venerdì 13 novembre 2020

NORMAL PEOPLE: ut pictura poësis

 

Mi sento di dire “ut pictura poësis”, citando Quinto Orazio Flacco, quando si tratta di Normal People - Persone Normali (BBC3 e Hulu): come nella pittura, così nella poesia e viceversa, o nel nostro caso, come nel romanzo così nella miniserie. L’autrice Sally Rooney, che ha adattato il proprio libro per la televisione insieme ad Alice Birch e Mark O’Rowe ha dichiarato: “La storia e i personaggi sono rimasti intatti, ma il nostro modo di drammatizzare il loro rapporto è cambiato, e abbiamo dovuto prendere decisioni su come cambiarlo. Non per incasinare gli aspetti fondamentali del libro, ma per preservarli. Se cerchiamo di attenerci troppo al libro, ci ritroviamo con qualcosa che non preserva l'essenza della storia” (cfr. l’intervista su THR). Ho letto il libro, e purtroppo lo ricordo poco nonostante sia stata una delle mie letture preferite nel 2019 (è uscito nel 2018), ma la serie me ne ha fatto appassionare di nuovo e l’ho amata altrettanto, trovandola fedele nell’essenza al ricordo che ne avevo. Slate segnala le differenze fra la versione cartacea e quella video: non molte.  

La complessa relazione fra Marianne (Daisy Edgar-Jones) e Connell (Paul Mescal) è al centro di tutto. Si conosco al liceo nella contea di Slingo, in Irlanda: lei vive con la madre Denise (Aislín McGuckin), anaffettiva e fredda, e il fratello Alan (Frank Blake), invidioso e abusante, alienata dai compagni di scuola che la esludono e bullizzano e che lei tratta con sufficienza;  lui, laconico e dolce,  abita con la madre single, Lorraine (Srah Greene) che fa le pulizie nella ricca casa di lei; in seguito continuano a frequentarsi all’università Trinity College di Dublino, dove entrambi eccellono negli studi e hanno le proprie cerchie. Hanno una relazione, inizialmente segreta, a intermittenza. Il loro è un rapporto di sesso, di amore, di amicizia, di intimità, di affinità intellettuali, di conversazioni, di incomprensioni, di reciproco saziarsi l’uno dell’altra e completarsi e di comprendesi in profondità contemporaneamente nell’incapacità talvolta di farlo nel modo più basico ed elementare. Due anime diversamente tormentate, specie quella di lei che si sente perennemente non amata, non voluta e inadeguata, con impulsi masochistici, ma anche quella di lui, che non riesce a dimostrare quello che prova o che pensa e si nasconde perché si vergogna dell’opinione che gli altri hanno di lei pur non condividendola. Entrambi sono molto vulnerabili al di là dell’apparenza coriacea.

La resa televisiva è stata superlativa, nella messa in scena, nella sceneggiatura, nella recitazione spettacolosa da parte di tutti, riservata e coinvolta insieme, nei silenzi e nelle conversazioni anche apparentemente casuali, misurate, nel detto come nel non detto, nelle romantiche, spinte ma appropriatissime scene di sesso – raramente ho visto sullo schermo rapporti sessuali che sapessero così bene esprimere come al di là del piacere siano in grado di costruire un rapporto, dove l’intimità non è dovuta alla nudità frontale, ripetutamente mostrata, o nell’agio di abbandonarsi l’uno all’altra, ma è proprio sul piano fisico l’espressione del reciproco bisogno e appagamento e l’incarnazione del rapporto spirituale. E non sono certo la prima a lodare il modo in cui hanno reso integrante e naturale il loro modo di confermarsi il consenso reciproco. Sul set hanno anche utilizzato una “coordinatrice di intimità”, Ita O’Brien, che  nel suo lavoro si fa guidare da tre principi, “comunicazione aperta e trasparenza, accordo e consenso nel tatto e coreografia chiara” (Los Angeles Times) e lei stessa dichiara come “quelle scene descrivono la delicatezza, la bellezza, l'apertura” del rapporto. La stessa Rooney ha paragonato le scene di sesso a un’altra forma di dialogo. (The Guardian)

Due altri aspetti emergono in modo mirabile: l’evoluzione della loro storia e conoscenza, con il maturare anche in semplici termini di età, e le difficoltà comunicative che possono portare a rovinosi fraintendimenti anche fra persone che apparentemente tengono molto l’uno all’altra e che sono intelligenti e colte e hanno presumibilmente la capacità di esprimersi. Quello che per uno è auto evidente, per l’altro non lo è affatto.  

Il tono melanconico, quieto ed elegante della regia – di Lenny Abrahamson (Room) nella prima parte, di Hettie MacDonald nella seconda ha reso tutto alla perfezione, compresa la gestione fra i momenti privati e quelli pubblici, fra la loro storia d’amore e il loro vivere pubblico, e nei loro momenti separati.

Lirico. Sublime. Assolutamente impeccabile. In 12 episodi, per me è il programma migliore dell’anno.

martedì 3 novembre 2020

RAMY - seconda stagione: sul vuoto esistenziale

ATTENZIONE SPOILER. Una delle immagini più strappacuore delle visioni televisive del 2020 è per me quella di zio Naseem (2.09), nella seconda stagione di Ramy, che per la strada mangia con le mani, piangendo, la torta di condoglianze che aveva comprato per l’uomo a cui in palestra faceva dei pompini e per il quale cominciava a provare dei sentimenti. Il razzista, antisemita, misogino, omofobo Naseem ha provato, ma non è riuscito a instaurare una relazione con un uomo che era aperto a intrecciare una storia con lui, incapace di superare il disprezzo di sé e la vergogna così fortemente ingranati nel proprio modo di pensare. Nell’anonimato della sauna riusciva a concedersi,  il tentativo di un bacio lo ha fatto reagire con violenza, pur desiderandolo profondamente. Terribilmente umano e devastante.

Un altro vertice della stagione è stato “Atlantic City” (2.07). Gli amici portano Ramy (Ramy Youssef) a celebrare l’addio al nubilato e assumono delle spogliarelliste. Lui non le vuole e le licenzia, finendo poi a dover masturbare lui stesso l’amico Steve (Stephen Way), che ha una grave forma di distrofia muscolare ed è sulla sedia a rotelle. Già trattare il tema della sessualità di una grave forma di disabilità è notevole, qui poi lo si riesce a fare con tatto e un notevole umorismo. Nessuno dei due vuole minimamente quello a cui si vedono costretti.

La madre Maysa (Hiam Abbass)  deve fare il test per ottenere la cittadinanza  e viene messa in crisi da un transessuale e dal pronome da utilizzare (“They” – 2.06); il padre Farouk (Amr Waked) perde il lavoro e cade in depressione (“Frank” - 2.08); la sorella Dena (May Calamawy), per quanto si ritenga razionale, si lascia coinvolgere nella superstizione del malocchio e nel timore di diventare calva (“3riana grande” - 2.05)… a volte sembra che siano i comprimari ad avere le storie più riuscite, qui ben in bilico tra americanità e alterità, fra antico e nuovo.

La serie si è volutamente messa su un terreno minato affrontando di petto la spinta religiosa del protagonista principale, Ramy appunto. Forse ho più pregiudizi di quello che penso o che vorrei sull’Islam, ma questa sua conversione spirituale mi ha messa a disagio, anche se ritengo che elicitare questa potenziale ansia fosse voluto, dal momento che gli stessi amici più intimi del personaggio, Mo (Mohammed Amer) e Ahmed (David Merheje), manifestano un certo timore che lo Sheikh (il sempre carismatico Mahershala Ali) che sceglie come propria guida spirituale lo “corrompa” facendolo diventare troppo religioso ed che frequentare una nuova moschea lo porti a diventare estremista (2.02). E in effetti Ramy vuole essere così tanto un bravo musulmano che finisce per essere incosciente e abbandonare il buon senso (2.03). La storia che lo vede accogliere come un soldato dell’Iraq che vuole convertirsi e la violenza che ne consegue  mettono bene in luce sia l’entusiasmo e le buone intenzioni sia i realistici sentimenti culturali diffusi verso questa specifica religione in questo momento storico.

Le vulnerabilità e le motivazioni che muovo Ramy sono anche molto ben delineate, riprese dalla prima stagione alla quale pure ci sono dei rimandi. L’emozione dominante è quella del vuoto esistenziale: più è circondato da persone, più si sente solo. L’errore che riconosce in se stesso è quello di cercare di riempirlo attraverso il sesso e il porno. La soluzione che cerca è nell’opposto, nell’astinenza che gli propone la sua religione, cercando di riempire quel vuoto con Dio. Dove la serie non è convincente a sufficienza, a mio avviso, è nel mostrare che si tratta di una coincidentia oppositorum, non è che uno è male a l’altro è bene, ma entrambe le posizioni nel loro estremismo non sono sane. È vero che in “Miakhalifa.mov” (2.04), nell’incontro con una pornodiva delle cui mammelle molti vogliono bere il latte, si riflette sul fatto che la pornografia fiorisce soprattutto negli ambienti oppressivi e oscurantisti. Allo stesso tempo non si fa quel passo in più del vedere che forse anche l’alternativa dell’astinenza intransigente non è auspicabile. Forse la serie, un po’ come il protagonista, è confusa, e di fronte a situazioni che sono emotivamente contorte e complesse è bene così perché un’eccessiva semplificazione le appiattirebbe. Ramy decide di sposarsi (2.10) con la figlia dello Sheikh, Zainab (MaameYaa Boafo), con cui nel corso della stagione ha costruito una bella relazione.  ma anche a causa del ritorno della cugina con cui aveva avuto una storia nella stagione precedente, la conclusione non è così lineare.    

Ramy si conferma una serie che parla in modo originale della contemporaneità e delle nostre angosce esistenziali e dimostra di avere ancora molto da dire.

sabato 24 ottobre 2020

LITTLE AMERICA: storie di immigrati

Basata su storie vere, già raccontate sulla rivista Epic, ogni puntata di Little America (Apple TV+) racconta, in modo potente e delicato insieme, le vicende di un diverso immigrato negli Stati Uniti. Storie di aspirazioni e riscatto, di resilienza, grinta e determinazione, di isolamento e di solitudine, e del grande sogno americano, quello di farcela a dispetto di tutto, quello di realizzare i propri sogni.

C’è il ragazzino indiano, Kabir (Suraj Sharma), che si deve crescere da solo, perché i genitori senza il permesso di soggiorno vengono rispediti nel proprio Paese, che gestisce un motel (1.01); la ragazza messicana, Marisol (Jearnest Corchado), che vive in un garage e per un paio di scarpe gratuite si iscrive a un corso di squash finendo per diventare una grande campionessa (1.02); il nigeriano Iwegbuna (Conphidance) che, andato a studiare economia e intenzionato a tornare dopo la laurea, rimane a seguito di un colpo di stato militare nel suo Paese (1.03); la francese Sylviane (Mélanie Laurent) che inaspettatamente trova l’amore in un ritiro del silenzio buddista (1.04); l’ugandese Beatrice (Kemiyondo Coutinho) che diventa la signora dei biscotti (1.05); la cinese Ai (Angela Lin) che vince una crociera in Alaska (1.06); l’iraniano Faraz (Shaun Toub) che contro ogni buon senso compra un terreno su cui c’è un’enorme roccia con l’obiettivo di costruire la casa dei suoi sogni (1.07); il siriano gay Rafiq (Haaz Sleiman) a cui il padre ha ustionato il braccio perché provi per un minuto quello che all’inferno proverebbe per l’eternità, nell’intento di proteggerlo (1.08), per cui il solo fatto di essere in America è il successo, perché significa la libertà di essere se stesso. 

Tutte le storie sono commoventi, ma una delle scene più strazianti dell’anno (ho attivamente singhiozzato) è quella della cinese Ai (1.06), che sulla nave dove è in vacanza con i figli canta un bravo al karaoke, mentre attraverso dei flashback della sua infanzia assistiamo a una vita segnata dagli abbandoni che ci illumina sul suo comportamento attuale.  La puntata è scritta e diretta da Tze Chun, figlio della donna della vita reale a cui è ispirata. 

Le puntate hanno la sigla che visivamente ha delle variazioni, ma soprattutto cambia ogni volta musica, con canzoni legate alla nazionalità del personaggio di cui si tratterà, il cui nome appare sullo schermo nel corso della diegesi. E la persona che lo ha ispirato chiude ogni singolo episodio con delle indicazioni su che cosa ne è stato poi di quella persona.

Ideata da Lee Eisenberg, Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani (Silicon Valley) è una raccolta di racconti che per alcuni versi si appoggia sull’inossidabile tropo del forestiero che sfonda grazie al proprio talento, ma qui è tenuta al minimo indispensabile, sia perché mostra spesso l’ordinarietà dei progetti dei coinvolti, sia perché non nasconde la fatica e i sacrifici per raggiungerli. Si dice che una cosa valga per quello che ti è costato ottenerla. Sulla base di questo principio proprio questo si mostra qui: quanto valore abbiamo risultati apparentemente minori e quanto significato e umanità c’è in gesti e comportamenti che a non conoscerne il passato non hanno chissà quale rilievo.

A commuovere per empatia o a far ridere sono proprio i dettagli minimi, e le difficoltà sono talvolta gli sforzi di scontrarsi con una realtà così diversa dalla propria: è Iwegbuna (1.03) che da bimbo guarda in piazza i film western e quando deve integrarsi si veste come un cowboy - fa carriera universitaria impressionando il proprio professore, di cui diventa assistente, riferendo al proprio Paese il modello Corden-Neary, ma non riesce ad adattarsi a pasteggiare con gli hamburger che trova immangiabili così pieni di salse, e gli manca il casalingo fufu.   

Anche registicamente la serie regala bei passaggi. Ho apprezzato come è stato reso il trascorrere del tempo, quando i personaggi si vedono crescere, ad esempio, o nell’espediente nel mostrare al contempo il distacco e il contatto con la famiglia d’origine nel far vivere al personaggio i suoi familiari davanti ai suoi occhi come se fossero lì quando in realtà li sente solo di voce attraverso delle audiocassette.

Sono stata negli USA l’anno scorso, a San José. Ogni volta che prendevo un Uber mi imbattevo in una nazionalità differente. Era un mini-mondo. Non tutte le zone degli USA sono altrettanto variegate, ma si sa che gli Stati Uniti sono un melting pot. Troppa TV mostra solo WASP, bianchi anglo-sassoni protestanti. Il “regime scopico” di cui si fa esperienza attraverso il piccolo schermo sta per fortuna cambiando, in più modi, ma anche perché supporta sguardi nuovi. In questo Little America dà un contributo tanto antropologicamente sensibile quanto eticamente necessario.

Questa serie antologica è stata confermata per una seconda stagione. 

giovedì 15 ottobre 2020

LOVE LIFE: frustrante

 

La nostra vita amorosa può essere ridotta a dei dati: statisticamente prima di trovare l’amore delle vita una persona avrà avuto in media 7 relazioni, di cui due lunghe, le altre a breve termine, appuntamenti superficiali e avventure di una notte, due volte ci si sarà innamorati sul serio e due volte si avrà avuto il cuore spezzato. Esordisce con queste informazioni la voce narrante di Love Life (HBO Max, e si tratta della la prima serie scripted del canale), senza peraltro fornire alcuna indicazione aggiuntiva su quale possa essere la fonte di questi dati. Ce li dobbiamo prendere come buoni. E sulla base di questi ci viene raccontata la vita amorosa della protagonista, Darby Carter (Anna Kendrick). Successivamente (1.02) veniamo informati del fatto che statisticamente una coppia ci pensa per un paio di anni prima di divorziare e poi ci vogliono circa 3 anni prima di risposarsi.

Darby quando la conosciamo lavora come guida in un museo d’arte e la seguiamo appunto nelle sue vicende sentimentali, a partire da “Augie Jeong” (1.01), conosciuto in un locale di Karaoke, ma poi lasciato perché l’impegno professionale di lui lo porta altrove – (spoiler – si ritroveranno in seguito). Un anno dopo comincia una storia con un uomo divorziato. “Bradley Field”, ma non piace alla famiglia di lei. Segue l’avventura di una notte che è lei a non voler proseguire (1.03 , “Danny Two-Phones”) e poi quella con un cuoco, che sul principio va alla grande,  riesce perfino a gestire l’ipercritica madre di lei, fino al giorno in cui lui non perde il lavoro (1.04). La psicoterapeuta la invita a ripensare al primo amore (1.05). Poi altre storie sono anche di amicizia e con la madre (Hope Davis). E ci starebbe, se non fosse che la struttura narrativa sembra ripensata a mezza via.

La voce fuori campo, che commenta quasi con il distacco dello studioso che annuncia i dati di cui sopra, in alcuni passaggi narrativi è usata alla stessa maniera in cui era già stato fatto in A to Z. Anzi, così tanto che sono andata a verificare che non si trattasse della stessa attrice, ma no, qui è Leslie Manville, lì era Katey Sagal. Almeno la memoria me le ha associate, poi magari a risentirle sono diverse. E in seguito, a secco di informazioni statistiche si direbbe, il voice-over si sofferma a fare affermazioni generali sulla protagonista. Si potevano tralasciare tutte le informazioni successive alla prima sulla quale si fonda il principio della serie, o quelle in cui il commento non offre nessun insight maggiore rispetto alla semplice visione: inutili.

Funzionerebbe meglio come più ordinaria storia di relazioni e di amicizia, con un ruolo maggiore ai comprimari, che energizzano le vicende della protagonista, come la migliore amica Sara (Zoë Chao) e il suo ragazzo Jim (Peter Vack) o Mallory (Sasha Compère). Nella prima parte della stagione in particolare, questi sono appena abbozzati, meri segnaposto.  

In questa rom-com ideata da Sam Boyd, poco "rom" e poco "com", insicurezze e  tediose banalità quotidiane sono in primo piano, un’illusione  ogni aspirazione ad essere la Sex and the City del 21° secolo. L’ho trovata anche gradevole, ma un po’ stantia, e la protagonista principale, sebbene una brava attrice, poco carismatica. Frustrante.

lunedì 5 ottobre 2020

I MAY DESTROY YOU: sulla "rape culture"

Il drink di una giovane donna viene drogato e lei, priva di coscienza, viene violentata. Quando si risveglia non ricorda quasi nulla. Fa denuncia dell’accaduto alla polizia, ma alla fine dei conti è un nulla di fatto. Questo è in soldoni il nerbo attorno a cui si costruisce la notevole I May Destroy You (BBC1 – HBO), serie ideata e scritta da Michaela Coel (Chewing Gum), che interpreta anche il ruolo principale di Arabella, una influencer di Twitter londinese che ha un contratto con una casa editrice per scrivere un libro. È proprio mentre si prende una pausa di un’oretta dal lavoro che le capita questo devastante evento.

Non è sicuramente la prima volta che in TV viene affrontato il tema delle bevande che vengono spiked ai fini di stupro,  penso ad esempio a Veronica Mars che su questo argomento ha costruito un’intera stagione. Qui suona più personale e crudo, e il tema del consenso si svolge in un momento storico in cui c’è una crescente “sintonizzazione” collettiva sulla rape culture in senso ampio.  Le puntate zig-zagano e riflettono su molti aspetti connessi (infra) e intersezionali (gender, orientamento e razza in primis), ma è nella finale che illumina il percorso fatto, con una valenza fortemente metatesuale in riferimento al ruolo della scrittura. Nel vedere la protagonista che febbrilmente lavora al proprio libro spostando dalla parente i post-it che ne costituiscono l’outline, si è assistito più nello specifico in questo segmento a un poioumenon - per utilizzare quel termine tecnico che indica un artefatto artistico che racconta la storia della propria stessa creazione – che ce la mostra come una narrazione intenta a scardinare le retoriche più usuali che nascono da queste premesse.

Arabella, che non riesce a ottenere giustizia dal canali ufficiali, perché la polizia non ha prove sufficienti, finalmente (1.11) e inaspettatamente ricorda quello che è accaduto e questa epifania la porta ad immaginare, contemporaneamente come scrittrice e come vittima, delle storie che chiudano e diano un senso a quello che le è accaduto: ora è una brutale, irrealistica ma catartica storia di vendetta, ora è una storia di compassione per il carnefice, ora è l’immaginarsi un incontro consensuale ed equilibrato. Alla fine nessuna di queste alternative è convincente, quello che accade è che la vita continua, in un modo che non fa rumore. Il “lieto fine” è avere successo grazie anche alla vicinanza e al sostegno dei propri amici, qui Terry (Weruche Opia), un’aspirante attrice, e Kwame (Paapa Essiedu).

Arabella non riesce più a scrivere, ha comportamenti erratici e maleducati, i social ne fanno un’eroina e la trasformano in una star, ma la demoliscono anche, è allo sbando, una “diavola” (come allegoricamente la fanno vestire per Halloween) senza direzione. Questi in parte sono gli effetti psicologici della violenza, perché i danni non sono solo il sangue e le ecchimosi che le foto registrano su ginocchia, inguine, testa, o le lacrime, e non sono solo nell’immediato. Ma in parte è anche carattere: è un personaggio respingente. Si droga nella vita privata, ha anche un ragazzo, Biagio (Marouane Zotti), che è un spacciatore italiano  - e alcune scene sono girate ad Ostia –, ha sotto il letto il “ricordo” di un aborto di cui si era dimenticata…ha un passato complicato e spesso si comporta male, ma questo non significa che “se la sia andata a cercare”. Le cose si mescolano, come nella realtà. E questo confondere le acque, questa indeterminatezza di reazioni la rendono vivamente umana.

Se la scotomizzazione (farmacologica o psicologica che fosse) da parte della protagonista foraggia tentativi di ricostruzione mnemonica dell’evento principale, il precipitato di quella stessa rape culture che lo ha causato si sostanzia in storie minori e orbitanti, che stratificano la riflessione. Si parla di stealthing, quando un suo partner sessuale toglie il preservativo senza che lei se ne avveda (1.04), ad esempio. Kwame, gay, subisce pure lui un violenza sessuale da parte di un altro uomo. (1.04). Quando  accompagna l’amica alla polizia, sente che “la gente non sa che cosa è un crimine e cosa non lo è, e non lo denuncia” (1.05). Lui sta male per quello che ha subito, ma lui stesso non è sicuro che quello che gli è accaduto sia infatti un crimine – c’è il sessismo che fa credere che un uomo non possa essere violentato, che gli debba piacere per forza. In cerca di superare l’esperienza va a letto con una donna, per rivelarle solo dopo di esser gay (1.08) e perpetra lui stesso un modello di disonestà che la ragazza non riesce a perdonargli. Pure, una giovane donna che gestisce un corso di auto-aiuto a cui Arabella partecipa, da ragazzina aveva accusato ingiustamente di violenza carnale un compagno di classe. Alla fine della puntata (1.06), scopriamo in modo sorprendente, agghiacciante, che lo aveva “imparato dalla madre” che la aveva costretta a mentire sul proprio padre accusandolo di molestie sessuali perché lei potesse ottenere la sola custodia della figlia. Lei era troppo piccola per capirne le implicazioni e aveva ubbidito a quello che la madre aveva chiesto di fare. Non mi pare che si vada nella direzione del dire che le vittime diventano per forza carnefici (la letteratura in proposito dice infatti che non è così), ma sicuramente si dice che certi comportamenti sono appresi e perpetuati da assenza di onestà e di dialogo e di mancanza di consapevolezza, e che il fondamento del cambiamento verso una cultura più salubre è il consenso. Riguardano la sfera sessuale, ma sono comportamenti che attengono ai rapporti di potere ed eventualmente al mancato rispetto reciproco.

Bisogna dar credito anche a una serie che riesce a rendere più audace un rapporto sessuale in cui lei ha il ciclo mestruale, e il partner maschile si sofferma ad esaminare affascinato un grumo di sangue, che non un menage a trois che avviene nella stanza accanto.

Situazioni sgradevoli e personaggi occasionalmente odiosi non la rendono una visione facile, ma non si può negare che sia una visione pregnante, e una narrazione rilavante.   


lunedì 28 settembre 2020

TCA Awards 2020: i vincitori

In ritardo rispetto al solito e senza cerimonia a causa della pandemia da COVID-19, ma comunque una settimana prima della consegna degli Emmy, il 14 settembre, sono stati rivelati i vincitori dei TCA Awards, ovvero i premi dei critici televisivi americani e canadesi della Television Critics Association.

Eccoli sotto:

Programma dell’anno: Watchmen (HBO)

Miglior Nuovo Programma: Watchmen (HBO)

 

Miglior Drama: Succession (HBO)

Miglior Film o Miniserie: Watchmen (HBO)

Miglior Comedy: Schitt’s Creek (Pop TV)

 

Miglior News a e Informazione: The Last Dance (ESPN)

Miglior Reality: Cheer (Netflix)

Miglior programma per ragazzi: Molly of Denali (PBS Kids)

Miglior  Sketch/Varietà: A Black Lady Sketch Show (HBO)

 

Miglior interpretazione  in un  Drama: Regina King (Watchmen, HBO)

Miglior interpretazione  in una Comedy: Catherine O’Hara (Schitt’s Creek, Pop TV)

 

Premio alla carriera: Alex Trebek

Heritage Award: Star Trek (CBS)


Personalmente sono soddisfatta delle scelte. Come tutti mi inchino al genio narrativo di Damon Lindelof. Io stessa avevo indicato l’attualissimo pregnante Watchmen fra le serie migliori del 2019. Ne avevo parlato qui. Se Succession non avesse portato a casa il riconoscimento come miglior serie drammatica sarei davvero rimasta sorpresa e delusa. Dal poco che ho visto di Schitt’s Creek pure sono soddisfatta.

Il solo risultato che avrei voluto diverso è quello della categoria “Miglior nuovo programma”, dove avrei voluto vincesse The Great, questo anche perché Watchmen ha già vinto in molte altre categorie e presumibilmente non avrà una seconda stagione. Qui, trovate insieme ai vincitori anche l’elenco dei nominati.

lunedì 21 settembre 2020

EMMY AWARDS 2020: i vincitori

 

Sono stati consegnati ieri gli Emmy Awards, gli Oscar del piccolo schermo. Ecco sotto la lista dei vincitori principali. Qui l’elenco completo, anche dei nominati. Posso solo commentare che ha vinto chi avrei fatto vincere io, almeno per quanto riguarda le categorie principali.


Miglior drama: Succession (HBO)

Miglior attrice, Drama: Zendaya, “Euphoria”

Miglior attore, Drama: Jeremy Strong, “Succession”

Miglior attrice non protagonista, drama: Julia Garner, “Ozark”

Miglior attore non protagonista, drama: Billy Crudup, “The Morning Show”

Miglior sceneggiatura per un drama: Jesse Armstrong, Succession (“This Is Not for Tears”)

Miglior regia per un drama: Andrij Parekh, Succession (“Hunting”)

 

 

Miglior  Comedy: Schitt’s Creek (Pop)

Miglior attrice, comedy: Catherine O’Hara, “Schitt’s Creek”

Miglior attore, comedy: Eugene Levy, “Schitt’s Creek”

Miglior attrice non protagonista, comedy: Annie Murphy, “Schitt’s Creek" 

Miglior attore non protagonista, comedy: Daniel Levy, “Schitt’s Creek”

Miglior sceneggiatura per una  comedy: Daniel Levy, Schitt’s Creek (“Happy Ending”)

Miglior regia per una comedy: Andrew Cividino and Daniel Levy, Schitt’s Creek (“Happy Ending”)

 


Miglior Limited Series: Watchmen (HBO)

Miglior attrice,  Limited Series o TV Movie: Regina King, “Watchmen”

Miglior attore, Limited Series o TV Movie: Mark Ruffalo, “I Know This Much Is True”

Miglior attrice non protagonista, Limited Series o Movie: Uzo Aduba, “Mrs. America”

Miglior attore non protagonista, Limited Series o Movie: Yahya Abdul-Mateen II, “Watchmen”

Miglior sceneggiatura per una Limited Series: Damon Lindelof and Cord Jefferson, Watchmen (“This Extraordinary Being”)

Miglior regia per una Limited Series: Maria Schrader, Unorthodox


martedì 15 settembre 2020

THE MAN IN THE HIGH CASTLE: se avessero vinto i nazisti

 

The Man in the High Castle, L’Uomo nell’Alto Castello, la produzione Amazon Prime basata sull’omonimo romanzo di Philip K. Dick del 1962 (La Svastica sul Sole in italiano), è una ucronia in cui le forze dell’asse hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale: gli Stati del Pacifico sono sotto il controllo giapponese, mentre la gran parte del resto degli Stati Uniti, salvo una piccola zona neutrale, sono sotto il controllo dei tedeschi. Roosevelt è stato assassinato e i nazisti hanno sganciato una bomba atomica su Washington.

 

Nelle quattro stagioni di 10 puntate ciascuna di cui si compone, il punto di forza di questa creazione di Frank Spotnitz è una trama molto solida e ben recitata: in generale la narrazione è molto appagante perché ben strutturata e ricca di colpi di scena imprevedibili che la rendono sia facile da seguire e in un certo senso entusiasmante, oltre che molto pregnante rispetto al commento che offre metaforicamente sulla realtà contemporanea. Visivamente è più ordinaria.

 

Prima sotto il potere del Führer Hitler (Wolf Muser, Santa Barbara) poi, dopo la morte di questi, di Himmler (Kenneth Tigar), seguiamo le vicende dell’Obergruppenführer delle SS, John Smith (Rufus Sewell, Victoria), che fa poi carriera, che vive inizialmente in periferia poi a Manhattan insieme alla sua famiglia, che ama molto: la moglie Helen (Chelah Horsdal) e tre figli, Thomas (Quinn Lord), membro della gioventù hitleriana, Amy (Gracyn Shinyei) e Jennifer (Genea Charpentier). Sua principale “avversaria” nel corso del tempo è la partigiana Juliana Crain (Alexa Davalos) che all’inizio delle vicende è legata a Frank Frink (Rupert Evans), il cui nonno ebreo lo mette a rischio di discriminazione, ma che viene presto intrigata da Joe Blake (Luke Kleintank), perennemente in bilico su da che parte stare. Fra i migliori amici di Juliana e Frank c’è Ed McCarthy (DJ Qualls), che avvia una collaborazione con Robert Childan (Brennan Brown), un pavido, ma astuto  antiquario che vende cimeli americani ai giapponesi. Presto la resistenza, e nella quarta stagione la BCR (Black Communist Rebellion), si fa più organizzata ed è oggetto di repressione tanto da parte tedesca quanto da parte nipponica. Su quel versante, due leader sono il Ministro del Commercio Nabosuke Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), poi una figura positiva, e l’ispettore capo della Kenpeitai di stanza a San Francisco Takeshi Kido (Joel de la Fuente), che si riscatta solo alla fine: “questi imperi per cui combattiamo sono solo castelli di sabbia. Solo le onde sono eterne” (4.08).

 

I film in possesso dell’uomo nell’alto castello del titolo, su cui da un lato i nazisti, dall’altro la resistenza cercano di mettere le mani, ritraggono versioni alternative della storia, della realtà. Se nella diegesi questo si spiega per la presenza di un multiverso, per cui in ogni universo parallelo ci sono varie alternative di noi, il senso per noi è che immaginare delle alternative alla realtà presente permette di attivarsi per cambiarla, per avere una Storia (passato condiviso) e una storia (narrazione) differenti. Vedere film cambia le menti delle persone, e questo è la precondizione perché ci possano essere dei cambiamenti, delle scelte diverse. Mondi paralleli, fra virgolette, mondi diversi sono nei fatti resi possibili grazie alle nostre scelte. Questo è il senso ultimo di quello che la serie dice: quello che accade non è nelle mani di Dio, è nelle nostre mani. E suppongo che si potrebbe fare un’analisi nei termini dei “mondi possibili” di Eco. 

 

La serie è particolarmente riuscita nel mantenere il protagonista nazista principale in una situazione ambigua. Evita di cadere nella trappola del “nazista buono”, che sarebbe un ossimoro e moralmente discutibile, tuttavia riesce a non renderlo nemmeno un irredimibile cattivo, nel momento in cui lo mostra come un uomo che, sconfitto e costretto ad accettarli per sopravvivere, non ha sempre creduto buoni i principi del Reich, salvo poi sostenerli e rendersi conto alla prova dei fatti quanto siano deleteri. E quando la sua famiglia rischia di venire compromessa dai principi, lui non mostra dubbio alcuno su che cosa sceglie: le persone amate. Contemporaneamente, facendo carriera, e volendo mantenerla, e temendo anche per la propria incolumità, non arriva a disconoscerli e a rinunciare al suo ruolo. In questo senso, la recitazione di Rufus  Sewell è particolarmente sensibile, perché infonde costantemente il personaggio della crescente consapevolezza di essere in trappola in una realtà che ha aiutato a creare e che mantiene, ma di cui vede l’obbrobrio. Questo si estende anche ad Helen, la più coraggiosa alla fine nell’interrogarsi sul che cosa siano diventati e sul cercare di arrestare questo processo che riconosce come criminale.

 

Uno degli aspetti salienti è che si guarda non al nazismo dei grandi eventi (veri o immaginati che siano), ma a quello domestico, quello della vita quotidiana delle persone comuni, di coloro che poi non lo vivevano così male perché in una situazione di privilegio rispetto a quelli braccati come topi. Questo si riflette nella messa in scena. Sebbene si evochino i grandiosi scenari del potere, la gran parte delle scene avviene in uffici, case, camere d’albergo, seminterrati, baracche…  Per certi aspetti fa più effetto vedere la madre di famiglia leggere l’etichetta di un indumento e vedere che c’è una sigla che sta ad indicare che è realizzato da mani ariane, che l’ennesima esecuzione. Sa essere raggelante, ma in questa domesticità ci si rende anche conto del perché ha potuto attecchire. E perché ignoriamo realtà altrettanto terribili intorno a noi.   

 

In maniera molto forte poi, si esamina la conseguenza della riflessione critica dei figli sui genitori. I figli vivono le conseguenze delle scelte materne e paterne, e non sono belle. Sono il seme della distruzione di quel regime, che evidentemente non può essere sostenuto. Nella seconda stagione, lo si esplicita nella scelta del figlio di John, che è idealmente imbevuto degli ideali nazisti, in uno dei twist della stagione più inattesi e coinvolgenti, forse dovrei dire sconvolgenti perché coerenti. In seguito la figlia maggiore di John in particolare comincia ad accorgersi delle menzogne, e della propaganda. Venuta in contatto con un’alternativa, vede la realtà e per quella che è. E su questo si può riflettere come sia facile mantenere dei regimi totalitaristici e dispotici lì dove non c’è permeabilità con delle alternative. Helen si rende conto che ha perso anche la figlia più piccola alla fine, perché la sua mente appartiene invece allo Stato, che le ha fatto il lavaggio del cervello. Il figlio di Takeshi Kido è considerato un eroe di guerra, ma soffre di disturbo post-traumatico da stress, e reagisce con violenza verso queste emozioni distruttive che non riesce a controllare.

 

La parte distopico-fantascitifica pure è coerente col disegno di dominio del mondo del Reich e la forza del programma sta proprio nel riuscire ha mostrare la pericolosità di certe idee nella confezione di un’avventura molto godibile.

 

sabato 5 settembre 2020

THE BOOTH AT THE END: un patto per ottenere ciò che desideri


Che cosa saresti disposto a fare per ottenere quello che desideri? È questa l’idea centrale intorno a cui ruota The Booth at the End, ideato da Christopher Kubasik.

Un uomo (Xander Berkeley), senza nome, propone alle persone che si rivolgono a lui un patto. Se loro eseguono esattamente quello che lui chiede, otterranno per certo quello che vogliono, qualunque cosa essa sia. In cambio vuole solo essere tenuto al corrente ed essere aggiornato sui dettagli. I compiti che affida sono semplici o difficili, atroci o piacevoli, non c’è una regola. Lui apre un quaderno da qui legge quello che devono fare, e in cui segna quello che i suoi clienti gli raccontano. 

Chi è? Non si sa. È forse Dio? È il diavolo alla Faust di Goethe? “Come so che non sei il diavolo?”, gli chiede una. “Non lo sai”, risponde. È uno sceneggiatore? Uno psicoterapeuta? La propria coscienza resa visibile, i propri meccanismi mentali a volte assurdi resi concreti? È l’intermediario di qualcuno? È la materializzazione del fato eschileo come suggeriscono su FestivaldelNerd? O magari è un esperimento di Milgram, per l’era digitale, come propone Lucy Mangan sul Guardian? Non abbiamo una risposta. Non solo, dice esplicitamente che non possiamo saperlo. E questa incognita gnoseologica è una delle cifre stilistiche su cui fonda la propria forza la narrazione.

C’è il padre che vuole che il figlio non muoia di leucemia, la ragazza che desidera essere la più bella, l’uomo che agogna che una  donna vista nel poster di una rivista si innamori di lui, la suora che ha perso la fede che vuole ritrovare Dio… E i compiti possono essere i più vari, da aiutare una vecchina ad attraversare la strada, a rapinare una banca, a piazzare una bomba o uccidere qualcuno…

Lui, l’uomo al tavolo al fondo di una archetipa diner americana, non costringe nessuno. Chiede ripetutamente ai propri clienti se vogliono continuare, non affida mai missioni impossibili, solo compiti che spesso le persone non vogliono svolgere, questo sì. Sta a loro decidere che cosa fare. Loro hanno la scelta. Vogliono davvero quello che hanno detto di volere? A che cosa sono disposti per averlo? Possono abbandonare i propri propositi in ogni momento, e sono liberi di scegliere come mettere in atto il piano, hanno libero arbitrio di cambiare idea e chiedere cose differenti. E non è detto che quello che vogliono poi non lo ottengano comunque, indipendentemente dall’accordo stipulato.   

Lui, di sè, non dice nulla. Nemmeno a Doris (Jenni Blong), cameriera della tavola calda, che cerca di capire chi è e di far sì che lui si apra con lei. Così come dichiara rigorosamente di non sapere molte delle cose che gli domandano, di come stiano andando, o su chi siano le persone con cui vengono in contatto.

La serie è costruita esclusivamente sui dialoghi fra l’uomo e i propri clienti, è quindi puramente conversazionale, quasi teatrale.  Non vediamo accadere niente, e tutto è ricostruito nella nostra fantasia attraverso le parole. Ci si interroga proprio sul desiderio, sulle scelte, sulla natura umana e su quello che saremmo disposti a fare per ottenere determinate cose. Io per me stessa credo di sapere bene a che cosa sarei disposta e a che cosa no. Però sarebbe diverso se avessi la certezza di avere quello che voglio?

E le storie, scopriamo pian piano, almeno alcune di esse, sono collegate. A un uomo viene chiesto di uccidere una bambina, a un altro di proteggerla. È la vita.

Purtroppo su Amazon Prime, dove è disponibile la prima, tutta con la regia di Jessica Landaw, di due stagioni di cinque puntate ciascuna, è possibile solo seguirla in italiano. Mi rammarico di questo non tanto per principio, perché è più bello avere l’opzione di vederla anche in originale (che solitamente scelgo), tanto più con un cast di prim’ordine come in questo caso, quanto perché la versione doppiata è mal sincronizzata, e questo un po’ rovina la qualità della fruizione.

È un racconto che è contemporaneamente intimo, perché poche cose ci rivelano a noi stessi come i desideri, ma anche molto distaccato, teso. Non sembra tradire emozioni il man at the booth, se non curiosità e sorpresa, e non giudica chi ha di fronte, né per quel che vengono a chiedergli, né per come decidono di attuare i propri compiti. Si pongono questioni filosofiche, esistenziali, etiche, sebbene ci sia un fondo in qualche modo sovrannaturale. C’è anche un’estetica molto “ordinaria”, quotidiana. A dispetto della premessa, non c’è niente di cervellotico.

Leggo su Wikipedia che il regista italiano Paolo Genovese ne ha tratto ispirazione per un suo film, The Place. La serie intanto, che è del 2010, è affascinante. Da non perdere. E se mi dispiace che sia stata cancellata dopo dope due stagioni, mi auguro di poter almeno vedere presto almeno la seconda, per ora inedita.

mercoledì 26 agosto 2020

AVENUE 5: delude, ma migliora


In Avenue 5, avventura comica di Armando Iannucci (Veep), siamo in un futuro in cui gli esseri umani vanno in crociera nello spazio.

A causa di una momentanea perdita di gravità artificiale e della morte dell’ingegnere capo, la nave interplanetaria del titolo, di proprietà dell’egocentrico, odioso  multimilionario Judd (Josh Gad), che pure è a bordo, si ritrova molti gradi fuori rotta, e al capitano Ryan (Hugh Laurie, House), che presto si rivela essere qualcuno di diverso da quello che tutti pensano che sia, tocca l’amaro compito di annunciare che il previsto viaggio di 8 settimane intorno a Saturno, si prolungherà: ci vorranno addirittura circa tre anni per tornare sul pianeta Terra. Equipaggio e passeggeri devono tenere la calma e imparare a convivere, ma sono arrabbiati.

Se le sparate del mercuriale, viziato Judd vengono gestite alla meno peggio dalla sua assistente personale Iris (Suzy Nakamura), al rapporto con la clientela è preposto Matt (Zach Woods, Silicon Valley), i cui tentativi di calmare tutti spesso hanno l’effetto opposto a quello desiderato, e la matura Karen (Rebecca Front) si fa portavoce delle esigenze dei passeggeri, fra cui il suo stesso marito Frank (Andy Buckley) e la coppia in crisi Mia (Jessica St. Clair) e Doug (Kyle Bornheimer, Worst Week). Chi cerca di venire a capo della situazione con delle soluzioni sono, sulla Terra, Rav Mulcair (Nikki Amuka-Bird), a capo della missione e sempre più stressata, anche per il costante scarto di tempo in cui avvengono le comunicazioni fra lo spazio e la base, e sulla nave la giovane ingegnera Billie (Lenora Crichlow, A to Z), anche se il suo contributo vorrebbe poterlo dare anche l’ex-astronauta Spike (Ethan Phillips). Ad alleggerire la tensione ci prova il giovane cabarettista Jordan (Himesh Patel).

Questa comedy inizialmente delude, ma prende vigore a mano a mano che procede. E anche se è facilmente interpretabile in modo metaforico-politico da Judd a Trump il passo non è lungo – non è sempre del tutto chiaro quale sia l’obiettivo della satira. Diversi dei personaggi (Judd, il capitano Ryan e Matt, in particolare) incarnano l’ossimoro fra quello che sono e quello che professionalmente dovrebbero essere chiamati ad essere: sono una farsa, l’assurdo di una società per cui è sempre più difficile distinguere realtà e apparenza – a questo proposito la season finale (1.08), in cui ciascuno reagisce in modo diverso all’ipotesi che la situazione in cui si trovano sia una simulazione, è emblematica. E una delle tematiche più interessanti che sono emerse è quella della competenza, e di come se non è esteticamente appetibile viene tenuta nascosta, e si premia invece la facciata più accattivante, anche se nasconde inettitudine.

Forse complice il fatto che in quarantena ho seguito la serie, in quella prospettiva si legge facilmente: persone bloccate in modo imprevisto in uno stesso ambiente, e persone a cui tieni che sono distanti. Con un tocco di antropologia sociale non indifferente (non credo di averne visto uno su questo principio dai tempi di Caprica), il capitano, il  cui matrimonio viene messo in crisi dalla situazione, è sposato non con una, ma con due persone – e i coniugi che gli chiedono il divorzio sono sulla terra.

Occasionalmente caustica, l’ilarità si potenzia nel tempo, e non solo perché conosciamo di più i personaggi, ma perché si riesce a costruire mungendo il più possibile umorismo da una stessa idea. Un esempio concreto è il fatto che ad un certo punto la nave deve espellere la cacca dei passeggeri che finisce, per effetto della gravità creata dal veicolo aerospaziale stesso, a rotearle intorno. La merda è davvero terreno fertile per battute e situazioni che montano con il tempo in vis comica – e causa di risate non solo scatologiche, ma anche allegoriche – e che mostrano l’abilità degli autori che, appunto, da una occasione iniziale continuano a cavare spunti.   

Scrive poi bene Troy Patterson sul New Yorker, che richiama ora l’Aereo più pazzo del mondo, ora Pirandello, Star Trek e Love Boat, quando dice che “(i) personaggi consumano un sacco di aria riciclata per criticare l’uno la dizione dell'altro, a lamentarsi del tono, a controllare le sfumature di connotazione, a sbuffare sul "gergo", a misurare la gestazione delle pause ricche di significato e, in generale, a trovare le figure retoriche gli uni degli altri”. Sebbene fino in fondo non convinca del tutto, non è sicuramente una commedia di autori alle prime armi e, rinnovata per una seconda stagione, avrà tempo di aggiustare la rotta.

domenica 16 agosto 2020

THE UNICORN: ricominciare dopo un lutto


Rinnovata per una seconda stagione, The Unicorn ha come protagonista Wade (Walton Goggins, The Shield, Justified), vedovo e ora padre single di due ragazzine adolescenti, Grace (Ruby Jay) e Natalie (Makenzie Moss), che cerca di capire come andare avanti dopo la morte della moglie. È quello che il suo gruppo di amici definisce un “unicorno” (da cui il titolo), ovvero una brava persona, senza grilli per la testa,  devota alla famiglia e con un buon lavoro – è un architetto paesaggista – che è in cerca di una nuova relazione e non ha paura di impegnarsi: una creatura elusiva che tutte le donne cercano, una rarità insomma. Un DILF (la versione maschile di MILF), come ha scherzato qualcuno. E i suoi tentativi di avviare una nuova relazione, sebbene con riluttanza, e il suo ruolo genitoriale ora che è sua sola responsabilità sono il fulcro di questa commedia scaldacuore dove il grande motore che fa sì che la vita continui è l’amicizia. Wade può infatti contare sul supporto, e le spinte, di Forrest (Rob Corrdry, The Daily Show with Jon Stewart) e Delia (Michaela Watkins, Casual), lui specialista in risorse umane, lei pediatra, e di Ben (Omar Benson Miller) e Michelle (Maya Lynne Robinson), genitori oberati di quattro figli.

La serie di ritrova necessariamente ad affrontare il tema della perdita. In 1.03 il protagonista viene spinto dagli amici a rivolgersi a un gruppo di aiuto-aiuto di persone che hanno perso il  proprio partner di vita, come modo di affrontare la propria rabbia. Il primo impatto non è dei migliori, perché le vedove son tutte donne, parlano molto di sesso e sebbene lui non sia puritano, si sente fuori luogo. Ci riprova però e riesce a trovare una connessione proprio sul tema della rabbia, trova la legittimazione a provarne – ha diritto di essere arrabbiato di quello che gli è successo -  e a sfogarla in modo produttivo. La figlia minore a sua volta trova il modo di manifestare la propria rabbia per le cose che stanno cambiano e per il modo in cui lei si sente lasciata in disparte.

In realtà però non è tanto il lutto a farla da padrone. Altrimenti, come After Life, ben ha dimostrato recentemente, uscire con qualcuno che ha appena subito la perdita di una persona tanto amata tanto facile non è. Qui è trascorso più di un anno dal funerale e sono le piccole grandi quotidianità delle vita ordinaria a dominare la scena, in particolare la difficoltà a trovare una persona con cui si possa davvero andare d’accordo al punto da condividere la vita su base stabile, con la prospettiva di una persona ormai matura. La forza del programma è quella di trattare con una certa intelligenza la propria premessa: anche nel mostrare l’inesperienza del protagonista  in certi aspetti dell’educazione delle proprie figlie, ma di non lo fanno apparire un’inetto ai fini di strappare una facile risata.

Nulla di quanto accade sulle schermo è in realtà particolarmente divertente. Si sorride, ma non ci sono grandi risate, ma c’è un tono fine e gentile che la rende amabile. E in finale di stagione (1.18), in cimitero, grazie a una puzzola, si mette in campo quello che con ogni probabilità potrà essere l’interesse sentimentale (Natalie Zea) del protagonista nel prosieguo delle vicende.

Ideata da Bill Martin, Mike Schiff e Grady Cooper, questa sit-com non rivoluziona certo il genere, ma rinverdisce il classico “una famiglia di amici” con un cast davvero di prim’ordine.  

giovedì 6 agosto 2020

THE GREAT: godibilissima


Huzzah!”, come esclamano di continuo i suoi personaggi,  “urrà!”: l’esilarante, effervescente The Great (dell’americana Hulu) è stata rinnovata per una seconda stagione. Una postilla al titolo di dice che è “una storia occasionalmente vera” questa rivisitazione della vita di Caterina di Russia ad opera di Tony McNamara, sceneggiatore australiano noto per la serie Doctor, Doctor, ma soprattutto per la nomination all’Oscar per La Favorita , che l’ha basata su una sua precedente opera teatrale del 2008.

Siamo nella Russia del XVIII° secolo. La diciannovenne (nelle vicende)  Caterina (Alle Fanning), una principessa tedesca (in realtà prussiana), sposa Pietro III (Nicholas Hoult), figlio di Pietro il Grande (questo nella serie, non nella storia vera, dove gli era nonno materno). Colta e imbevuta di idee illuministe, vuole portare grandi rinnovamenti, ma si trova dinanzi all’inettitudine a allo scarso interesse del consorte, più interessato a gozzovigliare che altro, e a dilettarsi sotto le lenzuola con la moglie del suo amico Grigor (Gwilym Lee), Georgina (Charity Wakefiled), cosa che entrambi accettano per lo status che ne hanno come conseguenza, ma lui in particolare molto a denti stretti. Caterina studia la possibilità di prendere lei il trono, supportata da quelli di cui si circonda a corte, fra cui Marial (Phoebe Fox), una nobildonna caduta in disgrazia per i torti del padre a Pietro, ora sua cameriera, e il verginale, pavido, studiosissimo conte Orlo (Sacha Dhawan), consigliere imperiale. Il marito poi le “regala” un amante con cui divertirsi, Leo (Sebastian De Souza) e inizialmente lo accoglie con riluttanza, ma poi fra i due nasce l’amore. Questo con grande dispiacere del generale Velementov (Douglas Hodge), che ha una cotta per lei, ed è spesso impegnato in guerra – che stanno perdendo contro gli svedesi. A dare dritte alla futura imperatrice è la zia del sovrano (Belinda Bromilow, consorte nella vita reale dell’ideatore), mentre chi la osteggia è l’arcivescovo “Archie” (Adam Godley, Lodge 49) che come capo della chiesa è ostile ad ogni innovazione che la donna propone: l’arte, la scienza, la stampa…

Gli interpreti dei due protagonisti principali recitano davvero alla perfezione, con grande verve, i propri ruoli: se tutti sono molto abili nel riuscire a far passare come sono “ostaggi” dei capricci del sovrano, la Fanning riesce a trasmettere l’entusiasmo e la voglia di innovazione mescolati alla realizzazione continua che la sua ingenuità si scontra con una realtà molto gretta – rendersi conto appena arrivata che le sue dame di compagnia non sanno leggere è un colpo – ed è contemporaneamente appassionata, e sognatrice, ma allo stesso tempo molto concreta e calcolatrice, se necessario; Hoult sceglie non solo di rendere il suo personaggio capriccioso e infantile, ma anche completamente disinibito e, nel suo egocentrismo totalmente autoassorbito e perennemente autocelebrativo che non riesce nemmeno a immaginare che tutti non lo adorino, riesce a infondere umanità. Se non fosse così perfettamente calibrato potrebbe riuscire facilmente odioso, invece riesce perfino a elicitare tenerezza.

Sono convincenti nella più assurda delle situazioni e hanno un tempismo comico invidiabile. Non credevo che avrei mai potuto ridere così tanto nel sentire citato Diderot, ma quando nel pilot, lei ne legge un passaggio al marito, la reazione di lui è particolarmente incisiva per il lasso di tempo che ha saputo tenere prima della risposta. E ugualmente sul tempo è giocata la “prima notte” dei reali. Marial vuole assicurarsi che la madre abbia informato Caterina su che cosa aspettarsi la prima volta. Lei sembra più informata del necessario perfino: fa una lunga, lunghissima descrizione poetica su quello che si aspetta. Non solo il lungo soffermarsi sui particolari è buffo in sé e per sé, ma rende cocente la delusione dell’atto successivo, che avviene in modo particolarmente crudo e sbrigativo. Il riso diventa presto amaro.

C’è  anche parecchia brutalità nella serie tutta – uno per tutti le deste decapitate dei nemici offerte insieme al dessert (1.02) – e si affrontano anche tematiche che hanno rilevanza nella contemporaneità – in “A Pox of Hope” (1.07), quando il servo Vlad (Louis Hynes, Una serie di sfortunati eventi) contrae il vaiolo, si parla di variolizzazione, e c’è una sorta di discussione fra vax e no-vax ante-litteram.

C’è sufficiente irriverenza nella scrittura e messa in scena che non si corre il rischio di prendere per vere quelle che sono evidenti licenze poetiche ai fini di ilarità. In questo modo e attraverso questo filtro si nascondono però molte verità storiche che vanno al di là degli eventi, ma che riguardano gli atteggiamenti egli elementi culturali che informano un periodo storico, come nel caso del dispotismo o della misoginia, del potere e dell’ambizione, della cultura e delle idee, della crudeltà senza senso e dei meccanismi di forza che li tengono in vita, della diversa percezione di ciò che è pubblico o privato, dell’opulenza oziosa della classe dirigente in contrasto con la sorte dei sottoposti, della forzata ipocrisia della corte, da cui spesso dipendeva la vita stessa, che è qui un filo conduttore importante.

A tratti assurda, anacronistica e rozza, confezionata in un look ricercato, è una satira affilata capace di tenere salde le redini e piena di sorprese, con momenti anche romantici (penso al doloroso finale): godibilissima. E per me, senza ombra di dubbio, una delle serie migliori dell’anno.