (Liam Cunningham, Il Trono di Spade) a capo di un'autorità segreta il cui obiettivo è preservare l'umanità. Viene così in contatto con ex-studenti della docente, “i 5 di Oxford”, fra loro diventati amici, anche lì dove si sono persi di vista e si ritrovano ora al funerale della mentore scomparsa.

Si tratta di Augustina “Auggie” Salazar (Eiza González), che si occupa di ricerca all’avanguardia sulle nanofibre, che comincia a vedere uno strano conto alla rovescia, e riceve l’ultimatum di interrompe quello che sta facendo; Jack Rooney (John Bradley, Josh Bradley, Il Trono di Spade), che nel frattempo ha fatto i soldi come imprenditore del campo degli snack e si gode la vita - lui è un po’ il comic relief in una serie dove di umoristico c’è ben poco; Jin Cheung (Jess Hong), che presto viene coinvolta in un gioco di Realtà Virtuale di tecnologia estremamente avanzata che le permette di venire in contatto con la razza aliena che cerca nella Terra la soluzione ai propri problemi, legati a quello dei tre corpi del titolo (un effettivo problema della fisica); Saul Durand (Jovan Adepo), un assistente di ricerca; e Will Downing (Alex Sharp) che sta morendo di cancro al pancreas ed è innamorato di Jin, sebbene lei non ne sia consapevole.

Lo show ha fatto un egregio lavoro nel semplificare un testo di fantascienza un po’ nerd nella misura in cui, scritto da un autore che è un ingegnere informatico, è infarcito di molti concetti di fisica teoretica e matematica. I passaggi meramente esplicativi sono tenuti al minimo e ben integrati. Anche chi non fosse una cima in queste materie riesce a seguire tutto con estrema facilità. E rilevo con interesse quello che ha fatto osservare Evan Lambert su Thought Catalog, che loda gli autori televisivi per aver dato maggiore equilibrio a un testo maschilista: “Pubblicata dal 2006 al 2010, la trilogia dei Tre Corpi […] non andava sul sottile nel sostenere che le donne non erano in grado di guidare il mondo impedendone la distruzione. Come da tradizione cinese, l'autrice del romanzo Liu Cixin sostiene in ultima analisi la tesi dello yin e dello yang, suggerendo che le donne hanno bisogno della logica degli uomini per trovare un equilibrio e temperare la loro irrazionalità. Inoltre, Cixin trasforma il personaggio dell'ex rivoluzionaria Ye Wenjie in una quasi-cattiva […] viene dipinta come una persona inaffidabile, incompetente e irrazionale. In generale, Cixin non è timido nell'attribuire la colpa della distruzione della Terra a donne come Ye Wenjie e sostiene addirittura che la Terra dei suoi romanzi è condannata perché troppo ‘femminilizzata’”. Si legga il suo pezzo per approfondire, ma la versione televisiva riesce ad evitare il sessismo e la misoginia anche dividendo il protagonista maschio Wang Miao in due personaggi femmine, Auggie e Jin, e riesce anche a fare un adattamento culturale otre che più strettamente narrativo, anche perché c’è una globalizzazione con un cast multi-etnico.

La storia ha momenti di debolezza lì dove i personaggi sono poco caratterizzati (e qui in parte il problema è del materiale di fonte) e la cui funzione all’interno della storia è troppo telefonata: che senso ha avere uno di loro malato di cancro se non per fargli fare una sorte di potenziale deus-ex-machina finale, ad esempio? Le parti investigative, nonostante la bravura dell’interprete, sono state dozzinali, da formulaico crime-show della settimana. Sono trattati temi ambiziosi: antropologia, conquiste intellettuali, potere governativo, numerose questioni morali sull’universo e la sua esplorazione, limiti della scienza, e anche ecologia con la citazione di un testo seminale come “Primavera Silenziosa” di Rachel Carson e la remota minaccia di un’invasione aliena letta anche come metafora della questione climatica, anche nel momento in cui l’agire o non agire nel presente o il lasciare alle generazioni future il problema si pone come una questione sui cui prendere posizione. Nonostante ciò il dialogo è insignificante, dimenticabile, e c’è piattezza, e temo che questa sia una critica condivisa anche da chi ha mostrato più entusiasmo di me verso la serie.

Ci sono stati passaggi, come il disidratarsi e il re-idratarsi degli alieni, che mi sono sempre domandata come avrebbero potuto rendere, o il ridurre a fattine una nave, che mi hanno molto convinta e soddisfatta, così come le ricostruzioni della realtà del videogioco sono notevoli, si vede che non hanno badato a spese, ma al di fuori di quello nulla mi ha colpita nemmeno dal punto di vista visivo. Mi trovo a condividere quello che Phillip Maciak ha scritto su The New Republic nella sua eccellente recensione, ovvero che “il suo stile è anonimo, ancillare, opera di un autore aziendale più che di un'intelligenza artistica”, blando.

La serie è stata riconfermata per una seconda stagione con un numero di episodi imprecisati (pochi, si spera), ma giusto per chiudere le vicende.