venerdì 29 maggio 2020

L'AMICA GENIALE - seconda stagione: intelligenza e cultura



È egregia su tutta la linea la trasposizione della quadrilogia de “L’Amica Geniale” di Elena Ferrante da parte di Saverio Costanzo per HBO, Rai Fiction e TIMvision. L’ho letta interamente e mi è piaciuta molto, e mi sta convincendo altrettanto nella sua incarnazione televisiva.

Non ho scritto sulla prima stagione, lo faccio sulla seconda, “Storia del nuovo cognome” (su Raiplay la si trova qui), ma non per parlarne in senso ampio. Preferisco concentrarmi su un aspetto specifico che era presente anche prima, ma che, con le protagoniste ora più grandi, si è focalizzato ora in modo più specifico. Si tratta di uno degli aspetti che ho apprezzato di più anche sulla pagina scritta e qui vedo trascritto altrettanto efficacemente. Non si cade in quello che è un errore fin troppo comune (Modern Family docet) di confondere e far equivalere intelligenza e cultura.

Chi ha letto i romanzi e visto la serie sa bene che la storia si concentra sulle vite e l’amicizia dall’infanzia alla vecchiaia di due donne, Raffaella/Lila ed Elena/Lenù – in questa tranche interpretate rispettivamente da Gaia Girace e  Margherita Mazzucco. Il titolo “L’amica geniale” non è chiaro a chi delle due faccia riferimento: alla brillante e talentuosa Lila, a cui non è permesso di continuare a studiare e rimane culturalmente rozza, o alla diligente e preparata Lenù, meno appariscente ma sgobbona, che finisce per ricevere una borsa di studio per frequentare la Normale di Pisa e prosegue con successo gli studi? L’ambiguità è ovviamente voluta e probabilmente il titolo fa riferimento a entrambe.

Le due si ammirano a vicenda e si spingono e proteggono a vicenda nella propria formazione, e si invidiano anche: Lenù vede in Lila quell’acume naturale che lei ritiene di non avere, Lila vede in Elena qualcuno che ha saputo affinare il proprio intelletto attraverso lo studio, qualcosa che lei agognava a fare e in cui è stata ostacolata. Cerca di rimediare come può leggendo il più possibile, ma non è sufficiente. La narrazione non cade nell’illusione o nel pregiudizio che essere dotati ed essere colti siano la stessa cosa, ma riflette in modo forte su come la cultura, e il confronto fra menti che studiano, sia importante nel raggiungere la pienezza intellettuale. Se non viene stimolata, se non viene coltivata, l’intelligenza viene sprecata.

“Eri destinata a grandi cose” dice a Lila con rammarico la maestra Oliviero (2.07), che dalle elementari ha cercato di stimolare e proteggere il futuro delle due sue migliori allieve; “Si è proprio persa, Lila. Che peccato” commenta Nino Sarratore (Francesco Serpico), dopo che lei se ne va infastidita per una conversazione dalla quale ritiene di non aver appreso niente da loro che studiano. Lila si sente inadeguata di fronte  a quelli che sono più istruiti di lei, vede che a certi concetti non arriva più nonostante i suoi sforzi di stare al passo. E Lenù pure si sente inadeguata di fronte a Lila perché riconosce una capacità di penetrare gli argomenti che nonostante la sua cultura non è altrettanto incisiva. Lei aveva ottenuto quasi quello che voleva, ma “Lila come sempre era senza quasi” (2.07) e lei si sente rimpicciolita dalle parole dell’amica. C’è rivalità fra le due, ma una rivalità che è ammirazione reciproca e reciproco desiderio di successo per l’altra che però non è piatto e amorfo, è tinto anche dall’amor proprio e dalle insicurezze personali. Viene reso in modo sopraffino.

Gli autori (uso il plurale per intendere tanto la Ferrante come fonte primaria, quando Costanzo come fonte televisiva) pongono un grande valore alla cultura, allo studio, ai libri. Lila spinge continuamente Lenù a impegnarsi e quest’ultima le presta continuamente i propri testi e le letture che la appassionano. Quando Elena riceve per la prima volta dei libri nuovi, non usati (2.03) la madre Immacolata (Anna Rita Vitolo) li annusa, quasi si commuove. 

Si indaga costantemente il ruolo dell’ambiente della formazione culturale di una persona, e su che margine ci sia per un riscatto. Un professore universitario scoraggia Elena dal tentare la carriera accademica in favore dell’insegnamento alle magistrali, per formare studenti futuri, dicendo che l’affinamento avviene in generazioni e che la natura non fa salti (2.08). Le parole vagamente sdegnose e demolitorie deludono la giovane donna. Ci si domanda, con la protagonista che si interroga sul fatto se sarà mai in grado di affrancarsi dal rione che l’ha vista crescere, che il padre una volta laureata le fa attraversare quasi in passerella per vantarsi orgoglioso, quanto di vero e quanto di pregiudizio ci sia in una posizione del genere. E  quanta intelligenza nella lungimiranza nelle maestre di quartiere e dei genitori che, pur nella loro ignoranza, hanno saputo vedere oltre e scommettere sulle capacità delle proprie figlie.  In parte c'è di fondo il perenne quesito di natura vs cultura, ma forse proprio perché non si mettono in contrapposizione, ma se ne guardano le interazioni, il ragionamento che ne esce è molto complesso.  

Nella vita di tutti i giorni, ho spesso incontrato riflessioni su questo tema, ma mai l’ho visto trattato con tanta sagacia, acume, e sottigliezza come qui. E la serie ha reso completamente giustizia al libro – ai libri, volendo. Geniale davvero.   

venerdì 22 maggio 2020

KIDDING: la seconda stagione

ATTENZIONE SPOILER IN TUTTO IL PEZZO. La seconda stagione di Kidding ha tenuto lo stesso tono della prima. Era difficile far uscire il protagonista Jeff (Jim Carrey) dalla distruttiva finale in cui aveva volontariamente investito il nuovo amore della moglie, da cui era separato ma ancora innamorato, Jil (Judy Greer). Come mattatore di un programma per bambini che ha costruito tutto il suo essere intorno ai concetti di gentilezza e amorevolezza, ammettere quello che ha fatto significa perdere tutto. Da sempre la serie ci ha fatto credere che l’alter ego televisivo di Jeff non è una finzione, lui crede sul serio in quei principi, e può scivolare in quanto essere umano, ma non li rinnega, si impegna per metterli in pratica, anche dove gli costa. Ed è così ancora una volta, nel corso di questo arco tutto: confessa quello che ha fatto alla donna che ama e all’uomo che ha ferito, gli dona una parte del suo fegato per permettergli di sopravvivere. La lezione, che non è una predica, è che essere brave persone non è facile, forse è la cosa più difficile di tutte, ma si cerca di esserlo perché è un modo di rendere il mondo migliore.

Molto di questo segmento è stato costruito sui flashback di cui si è fatto un uso ricostruttivo della memoria, ma anche legato a una storia in cui il figlio di Jeff, Will (Cole Allen), desidera tornare nel passato, e si auto-convince che è possibile farlo. Il senso ultimo che si è voluto trasmettere è che fermare il tempo non è possibile, ma lo si può rubare, ovvero ce lo si può dedicare a vicenda, decidendo di trascorrerlo con le persone che per noi contano – a questo proposito uno dei passaggi di montaggio più belli che abbia mai visto in molto tempo è proprio quello che vede Jil chiedere a Jeff se la colpevolizzi rispetto alla scomparsa dell’altro figlio, il gemello di Will, morto per incidente mentre era in macchina con lei: Jeff sembra ripercorrere con la memoria tutta la loro storia, fino al momento delle nozze. Sull’altare, quando chiedono a Jeff se voglia sposarla, si stacca, e la risposta di allora, “sì (voglio sposarti)” è la risposta di ora, “sì (ti incolpo)”. Davvero una costruzione notevole e inaspettata.

Ancora una volta si è insistito su alcune idee care alla serie. In primis quella sulla mascolinità: è importante essere considerati gentili, e questo non deve farsi equivalere con l’essere omosessuali (quello si chiama omofobia). Comportarsi in modo educato e con considerazione per gli altri è un valore. E mirare a ciò non significa negare le proprie pulsioni negative.  Tutti abbiamo più di due dimensioni e un lato oscuro, e dobbiamo imparare a conviverci e a gestirlo. La lotta umana di Jeff è proprio quella. Nella diegesi cerca di mettere in scena la realtà dolorosa del suo divorzio (2.05), anche se ha conseguenze in parte rovinose (il Mr Pickles della versione filippina, in un Paese dove divorziare è illegale, muore, e la produzione ne è ritenuta responsabile).

Un tema esplorato più a fondo in questo arco è stato quello della necessità di prestare attenzione ai bambini, la missione a cui il protagonista si è sempre dedicato con uno spirito di vocazione monacale (in proposito c’è perfino un incontro con il Dalai Lama in 2.10), la necessità di connessione, un avvicinamento umano diverso da quello potenzialmente tossico dei social media, qualcuno con cui parlare e qualcuno che stia ad ascoltare – e studia un giocattolo che abbia proprio questa funzione. 

Si insiste anche sul potere taumaturgico della fantasia: “la realtà è la malattia, la fantasia è la pillola”. Il padre Sebastian comincia ad avere problemi di contatto con la realtà, dovuti a un attacco di cuore e senilità,  e lui ed altri come lui vengono aiutati in una apposita clinica proprio nutrendo le loro fantasie, con l’ausilio di attori. Le fantasie personali sono importanti e le fantasie collettive sono un vero patrimonio. La sorella di Jeff Deidre, che è la creatrice dei molti pupazzi, divorzia dal marito che le sottrae i diritti alle sue creazioni, ora svendute per scopi per cui non erano state pesate. È una ferita personale, ma è una ferita per tutti.

Questa stagione di Kidding è sembrata più caotica della precedente, meno asciutta, perché ha affrontato forse fin troppe realtà insieme. Ha mantenuto però il polso saldo sulla sua etica di fondo, sulla malinconia che la contraddistingue e sul rifiuto di posizioni ciniche. Diversamente dalla scorsa volta, poi, ha terminato su una nota positiva, di speranza di una riappacificazione fra Jeff e Jil. Forse non ci sarà mai, ma si è rubato quell’attimo fuggente di speranza fino ad una eventuale prossima stagione. 

mercoledì 13 maggio 2020

AFTER LIFE: doloroso ed esilarante



Brilliant: così mi sento di definire After Life, la più recente commedia scritta e diretta da Ricky Gervais (Derek, The Office), con due stagioni di 6 puntate ciascuna, su Netflix. Magnifica e intelligente. Dolorosa e umoristica. Specifica e universale.

Tony Johnson (Ricky Gervais) è infelice e suicidario dopo la morte per cancro della moglie Lisa (Kerry Godliman). Doversi prendere cura della cagna Brandy è l’unica cosa che lo spinge a non farla finita. Lavora per il Tambury Gazette, un giornale che racconta le vicende della gente comune del luogo, il cui direttore è suo cognato Matt (Tony Basden). Arrabbiato con il mondo e senza peli sulla lingua, cerca di trovare un senso alla propria vita con l’aiuto delle persone che lo circondano, fra cui i colleghi: il fotografo Lenny (Tony Way), l’addetta alla pubblicità Kath (Diane Morgan), la giornalista neoimpiegata Sandy (Mandeep Dhillon), l’addetta alla reception Valerie (Michelle Greenidge).  

La serie è costruita su una sequela di situazioni ricorsive in cui vediamo il protagonista meditare sulla condizione umana nel confronto con gli altri: interagisce spesso con frustrazione con i colleghi; chiacchiera con una vedova più anziana di lui che si ferma sempre su una panchina davanti alla lapide del defunto marito, Anne (Penelope Wilton, Downton Abbey); va a trovare il padre Ray (David Bradley) - che soffre di demenza e metà delle volte non lo riconosce e si trova in una casa di cura -, dove fa amicizia con l’infermiera Emma (Ashley Jensen, Catastrophe); cerca un conforto che non arriva dagli appuntamenti con lo psichiatra (Paul Kaye) suggeritogli dal cognato, che pure si avvale dei suoi servigi professionali; inscena piccole scaramucce con il postino Pat (Joe Wilkinson), che gli legge sempre le cartoline e non gli infila mai la posta nell’apposita fessura sulla porta; socializza castamente con una prostituta, una “professionista del sesso” come precisa regolarmente lei, Daphne “in arte” Roxy (Roisin Conaty) e per un periodo con Julian (Tim Plester), uno spacciatore, anche lui vedovo affranto. Quando è da solo in casa cerca di consolarsi guardando al computer spezzoni di vecchi homevideo dell’amata perduta.

E poi ci sono gli incontri con le minute, insignificanti, spesso patetiche realtà quotidiane degli abitanti che chiamano il giornale perché si scriva una storia su di loro, a partire da Brian (David Earl), una accumulatore compulsivo, che fa di tutto per comparire sulle pagine della Gazzetta e finisce poi per essere assunto per distribuirla. Nell’assurdità spesso ridicola di questi incontri, che Tony affronta con molto sarcasmo, in realtà emerge tanto dolore e sofferenza e vede che ciascuno di noi cerca di andare avanti come può.

Come è un classico per Gervais, il suo ateismo, quasi un tabù nello stato della televisione attuale, è dichiarato senza compromessi. Offre invece e incoraggia un umanismo che crede nel prendersi cura gli uni degli altri e nel fare del proprio meglio per il prossimo fino a che la morte non mette fine a tutto. Filosoficamente forse è un po’ banale, nel senso che il fare del bene non sempre può essere di così facile definizione, ma che ci sia consapevolezza anche di questo è lapalissiano.

Tony dà del denaro a Julian che gli dice esplicitamente che non averlo è l’unica cosa che lo trattenga dal togliersi la vita. Se lo avesse, comprerebbe droga a sufficienza da farla finita. Lui tira fuori il portafogli e gli dà il necessario. Il giorno dopo l’amico è morto per overdose. Tony ha fatto bene? Ha fatto male? Quando accenna al cognato che sapeva delle intenzioni di Julian, Matt lo minaccia di non fargli più vedere il nipote, se non nega quello che ha appena confessato, lui perciò lo nega. La serie è quindi ben consapevole di avere morali ambigue e non si preoccupa di dare una risposta o una soluzione – ed è meglio così – non di meno invita ad essere il miglior sé che si può, informato dalle proprie conoscenze e capacità e sensibilità, nel quotidiano, nel piccolo, in gesti di premura che mostrano considerazione. Nel vedere che Tony riserva tante piccole attenzioni ala fine della prima stagione (1.06) alle persone che nella vita lo circondano, come non commuoversi? Quello è il senso ultimo e la bussola morale del programma.

Sotto i riflettori è un “paese-famiglia” vagamente stilizzato e fatto anche di tante persone “ai margini”, che sprizzano umanità. È un’esistenza dolente, si medita sul lutto, sui modi di affrontare il dolore, sulla solitudine. Nella citazione di Frost che si mette sulle labbra di Tony alla fine della seconda stagione, di una sola cosa si può essere certi, che la vita continua. La cosa essenziale è esserci, con reciprocità, nella certezza  che per essere felici  “avere qualcuno da amare è tutto. Non serve altro”.

Ho poi notato con piacere una cosa di cui già mi avevano avvertita. Come anche chi non mi conosce di persona può sapere leggendo la mia breve nota biografica indicata in questo blog, soffro di encefalomielite mialgica / sindrome da fatica cronica (ME/CFS). E se ora non sono più severa, sono stata grave e molto grave per parecchi lustri. Gervais in passato nei suoi spettacoli comici ha ridicolizzato l’invalidante patologia di cui soffro, e ha portato danno alla comunità dei pazienti per questo, aumentando lo stigma. È stato ferocemente criticato da noi attivisti e una clip del suo monologo su di noi è finito anche nel documentario sulla patologia “Unrest”, di Jennifer Brea. Qui, risolleva la questione e quello che ha deciso di scrivere ha il sapore di una scusa e di una correzione.

Il protagonista (2.06) è chiamato a intervistare un cinquantenne che si identifica in una bambina di 8 anni, e come tale si veste. La moglie insiste che sta avendo un crollo nervoso, lui la accusa di essere transfobica. La vicenda tutta, anche con una scena successiva con la figlia di lui e con una conversazione con Lenny, è costruita in modo molto calibrato e rispettoso della comunità trans, credo. In ogni caso la moglie dell’uomo ritiene che sia solo una delle sue tante fasi, come quando appunto, dopo aver visto un documentario sulla ME/CFS ha passato un anno credendo di averla. Lui replica che era stato un incubo, che era stanco tutto il giorno. E quando lei l’apostrofa dicendo che è una stronzata, lui la incalza facendo presente che c’è molto fraintendimento e cinismo sulla malattia. Lei a quel punto ammette che è vero, solo che lui non ce l’aveva. Sono state alla fine poche battute, ma che per me e per molti hanno voluto dire tanto.  
  
Gervais è graffiante e spiazzante come sempre, ma non disumano, anzi acutamente consapevole di quello che ci rende tutti vulnerabili e per questo davvero brillante, oltre che immancabilmente esilarante.   

martedì 5 maggio 2020

THE MORNING SHOW: una serie sul #metoo


The Morning Show (Apple TV+) è una serie che ci porta dietro le quinte di un fittizio programma di notizie mattutino, che è un incrocio, come è evidente dal titolo, fra i molto reali Good Morning America e The Today Show, e guardandolo è impossibile non pensare che sia ispirato almeno in parte alle vicende che hanno travolto il giornalista Matt Lauer, conduttore di quest’ultimo. 

A fare da padrona di casa di quello che è un amatissimo show per la fittizia UBA è Alex Levy (una Jennifer Aniston molto convincente nel ruolo). Quando Mitch Kessler (Steve Carell, anche lui efficacemente preso in prestito da ruoli precedentemente comici) viene accusato di cattiva condotta sessuale e perde il lavoro venendo epurato, si scoperchia una situazione spinosa. Fra le “prede” del conduttore c’è anche Hannah Shoenfeld (Guru Mbatha-Raw), una talentuosa collega che ha fatto carriera rapidamente. Le denunce di scorrettezza lasciano tutti scossi, compresa la produttrice Mia Jordan (Karen Pittman), che in passato aveva avuto una storia con lui. È un colpo anche per Alex, che, separata dal marito Jason (Jack Davenport), ha sempre avuto un rapporto molto stretto, anche amicale, con il co-conduttore. Tra l’altro viene a scoprire che intendono approfittare della situazione per sostituirla nel suo ruolo, cosa che avevano intenzione già di fare. Nonostante le resistenze iniziali di Charlie “Chip” Black (Mark Duplass), il produttore esecutivo, a sostituire Mitch a fianco di Alex in trasmissione è Bradley Jackson (una grintosa Reese Witherspoon), una reporter senza previa esperienza di questo tipo, molto diretta e impulsiva, voluta fortemente da Cory Ellison (Billy Crudup), un dirigente della rete che la vede come un’occasione per svecchiare il contenitore mattutino. Questo lascia scontento Daniel Henderson (Desean Terry) che contava di essere lui favorito ad ereditarne il ruolo. Il metereologo Yanko Flores (Néstor Carbonell) e l’assistente alla produzione Claire Canway (Bel Powley) hanno segretamente una storia, e alla luce dello scandalo si interrogano sulle ripercussioni sulle loro carriere se si venisse a scoprire.  

Tanti sono i temi che emergono nelle puntate: come gestire l’immagine di un programma e rilanciarlo dopo un momento di crisi; le concezioni sul ruolo del giornalismo e della televisione; le dinamiche all’interno di un network e le politiche aziendali in merito alla condotta dei propri impiegati; la cultura condivisa; l’apparenza versus la realtà; i sacrifici individuali; i rapporti personali dai confini non sempre così ben definiti; le connessioni umane che si creano nei luoghi di lavoro; il ruolo nel non detto nelle relazioni; l’inesperienza e la professionalità; il potere; la percezione sociale e l’opinione pubblica; l’equilibrio fra vita professionale e casalinga; la deontologia e l’etica; il silenzio e la condivisione; lo spazio delle donne nella realtà contemporanea; le modalità di costruzione delle narrative degli eventi; il peso degli aspetti economici e finanziari nelle scelte di ciascuno… Non c’è dubbio alcuno però su quale sia la tematica centrale sotto i riflettori: le molestie sessuali sul luogo di lavoro e il movimento #metoo.

Non sempre si ha l’impressione di trovarsi davanti a una serie rivelatoria e potente, con una scrittura nitida e graffiante, eppure in molti momenti lo è e quello che la fa comunque emergere, e fa capire che è meno ingenua di quanto non potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale, è che semplicemente gli autori si rifiutano di semplificare la questione. La si seziona tenendo conto di tutti. C’è una condanna netta verso i comportamenti predatori, siano consapevoli o meno, perché sono distruttivi: la season finale (senza fare spoiler) rivela quanto possano esserlo. Si dice chiaramente che anche lì dove c’è apparentemente consenso, il fatto che una persona si trovi in una posizione di potere nei confronti di un’altra (per età, per esperienza, per fama, per ruolo) il consenso può essere viziato. Si mostra e si dice come le molestie si riflettano sull’immagine di sé, sul proprio lavoro, sulla propria vita, di come ci si possa sentire violati, spaventati, inermi, usati, di come si possa trovare difficoltoso dire no e difendersi, di come nel parlare si possa temere di venire definiti da quell’evento…

Questo non significa che le posizioni personali siano solo bianche o nere, ma in molte gradazioni di grigio. C’è spazio per la collega che vedeva un clima insalubre ma lo attribuiva al fatto che è sempre stato un mondo al maschile; c’è spazio per il pubblico che rimane deluso e non vuole credere alla colpevolezza del proprio beniamino; per l’affetto della collega che condanna il comportamento, ma vuole comunque bene alla persona; per gli egoistici interessi personali che fanno agire in un modo che a posteriori si rimpiange; nel clima culturale esistente c’è spazio per riconoscere, anche se non si condona, che qualcuno non si possa essere reso conto di abusare del proprio ruolo, credendosi corretto, ingenuamente magari ma in buona fede; per chi vuole veramente una relazione sul lavoro, ma ne teme le conseguenze e le invasioni di privacy; c’è perfino spazio per chi quegli abusi li ha subiti e apparentemente ne ha avuto dei benefici secondari… in tutto questo non si giustificano una cultura e quegli atteggiamenti che permettono abusi, ma si guarda all’umanità delle interazioni. C’è molto su cui riflettere in questa creazione di Jay Carson. Nelle sfumature, nelle sbavature dei margini, il programma dimostra la propria grandezza.  
 
    
In modo tangenziale, osservo anche un altro dato, una curiosità, più che altro. Ho visto la season finale, originariamente trasmessa poco prima di Natale 2019, nel marzo 2020, in piena crisi coronavirus. Quello che non ho potuto non notare, e che probabilmente mi sarebbe passato indifferente se avessi guardato l’ultima puntata in un altro momento, è che quando le protagoniste interrompono la regolare messa in onda per prendere la parola, la notizia che stavano trasmettendo riguardava la quarantena di una nave per un misterioso virus. Alle loro spalle si leggeva proprio a caratteri cubitali la scritta “quarantena”. Ha fatto uno strano effetto, anche proprio in prospettiva della rilevanza che si può o può non dare a un’informazione in uno specifico momento.  La produzione della seconda stagione della serie è stata peraltro interrotta causa COVID-19.   

martedì 28 aprile 2020

THE BAKER AND THE BEAUTY: una rom-com leggera

Sono partita totalmente prevenuta nei confronti di The Baker and the Beauty, la commedia romantica sviluppata per la ABC da Dean Georgaris sulla base di una serie israeliana di enorme successo, Lihyót  Itáh, ideata da Assi Azar (e disponibile su Amazon Prime con il titolo The Baker and the Beauty). Pensavo che avrei guardato il pilot per liquidare il programma come una scemenza mielosa e cheap per ragazzetti. E invece già dalle prime battute mi sono ricreduta. Si prospetta come una storia d’amore che vuole iniettare un pizzico di magia in un contesto molto realistico.

Daniel Garcia (Victor Rasuk) è un fornaio-pasticcere di origine cubana che lavora presso il negozio di famiglia, Rafael’s Bakery, insieme a papà Rafael (Carlos Gómes) e mamma Mari (Lisa Vidal), che hanno un matrimonio felice, al fratello minore Mateo (David Del Río), che lavora anche come DJ con il nome di MC Cubano, e alla sorella adolescente Natalie (Belissa Escobedo), che fatica a legare con i coetanei. Daniel è fidanzato da quattro anni con Vanessa (Michelle Veintimilla), ma è incerto sulla loro relazione. Nel bagno di un ristorante incontra per caso Noa Hamilton (Nathalie Kelley), una famosa modella e imprenditrice australiana. Quando Vanessa propone a Daniel di sposarla e lui la rifiuta, Noa, delusa da una recente separazione, lo invita a unirsi a lei per la serata e si offre di realizzare tre dei suoi desideri. Lewis (Dan Bukatinsky, Scandal), il manager di lei, cerca di proteggerne l’immagine, ma è evidente che fra i due c’è un’intesa fuori dal comune.
  
Forse anche per ampio uso di parlato spagnolo, accanto all’inglese in originale, ma si ripensa a Jane the Virgin, così come vengono in mente anche Crazy Ex-Girlfriend (specie con la ex di lui che è quella che ci fa la figura peggiore) e Cenerentola (con un riferimento nella diegesi), anche se il titolo fa naturalmente pensare alla Bella e la Bestia, e la sorella di lei, nel casting quanto meno, richiama Euphoria.

È una rom-com leggera, con un pizzico di humor e qualche battuta fin troppo seria, sullo sfondo di Miami – in realtà il pilot è girato ad Atlanta e il seguito delle puntate a Puerto Rico - che riesce a costruire bene la relazione fra i due personaggi mostrando che cosa li attragga reciprocamente: lui è un bravo ragazzo che ama la famiglia e vuole fare la cosa giusta e che crede nei sentimenti, lei non teme di fare brutta figura buttandosi in nuove avventure ed è aperta a conoscere le persone, stanca a volte della vita sotto i riflettori. La distanza economica e di stili di vita rappresentano un ostacolo concreto. È uno dei più abusati dei tropi romantici, ma dal pilot ci sono delle buone premesse perché i protagonisti restino sempre più ammaliati e vinca il vero amore.

martedì 21 aprile 2020

DEVS: un thriller fantascientifico deludente


ATTENZIONE SPOILER. La concezione filosofica esplicitamente dichiarata nella diegesi di Devs (dell’americana Hulu) è il determinismo: non esistono eventi casuali, niente si verifica senza una ragione, ma tutto è determinato da qualcosa di precedente. “La vita è solo qualcosa che vediamo dipanarsi, come un film su uno schermo” (1.08). Il libero arbitrio è un’illusione.

Sulla base di questo principio, Forest (Nick Offerman, Parks and Recreations), CEO di una società chiamata Amaya, il nome della figlioletta morta prematuramente in un incidente d’auto, ha creato un misterioso, segretissimo progetto noto appunto come DEVS. Lui è come un messia, tanto che in realtà, come confessa in chiusura quel DEVS è da intendersi come DEUS, in realtà. Dichiara che non gli frega niente della sicurezza nazionale, trova che destinare risorse alle biotecnologie sia uno spreco, e che la fusione fredda sia l’equivalente dell’alchimia. Il suo è un obiettivo ben più ambizioso: grazie all’uso di computer quantistici vuole riuscire a visualizzare momenti del passato e del futuro (anche se per quest’ultima cercano di imporsi di non farlo). In parte ci riescono – individuano Cristo sulla croce (1.02) -, ma è tutto sgranato. A condividere il suo sogno c’è la progettatrice Katie (Alison Pill, Picard). E in questo reparto segretissimo dell’azienda lavorano anche l’anziano Stewart (Stepehn McKinley Anderson) e il giovane Lyndon  (Cailee Spaney – sebbene il personaggio sia un maschio, a interpretarlo è un’attrice ventiduenne, ma devo dire che se non lo avessi letto, non lo avrei mai capito sa sola, non me ne sono accorta alla visione). Quando l’ingegnere Sergei (Karl Glusman) viene ucciso da Forest, subito dopo essere stato assunto, perché voleva spifferare tutto al governo russo, la fidanzata di lui Lily, (Sonoya Mizuno), la principale protagonista, vuole andare a fondo di quanto accaduto. Per aiuto si rivolge al suo ex, Jamie (Jin Ha).

La serie è molto accattivante sul versante della cinematografia, della musica ipnotica pseudo-religiosa, e dell’uso del vuoto sia fisico che verbale nelle interazioni lente e pacate fra i protagonisti, già una cifra stilistica dell’ideatore, sceneggiatore  e regista Alex Garland nel suo film di maggior successo, Ex-Machina, che si evoca facilmente insieme a un pizzico di Westworld, Mr Robot, Osmosis e Counterpart. La recitazione è volutamente fredda, distaccata, mono-tonale, con i personaggi spesso persi a guardare nello spazio davanti a sé. Tutto è molto serio. C’è un mood di fondo molto specifico che lo fa percepire come un prodotto d’autore. Il problema per cui alla fine però delude è che è narrativamente e psicologicamente troppo grossolano.

La trama è forte e ben strutturata, ma rimane la sensazione che si sia “slongata la broda” di quello che, con il taglio del superfluo, sarebbe potuto essere un film, invece di una miniserie. La storia spionistica, anche con un finto senzatetto, Pete (Jefferson Hall), che osservava le vite di Lily e Sergei, era posticcia; le torture dell’addetto alla sicurezza Kenton (Zach Grenier, The Good Wife) inutili e inconcludenti. Ci sono stati passaggi di dialogo di cui vergognarsi. Alla fine della prima puntata l’ex di lei fa un lungo monologo in cui in pratica spiega per filo e per segno che cosa era capitato fra loro: è stata così smaccatamente pedestre che perfino io sarei riuscita a scrivere di meglio.

La conclusione lascia contenti a metà. Lily, a cui è stato mostrato il futuro, commette, a detta di Katie, il peccato originale, quello della disobbedienza, scegliendo di agire contro le previsioni. Sembra un momento “eureka”, ma se fosse stato così semplice non lo avrebbe fatto prima qualcun altro? Loro stessi non ci avrebbero provato almeno? Sembra poco credibile. Poi però, tutto si conclude comunque come da previsione. Strutturalmente mostrare a noi quello che è considerato inevitabile per poi inserire un atteso colpo di scena che in definitiva viene smontato dal fatto che gli eventi hanno comunque la conclusione anticipata è stato ben costruito. E la scelta terminale di una simulazione della realtà da parte del sistema operativo che si qualifica come una “resurrezione” dei protagonisti morti è appagante a sufficienza.

Se dico che è psicologicamente grossolana è perché se da un punto di vista della fisica quantistica viene messa in campo la teoria di De Broglie-Bohm e possibili critiche (l’esistenza di un multiverso, ad esempio), mostrando anche che se ne discute in un’aula universitaria, in campo di psicologia nemmeno ci si prova ad accennare a un paradigma non meccanicista. Vista la soluzione ultima per mettere in crisi il modello, forse una qualche lettura di base in campo psicologico-psicoterapico valeva anche la pena farla. Invece di ripeterci di continuo l’assunto di base, qualche argomentazione filosofica contraria in più, anche di tipo non specialistico, poteva essere abbozzata. Con la “scusa” del determinismo si azzera anche ogni interrogativo morale ed etico, che sia Forest che ammazza Sergei o Katie che istiga al suicidio Lyndon.

C’è un’ambizione intellettuale di fondo, che vuole indagare quesiti essenziali nella storia umana, ed è stimolante riflettere su quanto si mette in campo, ma alla fine questo thriller fantascientifico non ha lo spessore sufficiente per sostenere la ricerca oltre la premessa di base.  

lunedì 13 aprile 2020

EVIL: il paranormale declinato dai King



Ideato dai coniugi King (The Good Wife, The Good Fight, Braindead), Evil, dell’americana CBS, si addentra in un territorio in parte nuovo per la coppia, quello dei fenomeni paranormali, e se il risultato non è ai livelli di apice a cui ci hanno abituato, nondimeno si riconosce il loro stile e traspare uno spessore molto in sintonia con le loro corde e forse inusitato al genere.

Kristen Bouchard (Katja Herbers), una psicologa forense di New York, viene assunta da David Acosta (Mike Colter, The Good Wife) un aspirante sacerdote cattolico, per indagare su fenomeni paranormali e di possessione allo scopo di stabilire se siano veri o meno. Insieme a loro lavora anche Ben Shakir (Aasif Mandvi), un esperto di tecnologia. Lì dove David è il credente, Kristen e Ben gli fanno da contraltare come scettici pronti da dargli delle spiegazioni scientificamente fondate. Molti fenomeni hanno spiegazione, ma tanti altri no. Nel corso delle loro indagini Kristen si scontra con il viscido, minaccioso dottor Leland Townsend (Michael Emerson, Lost, Person of Interest), un esperto di occulto che ha connessioni con forze demoniache e che spinge gli altri a commettere azioni malvage. Si avvicina pericolosamente alla quattro figlie di Kristen, che lei cresce sola in assenza del padre via per lavoro, e stringe una relazione con la madre di lei, Sheryl (Christine Lahti).

Le puntate sono genericamente autoconclusive incapsulate in una trama orizzontale di sottofondo, vaga ma che via via che si procede si fa più pregnante (alla maniera già usata nelle precedenti creazioni dei King), con una accattivante mitologia (una mappa con simboli demoniaci, una veggente che parla per Dio, i “60”, il simbolo della capra, videogiochi che portano al limite della realtà…). La forza maggiore del programma sta nel riuscire a mantenere un buon equilibrio di scienza vs. miracoli, fra fede e sospetto, fra razionale e irrazionale in un modo che non si prende gioco dell’intelligenza dello spettatore, ma facendo leva sull’autosuggestione, così come questa coinvolge i protagonisti. La sensazione di minaccia è pressante, sublime e godibilissima quando è in scena Michael Emerson, che sa essere creepy come pochi, ma si crea anche attraverso altri canali, in primis attraverso le paure dei protagonisti che prendono una vera a propria forma: nel caso di Kristen si tratta del mostro George, tanto umoristico quanto minaccioso e obbrobrioso, e che emerge nei suoi incubi portando alla luce quelle preoccupazioni che la mente razionale tiene sedate.

Si riflette su concetti come la manipolazione, la superstizione, le teorie cospiratorie e si riesce in modo indiretto a fare delle riflessioni sulla natura del bene e del male e su come potenzialmente nascono e si sviluppano concetti distruttivi – penso alla mirabile storia di misoginia sviluppata con un personaggio secondario, attivamente spinto da Leland per propri fini a odiare le donne e a compiere atti di terrorismo (con una conclusione inaspettata e ottimale), o anche al mettere in bocca a un personaggio così subdolo e maligno frasi come “la gentilezza è ipocrisia”. Si fa proprio un lavoro di cesello nello screditare i veri mali della quotidianità, nella confezione di storielle sovrannaturali molto easy.

Alla prima stagione di 13 episodi, i cui titoli contengono sempre un numero, farà seguito una confermata seconda stagione.  

venerdì 3 aprile 2020

STAR TREK: PICARD: sulla perdita e la memoria


SPOILER NEL PRIMO PARAGRAFO. In Star Trek: Picard (Amazon Prime), l’ammiraglio Jean-Luc Picard (Patrick Stewart) è ormai in pensione e trascorre il suo tempo fra i vigneti della sua tenuta in campagna, consapevole che non gli rimane molto da vivere a causa di un problema cerebrale. Una giovane donna, Dahj (Isa Briones) si rivolge a lui per aiuto e scoprono che si tratta di un androide biologico creato dal dottor Bruce Maddox sulla base del cervello positronico del comandate Data, cosa che la fa considerare sua “figlia”. Quando viene uccisa, l’anziano ufficiale mette insieme una squadra per cercare di salvare almeno la sorella gemella di Dahj, Soji, che rischia la stessa sorte: Cristobal “Chris” Rios (Santiago Cabrera) è un esperto pilota che viene assoldato insieme alla sua nave, La Sirena; la dottoressa Agnes Jurati (Alison Pil, Devs), che ha lavorato con Maddox, è la maggiore esperta di intelligenza artificiale; Rafaella “Raffi” Musiker (Michelle Hurd) è una ex-ufficiale della flotta stellare che in passato aveva lavorato con JL; Elnor (Evan Evagora) è un esperto di combattimento salvato da bambino dall’ammiraglio. Il loro obiettivo è salvare Soji, che inizialmente vive su un cubo Borg conosciuto come l’Artefatto, dove si cerca di recuperare all’umanità gli ex-Borg, che è presa di mira dai Romulani (nello specifico dalla Zhat Vash, una sorta di antica fazione della Tal Shiar, la loro polizia segreta), che vogliono distruggere ogni forma di intelligenza artificiale perché ritengono che saranno altrimenti la causa della fine del mondo biologico: vedono in Soji la Distruttrice. Per cercare di carpirle informazioni e spiarla diventa suo amante il romulano Narek (Harry Treadaway, Penny Dreadful).

In 10 puntate sviluppate con una narrazione orizzontale ad arco, senza puntate verticali autoconclusive, le vicende della più recente aggiunta al franchise ideato da Gene Roddenberry si basano sui personaggi di ST: The Next Generation, ma sono ugualmente seguibili da chi non avesse familiarità con il canone. Lo dico con cognizione di causa, perché sebbene l’originario Star Trek fosse quasi una religione per me e abbia seguito Enterprise e Discovery, sono digiuna di Deep Space Nine e Voyager e ho solo scarsa familiarità con STTNG. La comparsa come guest star (Riker, Data, Seven of Nine, Deanna Troi) è una chicca per gli aficionados, ma non crea ostacoli agli altri.

Le chiavi di lettura della prima stagione, che si è chiusa lo scorso 26 marzo, sono state principalmente due, per me. La prima è una citazione in bocca s Soji in “The End is the Beginning” (1.03) che incontra una ex-B (una ex-borg cioè). È affascinata dal fatto che i romulani possano creare una mitologia, una “struttura narrativa comune per capire il loro trauma, radicata in archetipi profondi, ma rilevante quanto le notizie del giorno”. “È proprio quello che spero di fare io”, dice, e se non sono queste parole con un significato metatestuale che rivelano la poetica degli autori, non so quali possano esserlo.

La seconda chiave di lettura si intreccia con la prima. Showrunner di questa serie, ideata insieme a Alex Kurtzman, Kirsten Beyer e Akiva Goldsman, c’è nientemeno che Michael Chabon, vincitore del Pulitzer per Le fantastiche avventura di Kavalier & Clay. Ha scritto sul New Yorker (11 novembre 2019) una saggio di storia personale, The Final Frontier, in cui racconta del suo rapporto col padre morente, poi scomparso, con il quale condivideva la passione per la serie. Questo ha informato, come lui stesso ammette, la sua scrittura di questi episodi dove la mortalità e la perdita si rincorrono come temi musicali. Insieme a quello della memoria, mi pare. Nella season finale questo è particolarmente evidente.

Non condivido la posizione del Guardian che giudica questa incarnazione come pessimista. Non è più una Federazione che non commette errori, ma se l’istituzione è imperfetta, i rapporti di lealtà e amicizia fra le persone e di valore umano rimangono una forza trasformante positiva e ottimista. Quello che è vero è che, così come in Discovery, non c’è più uno Star Trek che è un viaggio conoscenza, alla ricerca di nuovi mondi e nuove civiltà, ma uno che fa esperienza delle stessa ansia cui ci hanno abituato molte altre serie – da Black Mirror ad Äkta Människor, o Humans, da Battlestar Galactica a The Orville (la più fedele allo spirito originario di Roddenberry) – ovvero quella per il timore che la tecnologia ci sfugga di mano con la creazione di robot umanoidi così evoluti e perfetti da sopraffarci. Ma proprio in “Et in Arcadia Ego – Part II” (1.10) si vede l’ottimismo della consapevolezza che è sempre questione di scelte e la paura non deve essere ciò che ci guida.

Sono rimasta appagata da Picard, anche per come è riuscito ad esporre in modo sufficientemente lineare una mitologia molto ricca e complessa. Non ne sono forse uscita esaltata, ma ho apprezzato pur nell'incalzare avventuroso degli eventi il tono pacato, intellettuale e gentile che si collega al personaggio interpretato dall’ormai 79enne Stewart, e che qui di fondo pervade l’intero racconto.    

Per la prevista seconda stagione posso solo dire: engage (attivare).

venerdì 27 marzo 2020

LIVING WITH YOURSELF: gravedole ma superficiale


In Living with Yourself (Netflix), Miles (Paul Rudd) è un uomo maturo insoddisfatto di se stesso e della vita: è un copywriter in una agenzia pubblicitaria, ma ormai ha perso lo stimolo creativo di un tempo, e sebbene innamorato della moglie Kate (Aisling Bea), un’architetto d’interni, il rapporto è ormai piuttosto statico, annoiato. Non riescono ad avere figli e lui non si decide mai ad andare alla clinica di fertilità dove lei ormai da tempo lo spinge a recarsi.  Un collega gli segnala una spa che gli ha cambiato la vita, un centro per migliorare le stesso. Vi si reca e presto si scopre il fattaccio: lo hanno clonato in modo tale da creare una perfetta copia di se stesso solo geneticamente migliorata, ma qualcosa è andato storto, e adesso ci sono due versioni di sé, quella vecchia e quella nuova.

La premessa di questo dramedy fantascientifico, spassosa ma allo stesso tempo con una potenziale gravitas esistenziale non indifferente, non riesce a realizzare il proprio potenziale. La commedia e la tragedia del trovarsi faccia a faccia e del confrontarsi non solo con se stessi, ma con una versione migliore di se stessi, con il sé che si sarebbe voluto ma non si è riusciti ad essere, avrebbe potuto essere migliore di così.

Counterpart con questo stesso tema è riuscito a dire dolorose e delicate verità in modo molto più brillante. Qui si echeggia Maniac, nel desiderio di una “soluzione facile” al miglioramento di se stessi, e non si riesce né propriamente a far ridere, né a riflettere più di tanto su un altro sé, se non molto tiepidamente, e più che altro sulla logistica di convivere nella stessa realtà. The Good Place  nel meditare su come essere persone migliori, ha pescato filosoficamente più a fondo senza mettere in piazza la modifica posticcia di qualche gene.  

Paul Rudd è molto convincente nel recitare con se stesso  - un’impresa non certo facile – e la trama fila via spedita e lineare. Non ci sono esuberi narrativi di cui si sarebbe fatto a meno. La conclusione pure è piuttosto appagante e lascia spazio a una seconda stagione. Solo, questa creazione di Timothy Greenberg ha poca sostanza.

Miles si rende improvvisamente conto di comportamenti che metteva in atto che erano negativi, e sviluppa un nuovo apprezzamento per la vita e i rapporti che aveva, riscopre le passioni passate (ad esempio scrivere teatro) È anche critico del suo sé migliorato, ha occasione di riflettere sul tipo di uomo che è stato nel suo matrimonio, ma fuori da queste osservazioni abbastanza superficiali non ci sono grandi epifanie, pregnanti rivelazioni. Questa è la più grande pecca di uno show che è stato una visione gradevole, ma che dubito continuerei.

mercoledì 18 marzo 2020

THE MANDALORIAN: "Star Wars" allarga il franchise


Ammetto che la sola vera ragione per guardare The Mandalorian per me è l’adorabile coccolosissimo personaggio che ha finito per essere conosciuto come Baby Yoda, in realtà ufficialmente “the child”, il bambino – o la bambina, di per sé. Sono stata attenta al pronome, e la serie per alcune puntate si è mantenuta sul neutro “it”, cosa che mi ha fatto spesare potesse essere una femmina, usando però in seguito “he” cosa che quindi fa ritenere che sia un maschio. Già è prevista una pletora di giocattoli e gadget con il tenero personaggio e già li voglio, segno che hanno saputo fare il loro gioco molto bene, tanto più considerato anche che sono una spettatrice che ha quasi l’età di Baby Yoda, ovvero 50 anni; immaginarsi il successo con i più giovani. 

Afferente al franchise di Star Wars, e in effetti conosciuta anche come Star Wars: The Mandalorian, questa creazione di Jon Favreau per la neonata Disney+ (in Italia a partire dal 24 marzo 2020) è ambientata cinque anni dopo le vicende de Il Ritorno dello Jedi e 25 anni prima de Il Risveglio della Forza, leggo online per quelli per cui questi riferimenti hanno un senso. Non per me, ammetto, che ho visto Guerre Stellari quando è uscito, e questo è quanto. Sicuramente a conoscere la mitologia della saga, ci si gode tutto di più, ma posso confermare, da ignorante, che si riesce a seguire tutto benissimo anche ignorandola.

Protagonista è un cacciatore di taglie mandaloriano, chiamato Mando (Pedro Pascal), ovvero un appartenente a un popolo guerriero in cui da piccolo è stato adottato dopo aver perso i propri genitori. Secondo il loro credo, devono indossare sempre, e togliere davanti a nessuno, un elmo che nasconde il loro volto (durate la prima stagione noi stessi lo vediamo una sola volta), perché “this is the way” (“questa è la via” letteralmente, o “questo è il modo”, non ho idea al momento del mio scrivere di come verrà tradotto), come recita il loro motto. Con le ricompense che guadagna cerca di forgiare una nuova armatura.

Uno dei primi incarichi che Mando riceve dal Cliente (Werner Herzog) è proprio quella di portargli quello che si scopre essere il Bambino, questa creatura verde con grandi occhi e orecchie che emette suoni strani e che tanti scambiano per un animaletto domestico, con tanto di futuristica culletta volante, apparentemente inerme, ma già in grado di usare la Forza che gli permette di avere notevoli poteri. Nel timore che il piccolo possa fare una brutta fine, contro le regole, il Mandaloriano lo prende e protegge portandolo con sé. Ne diventa così una sorta di padre affidatario. L’obiettivo è quello di riportarlo alla sua gente.

Ricchissimo di una mitologia che fa evidentemente riferimento a un canone già molto ampio e definito, questo space western non può contare su chissà che dialoghi o approfondimenti psicologici, ma su tanta azione e avventura. C’è il fondo metaforico di bene e male su cui regge l’impalcatura, c’è un rinnovo della tradizione dello stoico eroe solitario, qui umanizzato e addolcito da una volontaria paternità (presumibilmente un tema già caro in altri "capitoli" delle vicende), il codice d’onore di una cultura di appartenenza, i parallelismi fra la vita del protagonista e del suo protetto, lealtà e sacrificio, guerra…le storie sono di una semplicità disarmante, e diverse puntate, fatte di sparatorie, agguati e scontri, non elicitano chissà quali riflessioni. Forse sono troppo poco imbevuta delle finezze della storia madre per vederle io qui. Né la narrazione, né l’aspetto visuale mi incoraggiano a rivisitare la serie oltre la prima stagione, che è comunque spensieratamente gradevole se accedo alla pre-adolescente che è in me. Sul successo di pubblico non ho dubbi, in ogni caso.  

Affascinanti i titoli di coda, che riprendono le vicende della puntata e le ripropongono in modalità fumetto.

lunedì 9 marzo 2020

SEX EDUCATION (2.05): punti di scarso piacere


Amo Sex Education, e penso che abbia confezionato una magnifica seconda stagione, come ho avuto modo di scrivere nel mio post in proposito. Purtroppo però non sono mancati gli scivoloni. Penso a una storia del quinto episodio (2.05), scritto da Alice Seabright, piena di errori su tutta la linea. Jean (Gillian Anderson) tiene a casa sua un seminario rivolto ad un gruppo di donne sui “punti di piacere all’interno della vagina”.

Punto primo, mi rendo conto che nell’usare un modellino in plastica delle pudenda femminili (come da immagine che è un fotogramma della puntata),  si usa quello che si trova sul mercato, ma nell’indicare il clitoride, che qui sembrava una specie di chiodino e che per ragioni umoristiche si commenta non essere estraibile nella realtà, si poteva magari cogliere l’occasione proprio per ricordare come se ne conosca poco la forma, tanto che molti non lo sanno riconoscere. Se le scuole francesi dalle elementari alle superiori possono avere primo clitoride 3D open-source al mondo, anatomicamente corretto, utilizzato per l'educazione sessuale nelle scuole (si legga qui sul Guardian in proposito), sicuramente potrà permetterselo anche la produzione della serie.

Punto secondo, se si parla di punti di piacere all’interno della vagina, non si può sicuramente partire dal clitoride, che non fa parte della vagina, ma semmai della vulva. Ora, anche qui, sono consapevole che nel linguaggio si usi regolarmente ‘vagina’ per intendere ‘vulva’, ma sono altrettanto consapevole che il fatto che farlo regolarmente non lo rende corretto. Non solo, culturalmente è molto criticata questa riduzione che è storicamente vista come una visione patriarcale intesa a dare valore solo al piacere maschile e non a quello femminile (che può esserci anche senza il coinvolgimento della vagina). Non serve avere chissà quali approfondite conoscenze femministe o di critica freudiana o chi sa che cosa. Sono le basi, proprio. E qui proprio non ci sono. Un delitto in una stagione che mi sembra abbia cercato di dare un peso maggiore alla parte femminile della sessualità.

Punto terzo. Il personaggio in questione è una sessuologa professionista che trova ragionevole lasciare il gruppo a cui sta facendo lezione per una litigata a latere con il compagno che sta installando in cucina delle mensole. Sebbene sia chiaro l’intendo umoristico, è stato fuori luogo e professionalmente svalutante per il personaggio. È stato imbarazzante, ma per le ragioni sbagliate.

Punto quarto. Si sta parlando di piacere femminile e di scoperta dell’anatomia femminile. Quando Jean rientra dal suo alterco con il compagno e riprende la lezione, subito prima di staccare su un’altra scena e situazione, invita la compagnia muliebre a tirare fuori degli specchietti. Uno evidentemente si immagina che, secondo quanto si faceva già negli anni ’70 se non prima, si guarderanno poi le proprie parti intime. Tutto  bene. Ma allora perché quando la moglie del preside, che poco prima aveva manifestato la preoccupazione del fatto di essere molto arrugginita, per così dire, si sente l’esigenza di dire quasi sottovoce  “Venga a trovarmi dopo, ho una cosa che potrebbe aiutarla”? Quella cosa che poteva aiutarla, lo vediamo in seguito quando questa lo usa, è un semplicissimo vibratore. Vuol dire che per tutte le altre che erano lì quell’oggetto non era contemplato? Ma andiamo! Va bene che per una ragione di costi non poteva magari regalarne uno a destra a manca, ma in un corso del genere esce una domanda di questo tipo e lei non coglie la palla al balzo per parlarne a tutte? Ma che corso è? Di questi tempi è già tanto che non sia una marca di vibratori a sponsorizzarglielo.   

Punto quinto. G. No, così, giusto per battuta. Almeno quello ci rimane. Non ho altre obiezioni. Le quattro sopra direi che sono più che sufficienti. E con qualcun altro si poteva anche soprassedere, con questa serie proprio no.  Non sono stati punti di piacere, posso dirlo.

lunedì 2 marzo 2020

SEX EDUCATION: la seconda stagione

Ha convinto al pari della prima stagione la seconda tranche di Sex Education (Netflix), capace di essere piena di verve e umorismo, ma contemporaneamente di riuscire a trattare tematiche molto serie e rilevanti.

Si riprende con il protagonista adolescente Otis (Asa Butterfield) che finalmente ha superato la propria incapacità a masturbarsi. Sebbene venga rassicurato che è normale e sano farlo, ora ha l’impressione che il suo corpo abbia preso possesso di lui e si rende conto non solo che ha molto da imparare, ma che sebbene abbia tanta esperienza teorica ne ha poca di pratica, e questo è un nuovo terreno di esplorazione per lui. Convinto di essere bravissimo nei ditalini (2.02) alla sua ragazza Ola (Patricia Allison), rimane presto deluso nello scoprire di non esserlo. Qui, e cosa importante proprio attraverso questo personaggio che parecchio ne sa, ma anche attraverso altri (in 2.06 con il tema delle docce anali, ad esempio), si insegna a mio avviso una delle lezioni più importanti di tutte: nessuno “nasce imparato” come si suol dire, e anche nel sesso, come in altri aspetti della vita, c’è un percorso di apprendimento.

Si è parlato della necessità di ascoltare il proprio partner (2.02); si è mostrato che sono tematiche che interessano tutti a tutte le età, con la moglie del preside, Maureen (Samantha Spiro), timorosa di manifestare la propria insoddisfazione; si è fatto vedere che ci si può pensare in un modo per poi scoprire che la propria identità sessuale è diversa da quella che si immaginava, con Ola che si rende conto di essere pansessuale (2.05); si rassicura sul fatto che il sesso è solo una parte della vita e che per qualcuno può non essere importante, dando visibilità e sollievo a un personaggio asessuale (2.04); si è dato più peso rispetto alla prima stagione alla sessualità femminile, accennando anche a situazioni come vaginismo e perimenopausa (2.08); non si è avuto timore di dire, cosa che dovrebbe essere scontata ma non lo è, nella esigenza di rendere educative e scientifiche le conversazioni, che una componente importante è il piacere… A fronte di vergogna e cattiva comprensione, la madre di Otis che è sessuologa, Jean (Gillian Anderson), che si trova a lavorare come consulente per la scuola del figlio, vuole offrire fiducia, dialogo e verità. E astutamente la serie si “autodenuncia” portando alla luce la non eticità di quello che il protagonista adolescente ha fatto finora, ovvero fare consulenza a pagamento ai compagni.   

Nonostante qualche scivolone (a stretto giro pubblicherò un post apposito su questo), una grande forza della serie sta nel riuscire a fare davvero educazione sessuale. Magari riferire informazioni puramente mediche, come il fatto che la clamidia si trasmette attraverso lo scambio di fluidi sessuali (2.01), è anche sufficientemente semplice, e la brillantezza nel trasmetterlo è stata nel fatto di riuscire a renderlo umoristico, con tutta la scuola presa dall’isteria in proposito.

Ma si è anche stati davvero eccellenti con informazioni decisamente più umanamente complesse, con risvolti psicologici che richiedono sicuramente più finezza intellettuale.  A questo proposito non posso non applaudire la vicenda che ha coinvolto la dolce Aimee Gibbs (Amiee Lou Wood). Prende l’autobus (2.03) e uno dei passeggeri si masturba eiaculando sui suoi jeans. Lei prende la cosa alla leggera, apparentemente più seccata di aver rovinato uno dei migliori capi di abbigliamento che ha, che altro. Maeve (Emma Mackey) però la convince a sporgere denuncia. Nei giorni successivi la ragazza ha il terrore di prendere l’autobus. Si fa chilometri a piedi pur di non rimettersi nella stessa situazione e comincia a vedere il molestatore in ogni dove, mettendola in crisi nei suoi rapporti personali con l’altro sesso. L’intelligenza e la forza di questa storia stanno nel mettere in scena una situazione in fondo minore – non c’è stata propriamente un’aggressione, uno stupro o chissà che altro – e di mostrare come possa impattare fortemente in negativo la vita di una donna. La storia è diventata ancora più potente, e con echi più vasti, facendola diventare un’occasione di solidarietà femminile. Un gruppetto di ragazze viene messo in punizione e quello che devono fare per uscirne è fare una presentazione su quello che le lega come donne (2.07). Non c’è molto, scoprono, ma per tutte loro ci sono state attenzioni sessuali non richieste e sgradite: una è stata palpeggiata, un’altra seguita, un’altra ancora esposta alla visione delle parti intime di uno che frequentava la piscina dove aveva dovuto rinunciare ad andare, un’altra è stata molestata verbalmente…Se, per sostenere la compagna, decidono tutte insieme di salire sull’autobus e farle passare ogni timore, si denuncia il fatto che due terzi delle minorenni si trovano a dover gestire situazioni similari.

Non ho problemi particolari ad ammettere che #metoo, io stessa ho vissuto prima della maggiore età più di uno degli esempi qui descritti. In particolare mi sono travata proprio in una circostanza che presenta dei parallelismi con quella di Aimee, sebbene fosse in parte diversa e sebbene io fossi considerevolmente più giovane di lei. Forse anche per questo mi ci sono fortemente identificata: ho sperimentato la paura di trovarmi alla fermata dell’autobus, l’idea che poteva essere chiunque ad aggredirmi, la sensazione di non essere mai al sicuro…proprio come è stata descritta qui. Io quei paralizzanti timori me li sono portati dietro per anni e mi hanno condizionata. Sono, in effetti, esperienze comuni, ma non so se mi sia capitato altre volte di riconoscermi così autenticamente in una storia come in questo caso e vederlo rappresentato così mi è sembrato qualcosa di grande, di rilevante, di necessario. E non è stato pesante, ci si è anche riso su.     
      
Ci sono stati altri begli intrecci di plot con spessore: quello dell’amore contrastato fra Otis e Maeve, con il difficile rapporto di lei con la madre. E uno degli aspetti più mirabili nella costruzione di Otis si è avuto esplicitato dalle parole della compagna Ola: cerca così fortemente di comportarsi bene che finisce involontariamente a ottenere l’effetto opposto. Si è ragionato sulla mascolinità (con il preside Groff e il padre di Otis) e sull’omofobia interiorizzata verso se stessi attraverso la storia di Adam (Connor Swindells) e il suo rapporto con Eric (Nguti Gatwa), coinvolto in un bel triangolo con il nuovo arrivato Rahim (Sami Outalbali). La pressione, anche involontaria, dei sogni e delle aspettative dei genitori verso i figli è stata ben incarnata dalla storia di autolesionismo di Jackson Marchetti (Kedar Williams-Stirling), e si è costruita una bella amicizia fra lui e Viv (Chinenye Ezeudu).

Si è detto molto insomma, con uno stile fresco e accattivante. Già non si vede l’ora della terza confermata stagione.