venerdì 30 maggio 2014

TRUE DETECTIVE: la prima stagione

 
Peccato per gli ultimi cinque minuti della prima stagione di otto puntate: imbarazzanti e un tradimento dei personaggi. E peccato per l’ultima puntata in generale, abbastanza deludente ad esclusione di alcuni passaggi. True Detective rimane una grande serie che ha saputo reinventare un genere.
Protagonisti sono due detective della polizia della Louisiana, Martin Hart (Woody Harrelson) e Rusty Cohle (Matthew McConaughey). La serie, antologica,  per cui in stagioni successive ci saranno altri personaggi e altre vicende, procede fra salti temporali fra il 1995 – quando i due erano partner impegnati nell’investigazione della morte di una giovane donna trovata nuda e legata ad un albero in una posizione particolare - e il tempo presente, quando vengono interrogati da poliziotti, Gilbough (Michael Potts) e Papania (Tory Kittles), intenti ad investigare su un caso simile che immaginano collegato: Hart ora lavora nel settore privato e Cohle sopravvive a elevate dosi di alcol.
La serie ha colpito ed entusiasmato la critica per molte ragioni. Prima di ogni cosa ha un denso senso filosofico (quello che ritengo tradito dal finale della serie), sostenuto da una prosa tersa e tesa. Nel pilot Rusty, in una conversazione col collega che cerca di conoscerlo meglio, dice:       
“Guarda, mi considero un realista, va bene? Ma in termini filosofici sono quello che viene chiamato un pessimista. (…) Penso che la coscienza umana sia un tragico passo falso nell’evoluzione, siamo diventati troppo auto-consapevoli. La natura ha creato un aspetto della natura separato da se stessa. Siamo creature che non dovrebbero esistere per legge naturale. (…) Siamo cose che hanno l’erronea convinzione di avere un io, una secrezione di esperienza sensoriale e sensazione, programmata con la totale sicurezza che siamo ciascuno qualcuno, quando nei fatti tutti sono nessuno. (…) Penso che la cosa onorevole da fare per la nostra specie sia rinnegare la nostra programmazione, smettere di riprodurci, camminare mano nella mano verso l’estinzione, un’ultima mezzanotte. Fratelli e sorelle che rinunciano a un affare iniquo. (…)  Dico a me stesso che sono un testimone. La vera risposta è che ovviamente è la mia programmazione e manco della costituzione per il suicidio”.
Questa dichiarazione definisce un po’ il tono della serie, la cui sigla richiama fortemente quella di True Blood, solo in una versione più meccanico-industrial-urbana. Nella citazione io ho tagliato le parti di Martin, che non crede alle proprie orecchie, e lo scambio risulta di fatto anche umoristico. Il difficile rapporto fra i due e la loro individualità, prima ancora del caso su cui indagano, sono sotto i riflettori: Hart padre di famiglia con amante a latere, che la moglie  Maggie (Michelle Monaghan) finisce per lasciare; Cohle lupo solitario che ha una figlia morta piccola nel suo passato. La recitazione è impeccabile.
Un altro aspetto notevole della serie ideata da Nic Pizzolatto è un tocco vagamente artistico della visione (che è quello che salvo della puntata finale: i rami intrecciati che davano l’impressione di essere in un padiglione della Biennale di Venezia; il riflesso “Cristico” di Cohle sul vetro della stanza d’ospedale dove si trova, quasi un quadro). C’è dalla prima puntata. È dai tempi di Twin Peaks che non si è vista una morte tanto iconica, e al corpo ritrovato è stato dedicato tanto tempo d’osservazione, quasi davvero fosse un’opera d’arte: l’attuazione di una fantasia, pianificata, impersonale, un feticcio. Ci sono suggestioni metafisiche e tangenti religiose e letterarie (quella più esplicita a The King in Yellow di Robert W. Chabers – in proposito si legga, in inglese, qui – ma anche Aspettando Godot di Beckett o La Divina Commedia di Dante – in proposito qui). Una visione con un significato. Peccato, sul serio, per la fine.     

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