venerdì 5 agosto 2011

BREAKING BAD - prima stagione: il cancro, la droga, il cuore umano


È la natura umana il fulcro di interesse della celebrata, straordinaria serie Breaking Bad, ideata da Vince Gilligan (The X-Files), passata gratuitamente in Italia solo su Rai4, ma comunque disponibile in DVD. Breaking Bad, che giocosamente utilizza i simboli chimici nello scrivere i titoli e alcune lettere nel nome degli attori, significa: 1 Opporsi all’autorità; 2. Sfidare le convenzioni; 3. Scatenare l’inferno. 

Siamo ad Albuquerque, in New Mexico. Walter White (Bryan Cranston) è un insegnante di chimica al liceo. È frustrato (gli studenti in classe a mala pena lo badano) e guadagna poco, tanto che è costretto ad avere un secondo lavoro in un’autorimessa, dove i suoi allievi lo deridono a vederlo lavare il loro fiammante macchinone. Gli viene diagnosticato un cancro ai polmoni, proprio nel pilot. Osservando i filmati delle retate del cognato, poliziotto della DEA, si rende conto che si fanno soldi facili a produrre metanfetamine, e così, intenzionato ad assicurare un futuro economicamente prospero alla moglie Skyler (Anna Gunn), incinta, e al figlio già grande Walter junior (RJ Mitte), disabile per una paralisi cerebrale, decide di associarsi a un suo vecchio allievo, Jesse Pinkman (Aaron Paul), che è in questo giro, e di produrla lui stesso. La competenza come chimico di certo non gli manca. Da qui comincia la sua trasformazione.

Se un’immagine per tutte dobbiamo scegliere, simbolica della condizione esistenziale del protagonista, dobbiamo prendere quella che ha finito per identificare l’intera prima stagione: Walter in mutande con in mano la pistola. Per cucinare le metanfetamine, nel camper che ha acquistato come luogo in cui farlo, si toglie i pantaloni e la camicia. Non vuole tornare a casa con i vestiti buoni che puzzano di droga. Una rocambolesca fuga nel timore di essere arrestati glieli fa volare via, e lui è lì, in mutande, con la pistola in mano ad aspettare tremante che lo prendano. È un uomo premuroso, quello che quando vede che la persona che ha catturato, e che lui e Jesse tengono prigioniera nel seminterrato, non ama la crosta del pane da toast nei sandwich che gli prepara (1.02), quando glielo porta una seconda volta (1.03) gliela taglia via. Vuole liberarlo, cerca delle ragioni valide per farlo, fa la lista delle motivazioni per cui sarebbe più giusto lasciar vivere il suo prigioniero, e quando alla fine si vede costretto a ucciderlo si piega in due per il dolore di quello che ha compiuto.

Che cosa è un uomo? Con flash del passato lo vediamo porsi questa domanda e ridurre l’essere umano ai suoi componenti chimici. L’uomo è ben poco. Possibile che sia tutto lì? L’anima? Queste riflessioni si intramezzano a lui che butta nel cesso con un secchio il liquame di un cadavere che hanno sciolto nell’acido (1.03). Scene crude. Che cosa dà umanità a un uomo? Le piccole angherie inflitte dalla vita e l’assenza di gratificazioni hanno reso pavido Water, un uomo perbene. Ora, con nulla da perdere, si trasforma. Perde a momenti la sua umanità e allo stesso tempo acquista vigore e forza – nell’essere per una volta considerato un “artista”, per la brillantezza della sua competenza; a letto con la moglie; nelle decisioni della vita… Walter si perde e si ritrova allo stesso tempo. Ed è narrativamente potente e doloroso.

Lo è anche nel mostrare quanto crudi e brutali sono gli effetti della chemioterapia sul suo corpo (1.06), distillati in dolorosi, rabbiosi dettagli presentati in un arguto parallelismo con il mondo della chimica spiegata alla lavagna da lui stesso come professore. È probabilmente la più accurata e approfondita storia di cancro che ho visto - in queste situazioni viene da dire “vissuto” perfino - in tanto tempo. L’ho trovato interessante anche dal punto di vista della costruzione narrativa personale del malato. Quando ho sentito nella trasmissione radiofonica americana Fresh Air David Rieff presentare il suo Swimming in a Sea of Death, il memoir di lui, figlio di Susan Sontag, che racconta della morte della madre per cancro, che ha avuto tre volte, libro che poi ho letto che riprende lo stesso concetto, lui ricorda come la madre nel suo saggio Illness as Metaphor attaccasse l’idea della “militarizzazione” delle condizione di malato, del parlare in termini di battaglia contro la malattia perché la considerava poco produttiva per un malato, per convivere con quello che comporta, tanto più se è una malattia contro cui si è destinati a perdere. Reiff ricorda come, almeno negli USA, la frase “Guerra al cancro” sia stata coniata negli anni ’70 da Nixon, in occasione della firma del National Cancer Act - così come (è interessante notare il parallelismo) sempre da Nixon negli stessi anni è stata coniata la dicitura “Guerra alle Droghe” - e di come sia un’immagine che tutt’ora è considerata un punto di riferimento, quasi una metafora di default quando si ha a che vedere con malattie gravi. È una metafora adeguata sotto molti aspetti. Come persona da lungo malata io stessa (come si può leggere dalla mia nota personale) ho riflettuto molto sulla sua efficacia e su possibili alternative. La Sontag parlava più in termini di “cittadinanza” di malato – “La malattia è il lato notturno della vita, una più onerosa cittadinanza” è, nella mia traduzione, l’incipit del sopraccitato saggio. Qui mi pare che almeno in parte si costruisca una metafora differente, e ritengo che anche rispetto al significato della vita sia utile a re-inquadrare il problema da una prospettiva originale. Ed è solo naturale che i contenuti che una persona conosce meglio finiscano per informare il modo in cui quella persona costruisce la propria realtà, quindi è solo naturale che per un chimico si veda il cancro in termini di reazioni chimiche. È tanto brillante, quanto semplice e sensato.

Storie di cancro poi negli anni ne ho viste molte, ma se scavo nella memoria, se escludo la storia di cancro al testicolo di Brian Kinney nel Queer As Folk americano, mi eludono esempi di uomini malati che fossero protagonisti delle vicende (recentemente Men of a Certain Age ha avuto Manfro con il cancro al colon, ma è un personaggio marginale), quando invece senza troppo sforzo galleggiano sulla superficie della memoria molti esempi di storie che riguardano donne, dalla più classica di cancro alle ovaie di Nancy in thirtysomething, a quella coraggiosa di Dana che soccombe alla malattia in The L Word, a quella di Kitty in Brothers and sisters, a quella di Izzie in Grey’s Anatomy, a quella di Samantha in Sex and the City, o  a quella di Cathy che annuncia nel titolo “la grande C”, The Big C, appunto, o alle molteplici delle soap (Bert, Maureen, Lillian, Reva in Sentieri; Monica, Paige, Emily, Alexis in General Hospital…). Il binomio donna-malattia è molto più comune che non quello uomo-malattia e lo star male è in qualche modo, credo anche storicamente, considerato più appannaggio del mondo femminile, per stereotipo, cosa ingiusta per entrambi i sessi. Coraggioso perciò che sia un uomo il protagonista malato di cancro.

Il programma, come suggerisce Stan Beeler, è “una tragedia basata sulle inadeguatezze del sistema sanitario americano”, ed è una meditazione sulla natura umana, come dicevamo all’inizio, e sui confini di moralità e legalità. L’umorismo macabro poi, che vena qui e lì a serie, non fa che dare ulteriore spessore al dramma fisico e morale a cui si assiste. La cinematografia poi è usata a momenti come uno specchio: è intensa, carica di colori squillanti, quasi psichedelici, in uno sfondo paesaggisticamente arido.

Bryan Cranson è eccezionale nel ruolo: fiaccato dal cancro, derelitto, distrutto e umano, anche nelle situazioni più disumane e crudeli, o dove speranze e umiliazioni (della carne e dello spirito) e delusioni si rincorrono (come nella impeccabile 1.05 – al party di un amico prima e poi su una poltrona di fronte alla famiglia che vuole convincerlo a sottoposi alla chemio che inizialmente rifiuta). Davvero eccezionale. Provo affetto per l’attore, che stimo da sempre, per il suo ruolo in Quando si ama (Loving in originale), dove pure recitava il ruolo di un insegnante, di recitazione, in quel caso. Era Douglas Donovan, irlandese di una delle famiglie principali della soap. Prima lo abbiamo visto nel ruolo di fidanzato tradito da Merrill, che gli preferisce Roger, e che deve tenere a distanza le attenzioni dell’allieva Lorna, poi nella sua storia con Edy Lester. Ha avuto un ruolo importante per i primi anni del programma, quando a scrivergli il materiale erano penne di prim’ordine come Douglas Marland e Patrick Mulcahey. Poi lo abbiamo visto snobbato troppe volte nel ruolo comico di Hal in Malcom in the Middle. Ora però sta davvero dando il meglio di sé nel ruolo di una vita in una carriera molto ricca. Ti strazia ed è mozzafiato mentre ti trascina nei complicati meandri di un cuore umano.

2 commenti:

  1. ottima e approfondita analisi per una serie grandiosa!
    la prima stagione per me è molto buona, ma poi cresce ancora. la terza è stata eccezionale e la quarta appena iniziata promette benissimo...

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  2. Grazie. :o) Io, sempre inseguita da tremila cose da vedere, vergognosamente sono indietro, ma pian pianino mi metterò in pari. Sono contenta di sentire che per te va in crescita, anche se sembra impossibile che possa superarsi. Già così è ottima.

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