giovedì 20 marzo 2025

SQUID GAME: la seconda stagione

Sono passati tre anni dagli eventi della prima stagione di Squid Game, sia nella diegesi che per la messa in onda, e torniamo a respirare la stessa aria brutale e terrificante di allora – avevo parlato della prima stagione al link sul titolo e i principi lì espressi rimangono validi anche per questa. Forse alla ferocia si è aggiunta anche una nota di sadismo, o forse sono più sensibile io che ho trovato più difficile della scorsa volta stomacare tanta violenza. Se quando ho seguito la prima stagione non c’era il doppiaggio in italiano, questa volta sì, e ho deciso perciò di seguirlo doppiato nella nostra lingua e mi pare che abbiano fatto un buon lavoro.

Continua ad essere quello che Daniel Fienberg dell’Hollywood Reporter ha ben definito una serie sulla disperazione economica, anche se lui la stronca. Se è evidente che la seconda stagione, e la terza il cui debutto è previsto per il 27 giugno, è stata fatta per mungere il successo della prima, non di meno la serie ha avuto ancora da dire e per me il messaggio forte in questo caso è stato “finchè il mondo non cambierà, il gioco non si fermerà” (2.02), non importa quanto lo vuoi, quanto ti sgoli perché accada. Forse è ancora più esplicito, semmai fosse stato necessario, il fatto che il sistema capitalista che mette il denaro davanti a tutto, vede le persone con una vita al limite perché schiacciate dai debiti come spazzatura, come “scarafaggi”. Progetto di seguire anche la prossima stagione, ma più per completismo che per vero desiderio di proseguire, per quanto io sia curiosa di vedere come lo chiudono. Lo trovo intelligente e in una certa misura anche appassionante, ma non è una visione facile. 

Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), vincitore della precedente edizione dei giochi, si rende conto dell’aberrazione che sono, e decide di fermarli. Si ritrova a doverli giocare nuovamente, sempre con il numero 456. Torna anche quello che un tempo era stato il frontman dei giochi, Hwang In-ho (Lee Byung-hun), che ha preso il posto di giocatore 001 dal creatore originale del gioco, ma di cui nessuno conosceva l’identità dal momento che era in precedenza mascherato. Questi due personaggi sono pensati, come ha proprio spiegato l’autore stesso Hwang Dong-hyuk (si veda lo speciale post-seconda stagione), l’uno come l’opposto dell’altro, ovvero il primo come fiducioso nella bontà ultima dell’essere umano, il secondo come convinto nella sua corruttibilità e detestabilità, che incarnano in prima persona. Fra i personaggi tornano c'è anche Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon), il poliziotto che già in passato si era infiltrato sull'isola per cercare il fratello scomparso, che si era scoperto essere proprio il frontman, e che ora cerca di ritrovare il luogo, e il reclutatore (Gong Yoo), simbolicamente micidiale nelle scene in cui fa scegliere a dei senza tetto del pane o in alternativa dei biglietti della lotteria.

Il primo gioco è lo stesso, gli altri cambiano, e mantengono lo stesso spirito, la stessa grottesca eppur mortale semplicità. In pista sono nuovi disperati: un ex marine amico di Gi-hun alle prese con il divorzio dalla moglie e il fallimento del negozio di famiglia, un padre con spese mediche da pagare per la figlia malata di leucemia, un ex militare che si sta sottoponendo alla transizione di genere, una anziana che è sopravvissuta alla guerra di Corea e suo figlio, una giovane incinta senza famiglia, un ex influencer che ha causato la rovina economica di diversi dei giocatori con i suoi suggerimenti finanziari rivelatesi delle truffe anche ex fidanzato della ragazza incinta, un rapper, “Thanos”, sempre mezzo strafatto, un anziano che ha un debito di 100 miliardi di won, una pseudo-sciamana mezza folle…

Sono tornati anche i controllori di “quel gioco maledetto” con le loro maschere con quadrato, triangolo e cerchio, simboli che indicano il loro rango in ordine da più alto a più basso e che rappresentano le lettere coreane che sono l’inizio del nome coreano di Squid Game. Dall’anonimato emerge in questa stagione la storia di una di loro, Kang No-eul (Park Gyu-young), che dopo aver disertato dalla Corea del Nord lavora in un parco di divertimenti e, quando sono in corso, come cecchino in questi giochi. Riconosce fra i partecipanti il papà della bambina malata, che le aveva regalato un disegno nel suo altro lavoro. Lei vuole guadagnare quello che le serve per trovare e riunirsi alla figlia, è lei stessa è vittima di minacce e violenza dal momento che quando vede qualcuno agonizzante, ma non morto, cerca di finirli, cosa che non sta bene a chi vuole esportare gli organi dei poveri malcapitati. Nessuno è immune dalla società crudele che si è costruita.

Più che non in passato ci si sofferma su lunghe scene in cui i giocatori devono votare se interrompere o continuare i giochi, che avviene alla fine di ogni prova, con gli uni che cercano di convincere gli altri e di portarli dalla propria parte spiegando le proprie ragioni. Forse ha rallentato il ritmo, ma l’ho trovato un bel commento sulla democrazia e su come funziona, anche su come si rimane incastrati da voti che legano la propria vita a decisioni aberranti che per se stessi non si vogliono e di come ci sia spesso una letterale guerra fra poveri.

Il finale rimane sospeso, perché come è evidente da subito, la terza stagione è di fatto semplicemente il prosieguo di questa.

lunedì 10 marzo 2025

BAD SISTERS: la prima e la seconda stagione

Remake (nella prima stagione) di Clan, serie televisiva fiamminga del 2012, Bad Sisters (Apple TV+) è una black comedy irlandese sviluppata da Sharon Horgan, Dave Finkel e Brett Baer, che l’hanno poi proseguita per una seconda. Quest’ultima ha forse avuto un lieve calo rispetto alla impeccabile prima, ma è stata comunque dinamica ed intrigante, piena di colpi di scena e un ritmo invidiabile.

Protagoniste sono le cinque sorelle Garvey, che vivono a Dublino. Eva (Sharon Horgan, Catastrophe), la primogenita, si è presa cura delle più piccole dopo la morte dei genitori. Lavora in uno studio di architettura. È single e non può avere figli. Grace (Anne-Marie Duff, Shameless, Sex Education) è sposata con John Paul (Claes Bang), collega della sorella Eva, un uomo fortemente controllante che la sminuisce di continuo, annullandola, ma di cui è innamorata e con cui ha una figlia, Blánaid (Saise Quinn). Ursula (Eva Birthistle) è un’infermiera. Sposata con tre figli che ha anche una relazione extraconiugale con il suo insegnante di fotografia. Bibi (Sarah Greene), che porta una benda dopo aver perso un occhio in un incidente, è lesbica ed è sposata con Nora e madre adottiva di un bambino. Becka (Eve Hewson, figlia del cantante Bono, giusto per curiosità), la più giovane di loro, è una terapista del massaggio che aspira ad aprire un proprio studio

A SEGUIRE SPOILER RISPETTO ALLA TRAMA.

Nel corso della prima stagione Eva, Ursula, Bibi e Backa si alleano per tentare di uccidere, senza successo, Jean Paul, il marito di Grace, per come tratta lei e loro. Alla fine lui muore comunque (e scopriremo come). La narrazione si sposta continuamente fra il presente in cui l’uomo è finalmente morto e il passato, che ci mostra le costanti angherie di lui, a cui vorremmo tirare il collo noi stessi e in cui si crea indubbiamente empatia nei confronti della protagoniste che lo vorrebbero eliminare e, in modo assai esilarante, mostra i loro variegati tentativi di faro. Grace dovrebbe ritirare la cospicua assicurazione sulla vita, ma trova la resistenza degli agenti di assicurazione della Claffin & Sons che fallirebbero se pagassero. Thomas ("Tom") Claffin (Brian Gleeson) cerca perciò di fare di tutto per dimostrare che non lo debbono fare, con l’aiuto anche del fratellastro Matthew "Matt" (Daryl McCormack) che, inizialmente all’oscuro di chi sia nella vicenda, comincia una relazione con Becka. Nelle vicende è anche coinvolto il vicino di casa di Grace, segretamente innamorato di lei, Roger (Michael Smiley).

Nella seconda stagione sono passati due anni dalle vicende della prima (così come due anni dalla messa in onda): Grace si risposa con Ian (Owen McDonnell), ma presto è lei stessa a morire. Le sorelle vogliono scoprire la verità e pensano possa essere coinvolta la sorella iper-religiosa del vicino Roger, Angelica (Fiona Shaw). E se l’ispettore della polizia  Fergal Loftus (Barry Ward) comincia a mollare la presa sulle investigazioni perché sta per andare in pensione ed è preso dalla vicenda personale dell’ex-moglie che vuole portare all’estero la figlia, la nuova giovane e brillante detective Una (Thaddea Graham) ha l’entusiasmo della neofita e la persistenza di un cane con un osso e sta sempre loro addosso. Anche in questo caso si arriva alla soluzione e viene scoperto come è andata e cosa ha condotto alla morte dell’amata Grace. La musica assume qui e lì delle sfumature alla The White Lotus.

L’accattivante sigla di apertura (stagione1) mantiene un filo conduttore nel senso che, pur essendo le immagini diverse, mostra sempre una macchina di Rube Goldberg, ovvero un domino a cascata fra vari oggetti, sottolineata dal tema musicale che è una cover di “Who by Fire” di Leonard Cohen eseguita da PJ Harvey. Azzeccatissimo. Se nel primo arco la tensione e l’umorismo dark derivano dall’escogitare nuovi modi per uccidere Jean Paul che proprio non vuole morire, e dal fallimento di ogni tentativo, nella seconda stagione questo è assicurato da una serie di incidenti che rischiano di far accusare di omicidio le sorelle in questo caso innocenti, minacciate però dal vero colpevole.

La prima stagione è solo in parte una revenge story, perché le quattro sorelle si coalizzano per liberare la sorella da quello che via via si rivela un sociopatico e proteggere la nipote, non per vendicarsi, ma quello è certamente un bonus dato che hanno loro stesse validi motivi di odiarlo: Eva viene abilmente tormentata da lui perché non può avere figli, e si scopre poi che l’ha violentata; Ursula viene ricattata e riesce a farsi mandare da lei con l’inganno una foto osé; Bibi deve la perdita del suo occhio a un incidente causato da lui; e Becka vede sfumare i propri sogni dopo che lui le promette poi negando un investimento economico a un suo progetto; Roger, viene accusato di essere un pedofilo a causa di deliberati tentativi di lui di farlo passare per tale. Insomma, si merita l’appellativo di “prick”, “coglione”, “cazzone”, ma credo (l’ho letto ma non visto) tradotto “minchione” nella versione italiana. È razzista, omofobo, non perde occasione di ferire.

Forse per far accettare la scelta (im)morale delle protagoniste, Jean Paul non ha elementi che possano redimerlo, è cattivo e basta. E se qui la storia è una freccia scoccata che tira dritto, la seconda stagione è più tortuosa, “frangiata”, ma ugualmente incalzante e riesce in ogni caso da andare a segno. Una terza stagione la vedo forzata perché ci si tiene comunque ad un certo realismo, e tornare su certi schemi potrebbe richiedere un’eccessiva sospensione dell’incredulità. Devo ammettere che mi riuscirebbe gradita comunque. Tutte le interpretazioni, dalle protagoniste ai comprimari, sono brillanti ed è magnifico il rapporto di sorellanza che si ritrae: donne che si amano, si proteggono, si fidano e confidano, condividono il bene e il male e ci sono sempre l’una per l’altra. 

venerdì 28 febbraio 2025

SHŌGUN: un lodatissimo polpettone

Ho trovato che Shōgun (Disney+) sia stato ben realizzato e ben recitato e, tratto dal romanzo del 1975 di James Clavel basato su fatti storici (anche se i nomi rispetto agli eventi reali sono stati cambiati), che fosse narrativamente ben costruito, ma contemporaneamente lo ritengo sopravvalutato dalla critica genericamente intesa che lo ha lodato profusamente e ricoperto di riconoscimenti – è stata la serie più premiata nella storia degli Emmy: ne ha ricevuti ben 18, compreso quello per la miglior serie drammatica, per cui ha vinto anche il Golden Globe, che si è portata a casa anche per le altre categorie per cui era candidata.

Siamo nel 1600 in Giappone (si è girato in giapponese, lì dove i personaggi lo erano, ed eventualmente in inglese, ma le riprese sono state fatte in Canada) e con la morte del Taiko si è quasi sull’orlo della guerra civile: il potere è diviso fra cinque reggenti il cui compito è quello di proteggere l’erede, ma ci sono contrasti fra loro. La nave olandese Erasmus naufraga su una penisola di pescatori, nella zona a Sud di Edo. I membri dell’equipaggio vengono subito uccisi (uno viene bollito vivo), ma non l’inglese John Blackthorne (Cosmo Jarvis, forse il meno convincente fra gli interpreti) che chiamano l’Anjin, il “pilota”, quando non semplicemente “il barbaro”. I cattolici locali portoghesi rappresentati dal padre gesuita Martin Alvito (Tommy Bastow) insinuano che è un pirata per eleminarlo da una potenziale concorrenza commerciale  ̶  lui che è protestante e stava cercando di scoprire quale fosse la rotta per il Giappone tenuta segreta dai portoghesi per avere il monopolio. A dispetto di simili accuse, il feudatario locale Kashigi Yabushishige (Tadanobu Asano) decide di risparmiarlo. Viene fatto condurre a Osaka da uno dei reggenti, Yoshii Toranaga (Hiroyuki Sanada), che gli altri accusano di tradimento perché è il più potente fra loro e lo temono, e questi lo tiene al suo servizio imparando ad apprezzarne le doti. Toranaka accosta a John come interprete la nobile Toda Mariko (Anna Sawai, molto migliorata da Monarch) che, convertita alla fede cristiana, sa l’inglese. Fra i due nasce l’amore (una scelta di finzione: i corrispettivi della vita reale non hanno mai avuto una storia), oltre che un profondo rispetto, e John impara molto sulla cultura locale che, fatta di regole e feroci fedeltà, spesso non riesce a comprendere del tutto, soprattutto quando non sembra dar peso alla vita umana. Emblematico è stato quando un giardiniere si è ucciso per un ordine banale (1.05).

Non ho letto il romanzo, né visto la precedente miniserie che ne era stata tratta negli anni ’80 che aveva Richard Chamberlain nel ruolo di Blackthorne, e quindi non riesco a fare un paragone, anche se leggo che questa versione è stato molta accurata rispetto al materiale di origine e che ci sono voluti molti anni – una decina, pare - a traslare la storia sul piccolo schermo. Un pro è sicuramente che si è evitato un eccesso di eurocentrismo, visto che oggidì siamo più consapevoli di prospettive altre, voglio credere. Mike Hale sul New York Times, che ben osserva che fra i punti di forza ha il fatto di non essere “eccessivamente sentimentale o sensazionalista” scrive che “se i creatori dello show mostrano una maggiore sensibilità agli stereotipi, ciò non impedisce a questo ‘Shogun’ di mostrare i segni di un familiare giapponismo cinematografico. È presente nella feticizzazione della morte (ricorre il seppuku) e nel contrasto centrale tra l'individualismo occidentale di Blackthorne e la devozione al dovere e al sacrificio dei personaggi giapponesi. Il sesso è estetizzato; una cameriera è membro di una gilda segreta di assassini (anche se il personaggio non è più una ninja a tutti gli effetti, come nel 1980). Il dialogo continua a sbocciare in poesia”. Tutto vero, ma se sono peccati sono veniali, perché in parte sono effettivi elementi di quella cultura e sensibilità.

È un opulento (leggi anche estremamente costoso) affresco di un periodo storico, tratteggia con forza scontri di potere condotti con molta eleganza e diplomazia apparentemente invisibile, lascia un intenso sottotesto di rivalità religiose che mascherano l’interesse per “seta, oro e armi”, parla di strategia di guerra, e delinea molto bene i suoi personaggi in un contesto che ha molto di esotico, indubbiamente parte del fascino della serie, che introduce anche espressioni giapponesi che impreziosiscono il dialogo. La forza sta nel descrivere eventi epici, con intense eppur misurate interpretazioni che mostrano passioni trattenute, dominate, secondo una classica tradizione del Sol Levante. Luke Winkie su Slate dice: “è divertente, violento, straordinariamente sciocco, spesso incisivo e, soprattutto, totalmente leggibile: un'impresa abbastanza rara che merita di essere sottolineata”. Concordo su quest’ultimo aspetto nel senso che dà delle coordinate di base su quell’epoca, ma non ti serve un’enciclopedia per capire “il patrimonio coloniale dei domini protestanti e cattolici, il decoro militare giapponese, le sottili linee di distinzione tra impero e shogunato, e così via”, e non si mette a farti lezione, cosa che avrebbe appesantito ulteriormente la narrazione.

Viste le lodi sperticate che ha ricevuto dalla critica, mi sfugge qualcosa di questa creazione di Justin Marks e Rachel Kondo, perché la sensazione finale per me è comunque che questa miniserie sia stata ben realizzata, con tutti gli elementi al posto giusto, ma che in definitiva sia un polpettone con scarso impatto emozionale.

martedì 18 febbraio 2025

INDUSTRY: una fenomenale terza stagione

“Il denaro doma la bestia. Il denaro è pace. Il denaro è civilizzazione. La fine della storia è il denaro”: così dice Eric (Ken Leung) nel suo ispirato discorso aziendale nella season finale di una fenomenale terza stagione di Industry, ideata dagli ex-consulenti finanziari Mickey Down e Konrad Kay, parole, confesserà poi, che ha preso a prestito da un racconto di Denis Johnson pubblicato sul New Yorker nel 2014 intitolato “The Largesse of the Sea-Maiden”, da cui il finale della terza stagione trae il titolo: “Infinite Largesse”. 

La serie (HBO – BBC1; ho parlato della prima stagione qui e non ho invece scritto sulla seconda) è fenomenale, una delle migliori in assoluto, e in crescita, per cui mi rammarico che ancora in Italia non venga trasmessa. In realtà, pur essendo il denaro e l’etica capitalista necessariamente molto visibili per una narrazione ambientata nel mondo dell’alta finanza, è stato meno il fulcro in questo arco (la messa in onda originaria è andata dall’11 agosto al 29 settembre 2024), più interessato ai rapporti di classe. È stata proprio uno studio su quei rapporti, sulla difficoltà di cambiare classe sociale nonostante il portafoglio di cui uno possa ritrovarsi a godere e nonostante l’illusorietà della mobilità sociale; in un conteso come quello britannico che fa da sfondo alle vicende, anche sull’inevitabilità del classismo. E parallelamente, in mezzo agli intrighi, la politica, la plutocrazia, i media, la società, il privilegio, la pressione performativa sul lavoro, la meritocrazia, il desiderio, il passato, è uno studio sui personaggi ognuno a modo loro spezzato dalla vita, ma che cercano di andare avanti nonostante tutto.

ATTENZIONE SPOILER IMPORTANTI  

La Pierpoint  ̶  la banca londinese per cui lavorano i protagonisti e che nelle battute finali (3.08) verrà chiusa sei mesi dopo l’egregio lavoro di Eric di coinvolgere i finanziatori egiziani Al-Miraj per tenerla a galla  ̶  investe in un’azienda che è in procinto di essere quotata in borsa, la Lumi, il cui CEO è Sir Henry Muck (basta cambiare una lettera del cognome e si capisce facilmente che tipo di multimiliardario visionario intende rappresentare), interpretato da un Kit Harrington che dimostra di non essere memorabile solo come il Jon Snow di Game of Thrones. Presto lui comincia a mostrare interesse per Yasmin (Marisa Abela), alle prese con la scomparsa del padre, Charles (Arthur Levy), accusato di appropriazione indebita per aver sottratto soldi alla propria casa editrice, la Hanani Publishing. In seguito (3.06), con dei flashback si viene a scoprire che, in vacanza in Italia sullo yacht del padre, dopo una feroce litigata con lui durante la quale lei gli augura la morte, lui ubriaco si è buttato in acqua per stizza e ripicca, e lei non ha fatto nulla per aiutarlo mentre stava affogando ed è così morto. A saperlo è solo Harper (Myha'la Herrold), che alla fine della stagione precedente era stata licenziata dalla Pierpoint per aver falsificato le proprie credenziali sul curriculum, e ottiene un lavoro come assistente esecutiva in una piccola azienda, dove conosce una manager di portfolio, Petra (Sarah Goldberg), con la quale si mette in affari. Harper è brillante ma senza scrupoli: Otto (Roger Barcley), padrino di Henry, la saluta con un “ecce Brute”, in una di quelle gemme di dialogo (3.08) che fanno apprezzare una volta di più la serie. Robert (Harry Lawtey), dopo che si ritrova la propria cliente che lo usava come boy toy morta a letto, diventa una sorta di liaison fra la Henry e la Pierpoint. L’amicizia fra lui e Yasmin li conduce finalmente ad ammettere l’amore l’uno per l’altra, ma il giorno stesso in cui fanno l’amore lei decide di sposare Henry (3.08) in un gran colpo di scena. Rishi (Sagar Radia) è perseguitato da crescenti debiti di gioco che conducono all’assassinio a sangue freddo di sua moglie davanti ai suoi occhi nel girono del proprio compleanno. Sweetpea (Miriam Petche) è una nuova assunta alla Pierpoint, che a fine stagione viene chiusa, come dicevo a inizio paragrafo. Lei ed Eric si ritrovano così senza lavoro.

Tutti gli eventi portano ad un calo di sipario su una fase della serie, che finora può essere descritta come un incrocio fra Succession, Mad Men e qualcuno ha azzardato anche Girls. Allo stesso tempo è un mondo a parte che mai abbiamo visto in TV, con un linguaggio proprio (per me difficile da comprendere sinceramente, e non per l’inglese, in italiano sarebbe uguale, l’alta finanza non fa per me). Non c’è uno stile espositivo, ma il ritratto caratteriale di ciascuno, e le debolezze e i punti di forza di ciascuno bene emergono dalle relazioni, dalle interazioni reciproche.

È brutale e feroce, implacabile. Basti pensare a “Nikki Beach, or: So Many Ways to Lose" (3.06) puntata in cui Yasmin ricorda quello che è accaduto con col padre e quella in cui lei e Harper si distruggono verbalmente a vicenda: Yasmin la accusa di trovare utile per sè stessa il suo dolore, Harper le vomita addosso gli stessi dolorosi insulti del padre: “senza talento, puttana, inutile”.  Le persone sono un mezzo per un fine (3.06) e “la verità non è importante” (3.07). Un altro buon esempio è il ludopatico Rishi, naturalmente, quando viene pestato e si presenta al lavoro sanguinante (3.04), per cui nessuno mostra preoccupazione, e la morte della moglie alla fine ci porta ai limiti de I Soprano. Ed non si può non pensare a Eric, licenziato senza mezzi termini.

È priva di sentimentalismo. Yasmin e Robert si ameranno anche, ma appartengono a due mondi diversi, e Robert non se la prende nemmeno quando vengono annunciate le  nozze di lei con Henry nella season finale. Intorno a una lunga tavolata la regia fa scomparire tutto e rimangono idealmente soli i due innamorati: “mi dispiace” dice lei; “capisco” replica lui. Ma il vero brillante gioiello di scena è quando si fermano a una stazione di servizio sulla via per la tenuta di Henry. Lei lo vede grattare un “gratta e vinci” e cristallizza una volta in più (altre volte ci sono riferimenti, ad esempio col cibo) che lui viene dalla working class, diversamente da lei. 

È capace di convivere con l’ambiguità. A fine stagione Yasmin prende con sé una dipendente dello yacht su cui era stata in Italia, che al tempo era incinta, che aveva visto sul suo letto far sesso orale con suo padre. La donna è esplicita nel dire che, in altre occasioni, c’erano state molte bambine in quei party. Scene intense, anche per la reazione e per come sono costruite, ma noi pubblico rimaniamo con il dubbio se anche Yasmin sia stata molestata dal padre da piccola. Questa incertezza esiste anche sul piano finanziario, dove ci sono molti avvenimenti e piccoli colpi di scena, l’idea è che i mercati siano solo “fumo e specchi” (3.02), ma indistinguibili dalla realtà, perché la percezione è la realtà: “il denaro è un’illusione. È un costrutto sociale basato sulla fiducia” (3.04). E scrive bene Aramide Tinubu su Variety, quando dice che “(n)el corso degli otto episodi, gli spettatori vedono in ogni momento come la percepita responsabilità sociale non riesca a mascherare un nucleo marcio”.

Partito forse un po’ in sordina, ora Industry è uno sleeper hit acuto, audace, sicuro di sé, che non si contiene. Non è un caso che su Metacritic la terza stagione abbia un punteggio di 86 e una collezione di sfavillanti critiche positive.

sabato 8 febbraio 2025

TOMORROW AND I: un Black Mirror tailandese

Uscita per la prima volta nel paese d’origine lo stesso giorno in cui ha debuttato su Netflix in Italia, ovvero il 4 dicembre 2024, Tomorrow and I, il cui titolo originale è Anakhot, è una serie antologica che può ben essere definita la Black Mirror tailandese che, come scrive IMDB, “esplora l'intersezione tra tecnologie futuristiche e cultura thailandese e le inimmaginabili tensioni e dilemmi morali che nascono dal loro inevitabile conflitto”, e come dice la piattaforma di messa in onda stessa, mostra “un futuro distopico in cui la tecnologia raschia la superficie delle tradizioni, mettendo a nudo gli strappi nel tessuto culturale”.

Quattro sono le puntate di quella che presumibilmente è solo una prima stagione.

ATTENZIONE SPOILER

1.01     “Pecora nera”: un’astronauta di una stazione spaziale internazionale, Noon, in un incidente al rientro muore poco prima di completare una missione di tre anni che l’avrebbe finalmente riunita al marito, Nont, molto innamorato di lei. Nonostante il parere contrario dei familiari, lui decide di clonarla con l’aiuto di un’amica di lei, la dottoressa Vee, che già si occupa di clonazione di animali domestici. Nel farlo scopre un segreto che lei aveva gelosamente custodito: in realtà si sentiva un uomo e se non aveva fatto la transizione era solo per non opporsi alla famiglia d’origine.

1.02    “Paradiso distopico”: una giovane donna, Jessica, costruisce un impero grazie a robot del sesso addestrati da esperti per poter esaudire ogni possibile desiderio e fantasia in Paradise X: l’Oasi del Piacere. I conservatori si oppongono al progetto, pur servendosene ampiamente. In definitiva viene affossato, ma non prima di svelarci che l’intento dell’imprenditrice era di liberare gli esseri umani dalla schiavitù del sesso a pagamento di cui era stata vittima prima sua madre, poi lei stessa da bambina.

1.03     “Buddismo digitale”: il buddismo si sviluppa attraverso pratiche che, con un apposito device di intelligenza artificiale chiamato ULTRA, danno punti di merito e di demerito: buone azioni così come previste dalle scritture buddiste fanno guadagnare punti, che si possono poi riscattare per pagare le bollette o comprare quello che si vuole. Nessuno si rivolge più ai templi, che sono in crisi. Un monaco tradizionale, Anek, è contrario finché non incontra uno dei maggiori responsabili di questa tecnologia che gli fa intendere di aver avuto lo stimolo dal proprio passato che ha visto i genitori soccombere davanti a monaci criminali che chiedevano beni promettendo l’aldilà; in questo modo le buone azioni danno beni nell’aldiqua, mercificandole però. Si può quantificare quanto uno è una brava persona? Come? Con che conseguenze? Anek che era scettico, avendo un passato da ingegnere, decide di organizzare un sistema rivale e ha un enorme successo finché l’accesso alla coscienza del monaco a capo del monastero più importante non rivela un passato di molestie ai minori.

1.04    “La ragazza calamaro”: dopo quasi 3 anni di piogge incessanti in tutto il mondo, il mondo è sott’acqua e se i cittadini più ricchi possono vivere in città sopraelevate, i quartieri più poveri sono quelli più a rischio. L’acqua alta porta virus e mutazioni per gli animali. C’è un vaccino, AquaVac, che potrebbe ripararli, ma il governo che non ha il denaro per farlo avere ai meno abbienti e finge che non serva. Ha qualche effetto collaterale ben visibile però: spuntano sul mento tentacoli come barba. Due intraprendenti bambine, una con il dono per il canto, l’altra con una notevole capacità da manager, riescono a portare luce sulla grave situazione in cui versano, una partecipando a una gara canora, l’altra smascherando (letteralmente, potremmo dire) le menzogne del governo. Finalmente tutti hanno il sospirato vaccino, ma ecco che torna il sole.     

Ambientate in un futuro prossimo immaginario, la serie è affascinante innanzitutto perché ci mostra un contesto a cui noi occidentali siamo poco abituati. Quand’è l’ultima vota che so è visto un programma tailandese dove la maggioranza della popolazione è buddista? Si esaminano i rapporti familiari, l’amore, le credenze religiose, le motivazioni che spingono verso certe idee e lo sviluppo che hanno a contatto con la natura umana. Si parla di identità, di cambiamento climatico – “Perché hanno sfruttati il pianeta senza pensare a noi?” –, di disparità economiche, di sfruttamento sessuale, e cosa molto significativa visto quello che si sente rispetto al turismo sessuale in quelle terre, di pedofilia. Naturalmente raccontano il futuro per spiegarci il presente e la società attuale, per interrogarli, e con un intento parenetico. Lo si fa con molto coraggio e schiettezza e con argomenti inusitati.

Non tutte le puntate, che hanno la regia di Paween Purijitpanya che è anche uno dei co-ideatori insieme a Pat Pataranutaporn e Jirawat Watthanakiatpanya, sono ugualmente riuscite. Per me “Buddismo digitale” è la meglio riuscita, e a seguire “Pecora nera”, poi le altre. Tutte sembrano a volte narrativamente ingenue nella loro costruzione, un po’ sempliciotte (si pensi a come avviene la clonazione, ad esempio, anche paragonata a “Orphan Black: Echos”). Forse vengono da un Paese alle cui modalità narrative non sono abituata, ma credo si sarebbe avvantaggiato di qualche taglio e di un montaggio più incisivo. Le storie si prendono il loro tempo, e anche se non risultano lente, e la visione alla fine lascia comunque appagati, perché è colorata e con una propria identità forse poco rifinita ma autentica e genuina.


mercoledì 29 gennaio 2025

NOBODY WANTS THIS: una irresistibile rom-com

Nobody Wants This, la commedia romantica che ha debuttato su Netflix lo scorso settembre, ha i due protagonisti principali interpretati da attori molti popolari e amati, che conosciamo da quando erano poco più che adolescenti e interpretavano personaggi che lo erano. Adam Brody (45 anni) lo abbiamo messo a fuoco in The O.C. dove interpretava Seth Cohen, anche se aveva avuto anche ruoli precedenti, e che si ricorda anche sempre per aver reso popolare Chrismukkah. Recentemente lo abbiamo apprezzato in Fleishman is in Trouble. La deliziosa Kristen Bell (44 anni) era la brillante investigatrice Veronica Mars, e più recentemente era finita nell’aldilà e cercava di redimersi diventando una brava persona in The Good Place, ma è stata anche la voce narrante di Gossip Girl e quella della principessa Anna nell’originale del film Frozen.  

Qui sono lui un rabbino, Noah, lei una podcaster che parla di sesso e relazioni sentimentali, Joanne, che si innamorano l’uno dell’altra. A condurre il programma con Joanne c’è anche la sorella Morgan (Justine Lupe, Succession), che si trova spiazzata che finalmente lei abbia una relazione appagante. Lui può contare sull’amicizia del fratello maggiore un po’ impacciato Sasha (Timothy Simons, Veep), ma dal momento che ha deciso di lasciare quella che tutti davano per sua futura sposa, Rebecca (Emily Arlook), nessuno è molto contento. Nessuno vuole questa cosa, come recita il titolo in traduzione. Il motivo è anche che Joanne è una “shiksa”, che originariamente doveva essere il titolo del programma, ovvero una non ebrea che, come si può leggere più approfonditamente al link, bionda dagli occhi azzurri che nulla sa dei precetti religiosi che tanto importanti sono per Noah. 

La godibilissima serie ideata da Erin Foster, già rinnovata per una seconda stagione, mi ha visto subito entusiasta perché fa quello che ultimamente sembrano non sprecarsi a fare più, ovvero permettono ai personaggi di conoscersi realmente per gradi, facendo capire a loro e a noi che cosa trovano attraente. Quello per cui ha riscosso tanti consensi è che mostra poi per una volta una coppia funzionale. Degli adulti con i loro problemi, ma disposti ad affrontarli e a cercare degli accomodamenti per stare insieme. Entrambi i personaggi, ben supportati da attori ben navigati in tal senso, sono venati di un lieve umorismo e da autoironia, che non guasta. Anche i comprimari funzionano alla perfezione.

Molte delle situazioni in cui si ritrovano i personaggi hanno il potenziale da sit-com, ma il modo in cui lo humor è costruito è ben poco tale e le emozioni e gli ostacoli che la coppia deve superare per stare insieme sono molto vere, come il fatto che vengano da due mondi diversi: per lei non c’è mai stato posto per la religione nella vita, lui ne fa il fulcro e gli dà pace e sicurezza, ma il fatto di essere accoppiato con lei può impedirgli una carriera di rabbino a cui aspira, lei è disposta a convertirsi? Si piacciono genuinamente, ma è sufficiente? E, sebbene ci sia una grande leggerezza di fondo,  si affrontano anche questioni su cui ci si interroga in generale nella vita, attraverso le parole che sono lo strumento per entrambi, lui con i sermoni, lei con il podcast. Abbiamo la possibilità di svegliarci e dare una nostra direzione alla nostra vita, ci ricordano, e tutto può avere un proposito se lo permettiamo. Quanto è importante essere privati e quanto invece essere aperti senza vergogna per questioni su cui c’è apparentemente pudore? Raccontare qualcosa che ti fa sentire a disagio aiuta le persone a connettersi con te.

Le famiglie sono importanti per entrambi e il complicato rapporto con i loro membri è molto sotto i riflettori: la sorella di lei è quella con cui condivide tutto, ma non sempre vanno d’accordo, il padre è gay e separato dalla madre. La famiglia di cui ostracizza la nuova scelta di lui e in questo forse il programma mostra una evidente debolezza quando ritrae le donne ebree un po’ macchiettisticamente poco disposte a qualunque apertura verso l’esterno. Anche se è giustificato nel caso delle amiche della ex di lui e della severa madre Bina (Tovah Feldshuh), è anche vero che hanno calcato un po’ la mano. Come ha ben scritto Dani Kessel Odom su Screen Rant. “Quando si tratta della rappresentazione delle donne ebree in TV, gli stereotipi si trovano all'incrocio tra antisemitismo e misoginia. Le donne ebree sono state stereotipate come avide, invadenti, aggressive, dominatrici, prepotenti, nevrotiche e bugiarde - tratti considerati indesiderabili. Due dei tropi ebraici più significativi che si basano su queste caratteristiche sono la principessa ebrea americana e la madre ebrea”. E se la prima sarebbe Rebecca, “nevrotica, invadente ed egoista sulla base della sua introduzione”, la seconda “appare subito come prepotente, controllante e poco accogliente, caratteristiche del tropo della madre ebrea”, ma non viene risparmiata nemmeno la cognata di Noah, Esther (Jackie Tohn) “presentata come aggressiva e dominatrice nei primi due episodi”. Ammetto di avere molta poca familiarità con gli stereotipi nei confronti delle donne ebree, ma non c’è dubbio che gli aggettivi con cui le descrive l’articolo citato riflette quello che ho visto sullo schermo.

In ogni caso è una rom-com che non sarà particolarmente innovativa, e con qualche stereotipo di cui avrebbe potuto facilmente fare a meno, ma è irresistibilmente dolce e genuinamente romantica e sono stata contenta di vederla rinnovata per una seconda stagione.  

domenica 19 gennaio 2025

SILO: la seconda stagione

ATTENZIONE SPOILER

Apple TV+ ha appena chiuso la seconda stagione di Silo con una scena finale che ci ha catapultati fuori dal solito contesto, ovvero nella Washington di 300 anni prima, al momento dell’incontro fra Daniel (Ashley Zukerman), un deputato statunitense, ed Helen (Jessica Henwick), una giornalista, già annunciati come personaggi della terza stagione. Prima di questo calo di sipario ha continuato ad essere accattivante, ma l’ho trovata sottotono rispetto alla prima, se si escludono gli episodi finali. Premetto che non ho letto i libri, quindi non avevo aspettative specifiche rispetto allo svolgimento degli eventi. Ciò che mi è mancato di più in questa stagione sono le due tensioni che hanno alimentato la serie in precedenza: quello verso il mondo esterno e quello verso “the  before times”, i tempi precedenti. Loro, e perciò noi, sono così concentrati su ciò che accade all'interno che l'esterno si è un po’ perso, e mi è mancato.

La delusione che il mondo circostante altro non fosse se non altri silo era stata forte alla fine della prima stagione. Come se in Fallout ci fossero stati solo altri Vault, senza un mondo esterno per quanto landa desolata. All’esordio (2.01), con buona pace della continuità rispetto al parrucco della protagonista che era differente, vedere montagne di scheletri e mummie umane ha fatto una certa impressione - l’ultima volta che ne ho viste così tante e di impatto nella finzione è stato in “Identity” (2.08 e 2.09) in The Orville. Quando in seguito (2.04) Juliette (Rebecca Ferguson) ha confessato che, calpestandoli, aveva pensato che al successivo passo quello sarebbe stato il suo posto per morire, mi sono venuti i brividi. Entra presto in un altro silo, il numero 17 scoprirà, quello da cui viene lei è il 18.

Il pensiero dominante per me inizialmente è stato il senso di solitudine, e di come per poco tempo è un conto, ma alla lunga di come sia difficile, e lo stupore per l’intelligenza della protagonista. Certo, lei è l’ingegnera del titolo (diventato “il tecnico” in italiano non si sa per quale ragione), ma ugualmente…Non sto spesso a interrogarmi su che cosa avrei fatto io nella stessa situazione dei personaggi che vedo, ma in questo caso l’ho fatto e, salvo dirmi subito che avrei cercato di ricostruire il ponte nel nuovo silo, come avrei fatto non ne ho idea. Stranamente non mi è venuto in mente MacGyver, come a tanti nei commenti che ho letto, ma è vero. In realtà, la visione dentro al silo mezzo distrutto mi ha evocato molto la lettura del libro “Piranesi” di Susanna Clarke, qualcosa che non è mai accaduta durante la prima stagione. I flashback che tanto aiutano a dare backstory al personaggio hanno dato una buona spiegazione proprio rispetto alle sue capacità attuali: l’importanza di riciclare e con quello la capacità di vedere cose vecchie e apparentemente da buttare non solo come cose riparabili, ma anche come oggetti che possono essere utilizzati con altre funzioni da quelle per cui sono intese e quindi lo sviluppo di quel tipo di intelligenza che ora le torna utile; e poi la brutalità con cui le è stato detto che sua madre era morta perché si era ammazzata, senza giri di parole, che l’ha resa una che guarda in faccia la realtà senza filtri sentimentali o di protezione emotiva. In questa stagione peraltro è emersa come un personaggio dalla notevole intelligenza emotiva, empatica, diplomatica, capace di mediare, come si è visto in scene con il personaggio di Solo e con quello di “Eater”/Hope (Sara Hazemi) negli ultimi capitoli di questo arco (che ho letto hanno tradotto “Tarma”/Hope in italiano – ho seguito la serie in originale).

È una prova della bontà della serie quando, se la prima puntata è stata solo Juliette, solo a metà del secondo episodio ho capito che sarebbe stato un episodio senza di lei. E il cliffhanger del primo episodio era abbastanza forte da potersi permettere di mantenere la tensione anche saltandone uno. Juliette come singola e il Silo come gruppo sono stati i due pilastri della storia in questa seconda stagione: da un lato la necessità del ritorno, dall’altro i malumori e gli scontri successivi all’uscita della nostra eroina – dopo 140 anni di pace è arrivato il momento della rivolta, un tipo di storia che io per indole gradisco meno, per quanto sia stata ben costruita. È stato anche affascinante vedere come un gesto relativamente piccolo da parte di una persona possa creare un eroe che galvanizza un'intera comunità e incanala aspirazioni e desideri di libertà. Juliette esce dal silo e appare la scritta JL (Juliette Lives). Forse è un parallelismo eccessivo, ma ho pensato alla ragazza che in Iran si è spogliata contro un regime oppressivo a novembre – le puntate in questione sono andate in onda poco dopo. Un semplice gesto di una persona, che alla fine comporta un grande rischio personale e che di per sé non è grave al di fuori del suo contesto, diventa rivoluzionario per ciò che incarna.

La serie non vi ha indugiato, ma ho trovato intellettualmente stimolanti i numerosi aspetti sociopolitici, economici e di potere legati alla gestione del Silo: Billings (Chinaza Uche) che si fida del giusto processo e del lavoro dei Fondatori e la spiegazione che la cancellazione del passato è stata fatta di proposito per evitare rivolte future (2.08); il libro “biblico”, L’Ordine, ha un protocollo su chi incolpare e in che ordine - ho sempre pensato che le persone dei piani alti e medi che odiavano le persone della Meccanica fosse una questione di sistema di classe, in cui i piani alti si sentivano snob e altezzosi, superiori ai piani bassi;  coloro che detengono il potere sono in grado di sapere di più della popolazione generale e di tenerlo nascosto, ma non molto di più: anche loro stanno effettivamente brancolando nel buio - quando nella season finale (2.10) Lukas (Avi Nash) rivela a Bernard che cosa ha scoperto, e il suo mondo crolla, Tim Robbins è stato raggelante nel mostrare quanto fosse sconvolto il suo personaggio; non sono solo cattivi a dispetto delle proprie azioni: la dicotomia libertà-pericolo è viva nelle loro menti come in quelle di chiunque altro; come è facile e privo di gran sforzi mostrare qualcosa come qualcos'altro: è stato un gran colpo di scena (2.04) che Meadows (Tanya Moodie) morisse avvelenata (anche se la fine della sindaca Ruth nella prima stagione doveva essere di monito), ma il modo in cui Bernard è riuscito a incastrare Knox (Shane McRae) e Shirley (Remmie Milner) e come ha manipolato il pubblico è stato istruttivo sotto questo profilo. Un grande filo conduttore della stagione sono le menzogne (per le vicende di entrambi i silo).

Grande nuovo arrivo è stato il personaggio di Solo (il Steve Zahn di “Treme”). La sua paranoia, la sua paura, il suo essere solo di fatto oltre che di nome e tutto quanto lo ha attorniato mi ha spesso fatto pensare a “Lost”. L’incertezza sulla sua identità, l’impossibilità di inquadrare come mai sapesse così tante cose e avesse un misto di entusiasmo infantile per esse e terrore di contatto con altri, la sua possibilità di mangiare senza la preoccupazione di procurarsi il cibo, i graffiti e i cadaveri all’interno del suo bunker sono stati elementi che hanno alimentato la suspense finché nel dinamico sottofinale non si è scoperta la verità: è Jimmy, ed era  il figlio del capo dell'IT del silo 17; aveva solo 12 anni quando scoppiò la rivolta e i genitori gli  avevano ordinato di non aprire a nessuno, aveva visto il padre ammazzato dai genitori di quei ragazzi che credono lui il killer che li ha lasciati orfani, anche loro presenze nel nuovo silo arrivate come colpo di scena.

Lukas, il geniale osservatore di stelle, scopre la verità dei tunnel quando prima di lui solo altre tre persone erano riuscite a farlo: Salvador Quinn, Meadows e George, che era stato brevemente fidanzato di Juliette. La sua sete di sapere, anche pungolata da Bernard, è stata una delle cose che più mi è piaciuta, così come sono sempre sedotta dal doloroso stupore dei personaggi per come era la Terra prima: “Che cosa hanno fatto Bernard? Come hanno fatto a perdere questo mondo?” dice Meadows guardando il nostro bel pianeta sul suo visore; “È vero? Mostramelo!” esorta la moglie Kathleen allo sceriffo Billings quando scopre di una pagina con immagini di come era il passato: la loro mancanza è per qualcosa che non hanno mai conosciuto. È così relazionabile, umano e agrodolce. Ti fa apprezzare quello che abbiamo…Robert (Common), Camille (Alexandria Riley), Patrick (Rick Gomez), Martha (Harriet Walter)…ci sarebbe molto da scrivere. Tanti fili sono poi rimasti sospesi, ma la serie è stata rinnovata per altre due stagioni prima della chiusura, quindi ci sarà modo di rispondere ai quesiti rimasti aperti. Juliette è tornata al suo silo, ma abbiamo lascito lei e Bernard ad arrostire nelle fiamme, ad esempio. Per ora intanto, la serie è rimasta appagante.

giovedì 9 gennaio 2025

DOUGLAS IS CANCELLED: incalzante e graffiante

Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni non facciano nulla, si dice. Questo non significa che i buoni che non fanno nulla siano più colpevoli di condanna di coloro che perpetrano il male. Eppure questa sembra la posizione assunta da Douglas is Cancelled (della britannica ITV1): non condivido questa pozione, ma per il resto ho trovato la miniserie ugualmente eccezionale. E se è vero che come dice la usuale dicitura “non tutti gli uomini” si macchiano di comportamenti misogini, anche coloro che non mettono in atto direttamente di quei comportamenti, non possono davvero considerarsi brave persone, ma tradiscono coloro di cui si ritengono alleati se non denunciano, non si dissociano, non traggono vantaggi indiretti dal comportamento scorretto degli altri. Questa è una posizione che assolutamente invece condivido. E la recitazione è di gran livello, la regia è dinamica, ma quello che davvero rende superlative le quattro putate ideate a scritte da Steven Moffat (Doctor Who, Sherlock) è una sceneggiatura graffiante, cesellata, e dialoghi incalzanti, brillanti, micidiali. E se le prime due puntate preparano il terreno, la terza e la quarta sono una escalation ed una detonazione memorabili.

Douglas Bellowes (Hugh Bonneville, Downton Abbey, Paddington) è l’amato e rispettato presentatore del notiziario Live at Six che conduce da più di 30 anni. Divide lo schermo con una giornalista molto più giovane di lui, Madeline Crow (Karen Gillan, Doctor Who) che lo adora fin da quando era bambina ed ha con lui un’intesa professionale invidiabile. Si considerano amici. Douglas a un matrimonio fa una battuta che un tweet descrive come sessista, ma lui dice di non la ricordarla perché aveva bevuto, anche se non così tanto da essere ubriaco. Nel cercare di arginare le conseguenze negative di quel post, si precipita una spirale che porta alle rivelazione di che cosa abbia veramente detto con tutte le conseguenze del caso. A cercare di proteggerlo professionalmente sono la moglie Sheila (Alex Kingston; ER), redattrice di un giornale scandalistico; l’inutile agente Bently (Simon Russell Beale, House of the Dragon) e il suo produttore Toby (Ben Miles, The Crown), che assume anche un comico, Morgan (Nick Mohammed, Ted Lasso), per scrivergli una battuta umoristica che sia abbastanza credibile da essere percepita come di cattivo gusto, ma non così offensiva da portare alla sua rovina professionale, una “misoginia family-friendly” (1.04). Madeline dice a Douglas che lo vuole aiutare, e lui non vuole sfigurare davanti alla figlia Claudia (Madeleine Power), attivista in campo sociale che è convinta che il padre non le mentirebbe mai. Si precipita verso il disastro.

ATTENZIONE SPOILER NEI PROSSIMI DUE PARAGRAFI

È con senso di profondo disagio che si assiste a Madeline che deve subire le viscide, sottoli molestie del produttore Toby (1.03): nulla di apparentemente grave accade davvero, lui la invita a bere nella sua camera d’albergo, la interroga sulle sue posizioni femministe, si spoglia per andare a farsi un bagno…eppure nel ping-pong fra i due, non c’è il minimo dubbio sulla sgradevolezza e gravità della situazione, che vede uno con il potere di distruggere l’altra, e le indecisa se andarsene e mollare tutto o rimanere e difendersi, barcamenarsi come meglio riesce per non perdere quello per cui ha lavorato e a cui ambisce. Una situazione atroce. A Douglas, recatosi lì per altro, apre lei la porta nella stanza di Toby, dove lui aveva messo fuori il cartello “non disturbare” e Douglas dà per scontato che lei ci vada a letto (cosa che in realtà non fa, scopriremo in seguito). Andandosene commenta solo che la carriera che farà vale lo scotto che deve pagare. Qui davvero la grandezza delle sceneggiatura sta nel non detto, nell’elusione, e nel comportamento predatorio e intimidatorio mascherato da buone maniere e nel terrore di non sapere bene come gestire tutto. Una vera forza della natura è stata in particolare in questo tour de force Karen Gillan.

Nell’episodio successivo (1.04) Madeline si offre di fare una simulazione di intervista a Douglas, che deve affrontarne una vera, usando “ogni sporco trucco” che presumibilmente userà poi la giornalista con lui. E in un rimpiattino fra gatto e topo senza esclusione di colpi finisce per estirpargli la verità. E la famosa battuta da lui pronunciata alla festa di matrimonio. Alla domanda su quando avesse capito che la collega avrebbe avuto successo, aveva risposto, anzi rispondeva in più di un’occasione, che era quando la aveva vista nella stanza d’albergo del produttore. Lui, che si dichiarava amico, che l’ha vista terrorizzata, fa ridere gli amici alle sue spalle insinuando che il suo successo non è dovuto alla sua bravura, ma a con chi è finita sotto le lenzuola. La puntata lascia senza fiato per come è ingegnata, una partita a scacchi di mosse e contromosse, in cui i rapporti personali fra tutti i personaggi (moglie e figlia di lui comprese) si modificano sul filo di quanto accade domanda dopo domanda. E certe volte una battuta non è solo una battuta, è sintomo di una cultura sottostante molto più perniciosa di quanto apparentemente non sia.  Douglas alla fine viene “cancellato”, ma non per quello che ha detto in quell’occasione. Come dicevo in apertura, è legittimo domandarsi, perché accanirsi più contro Douglas che contro Toby, e la spiegazione è stata data. Ha il suo valore.

Una serie grandiosa, al vetriolo, anche divertente, sul ruolo dei social media, e sull’uso delle parole, sull’ambiguità di comportamenti e di discorsi, sul femminismo, sul #metoo, sulla cancel culture

lunedì 30 dicembre 2024

Le migliori nuove serie del 2024, secondo me


Agli inizi dell’anno non vedevo all’orizzonte tante nuove serie di cui essere entusiasta, ma mi sono dovuta presto ricredere perché ne sono fioccate di davvero notevoli. Come ogni anno scelgo i debutti, consapevole che tanti me ne sono persa per strada e magari recupero solo in seguito, come è stato con programmi come Fellow Travelers, The Curse, Bad Sisters (di cui devo ancora parlare) o For All Mankind, in passato. L’abbondanza fa rassegnare al fatto che non si può star dietro a tutto. E come sempre non menziono programmi che hanno debuttato in precedenza e che, ancora in corso, sono fra i migliori in circolazione, che sia Industry, Evil, Somebody Somewhere, Silo o quant’altro.

Senza un ordine specifico, conto tra le migliori serie dell’anno:

-        Ripley: il neo-noir dal prestigioso pedigree, in buona parte ambientato in Italia, di cui ho parlato qui

-        One day: la romantica rivisitazione televisiva dell’omonimo romanzo già trasposto al cinema – qui.

-        Baby Reindeer: la potente storia autobiografica di stalking e stupro subiti da un comico – qui.

-        My Lady Jane: l’esilarante, bizzarra e romantica riscrittura della storia inglese che vede sopravvivere la “regina dei nove giorni” – qui.

-        Agatha All Along: un’avvincente avventura stregonesca dall’universo Marvel – qui.

-      Fallout: l’ucronia post-apocalittica basata su un videogioco che sembra aver conquistato un  po’ tutti – qui.

-        Nobody Wants This: l’inaspettata storia d’amore fra una rabbino e una gentile su cui ancora devo scrivere.

-        Mary & George: sulle macchinazioni della contessa di Buckingam e del figlio per sedure re Giacomo I – ne ho appena scritto qui

-       Douglas in cancelled: sul #metoo e la cultura della cancellazione, di cui pure parlerò prossimamente

-        Shōgun sul primo marinaio inglese naufragato in Giappone nel 1600 che si ritrova coinvolto fra le lotte di potere dei feudatari locali – sopravvalutato, mi pare, ma meritevole comunque di finire in questa lista, e anche di questo parlerò in seguito.

Titoli che molti lodano ma che non ho (ancora) visto sono The Day of the Jackal, The Penguin, The Gentlemen, Disclaimer, English Teacher, Fantasmas, True Detective: Night Country…

E voi? Quali nuove serie contate fra le migliori dell’anno?

 

 


venerdì 20 dicembre 2024

MARY & GEORGE: un dramma storico salace

Basato sul libro di Benjamin Woolley “L'assassino del re” – “The king's assassin: The Secret Plot to Murder King James I”, Mary and George (Sky Atlantic – qui il promo in italiano), ambientato nel XVII° secolo, narra di una donna di umili natali, passato che tiene ben celato, Mary Villiers (una viscerale, sempre acutissima Julianne Moore, qui anche produttrice esecutiva), che diventa Contessa di Buckingham, che istruisce il proprio secondo figlio, l’avvenente George (Nicholas Galitzine), perché diventi l’amante e il nuovo favorito di re Giacomo I (Tony Curran) come via privilegiata per aver accesso al potere.

Lui inizialmente non vuole saperne di essere spedito in Francia per essere educato alla maniera delle corti, tanto più che è innamorato di Jenny, una serva di casa, ma la scaltra, ambiziosa madre, che non può avere in prima persona quello che il figlio riesce ad ottenere anche grazie alla propria prestanza fisica, è risoluta. Morto il marito, caduto dalle scale mentre la picchiava (e lei non si è certo precipitata a chiamare aiuto), sposa il ricco Sir Thomas Compton (Sean Gilder) e indirizza al meglio il secondogenito, consapevole che il primo, John (Tom Victor), ha problemi mentali che lo rendono anche violento, per quanto lei si adoperi per sposarlo alla riottosa figlia di Sir Edward Coke (Adrian Rawlins), nonostante la volontà contraria della madre di lei, Lady Hatton (Nicola Walker). Mary, ora rabbiosa, ora deferente, ora maliziosa, è astuta e l’unica su cui può fare affidamento è una prostituta Sandie Brookes (Niamh Algar) a cui si lega sentimentalmente. Ha però il sostegno della moglie del re, la Regina Anna (Trine Dyrholm), che mal sopporta i numerosi amanti del consorte, così come del resto fatica a digerirli il figlio, il principe Carlo (Samuel Blenkin), che si sente trascurato. George perciò, gli piaccia o meno, viene inviato ad apprendere francese, scherma, ballo e riceve anche un’ampia e versatile educazione sessuale, e tornato in suolo inglese deve imparare da una lato a navigare la corte, e in particolare l’attuale favorito del re, Robert Carr (Laurie Davidson), Duca di Somerset, che lo vede adeguatamente come una minaccia, dall’altro gli umori del sovrano. Progressivamente infastidito dalle ingerenze della madre, viene accostato da Sir Francis Bacon (Mark O’Halloran) che vuole approfittarne per farne una propria pedina. Del resto lui sta imparando, e in fretta, ma non è smaliziato quanto i due veterani.

Nel salace dramma storico britannico in sette puntate ideato da D.C. Moore (Killing Eve) non si è certo timidi. In modo più facilmente evidente è perché è pieno di nudità, orge, appetiti lascivi. “I corpi sono solo corpi” viene ricordato a George, con una frase che rivela l’etica che muove la serie tutta, ovvero esplorare e indagare il corpo come strumento di potere, come mezzo per elevare la propria posizione sociale. C’è poco romanticismo qui, e sebbene la lussuria di re James sia anche mostrata in termini sentimentali, è sfruttata in prevalenza come strumento per avere il suo favore e, con quello, un ruolo di rilievo. Il corpo perciò diventa in modo esplicito un bene che ha un peso economico e politico. Per lo spettatore è affascinante da seguire, per i coinvolti non sempre equivale a piacere.

Un’atra colonna portante delle vicende è la manipolazione: tradimenti, omicidi, bullismo, violenza, alleanze… c’è ogni tipo di intrigo, ma su tutte regna sovrana la capacità di raggirare e piegare con intelligenza gli altri e le situazioni ai propri interessi, cosa in cui eccellono Mary e Sir Francis Bacon. Se il re sembra meno interessato alle questioni di stato che all’intrattenimento, non di meno conosce il proprio ruolo, come gestire il parlamento, il rapporto con la Scozia, le dinamiche di religione… non è uno sprovveduto anche se il suo darsi ad una vita godereccia può far pensare altrimenti.   

Non sarebbe guastato maggiore approfondimento psicologico – le scelte di Mary rispetto al primogenito ad esempio, fanno accapponare la pelle e potevano avere maggiore giustificazione. Scrive bene però Lucy Mangan sul Guardian, quando dice che la miniserie ha “il rigore narrativo di The Favourite, lo stile disciplinato di The Great, un pizzico dell'eccesso di The Tudors e abbastanza sesso da rendere felici anche i fan di Bridgerton. È un'ottima combinazione”.

La notevole sigla viene descritta così dai realizzatori, il Peter Anderson Studio: “La nostra sequenza per Mary & George fonde artisticamente scene del dramma, travestite da dipinti a olio dell’era giacobina, e opere d'arte d'epoca. Le scritte agiscono come un portale attraverso il quale il pubblico viene attirato, offrendo finestre su un mondo pieno di segreti e silenziose macchinazioni. Ogni credit diventa uno spioncino nell'anima di coloro che si contendono il potere nelle oscure corti della storia.

martedì 10 dicembre 2024

FALLOUT: un'ucronia distopica post-apocalittica

Basato sulla serie di videogiochi di ruolo ideata da Tim Cain e Leonard Boyarsky, che non serve conoscere per ben seguire le vicende, Fallout (Amazon Prime) è una coinvolgente ucronia distopica post-apocalittica che ha ricevuto grandi consensi di critica; nel mio apprezzamento ha un solo grande limite: è parecchio violenta. Si sente che è una violenza “da videogioco”; sarà che sto invecchiando ma mi ha dato fastidio ugualmente, anche se è coerente con il mondo che ritrae. Non così tanto da impedirmi di proseguirla, ma a sufficienza da valutarne la possibilità. Mi ha ricordato Westworld in questo senso e non è un caso che, ideata da Graham Wagner and Geneva Robertson-Dworet che sono showrunner, sia stata sviluppata da Jonathan Nolan e Lisa Joy che sono appunto le menti dietro al successo di quella serie targata HBO.

Nel 2077 la società americana ci appare retrofuturistica: i valori e l’estetica degli anni ’50 del Novecento sono ancora l’ultimo grido, ma dopo la seconda Guerra Mondiale il mondo se lo spartiscono Stati Uniti e il blocco comunista di URSS e Cina. Cooper Howard (Walton Goggins) è un amato attore di western che si è ridotto a partecipare come animatore alle feste di compleanno. La minaccia nucleare incombe e sono stati realizzati numerosi rifugi anti-atomici (che solo i più ricchi possono permettersi), per cui in italiano è stata mantenuta la dicitura Vault (che significa “caveau” o “camera blindata”, in inglese), realizzati dalla Vault-Tec che, come si scopre dopo qualche puntata, intendeva eseguirvi esperimenti socio-psicologici a insaputa di chi vi avrebbe abitato. Il 23 ottobre di quell’anno accade il peggio, una guerra termonucleare annichilisce miliardi di persone e devasta il territorio e pochi hanno accesso ai Vault.

219 anni dopo, nel 2296, Lucy MacLean (Ella Purnell), nell’ordinata, sicura vita del Vault 33 sta per sposare con un matrimonio combinato un abitante del Vault 32, che lei non conosce, ma che è collegato con il Vault 31. A seguito delle nozze si scopre che in realtà gli invitati del Vault 32 altro non sono se non predoni guidati da Lee Moldaver (Sarita Choudhury), che distruggono quello che trovano, uccidono gli abitanti e finiscono per rapire Hank MacLean (Kyle MacLachlan), padre di Lucy e soprintendente del Vault 33. La ragazza perciò decide di lasciare quello che conosce alle sue spalle, compreso il timido fratello Norman "Norm" (Moisés Arias), che dal canto suo cercherà di esplorare i vari bunker facendo sorprendenti scoperte. Esce nel mondo esterno alla ricerca del padre. La California che vede è un mondo arido, desolato, selvaggio, ostile e grandemente contaminato – e scene sono state girate a Kolmanskop, una città fantasma in un deserto della Namibia – ed è abitato da disperati che cercano di sopravvivere alla meno peggio. Nel suo cammino incontra Maximus (Aaron Moten), che è inizialmente solo apprendista poi scudiero, ma aspira a diventare cavaliere della Confraternita d'Acciaio, un'organizzazione il cui obiettivo è proteggere la Zona Contaminata  e mira a identificare e ricercare tecnologia pre-bellica. Fra i due nasce presto una simpatia e complicità. Deve guardarsi invece da quel Cooper Howard che era attore ed è stato trasformato dalle radiazioni in un Ghoul e ora è un cacciatore di taglie senza scrupoli. Uno dei suoi obiettivi, al momento è Wilzig (Michael Emerson), uno scienziato.

La perdita di innocenza è un tema importante della serie: cresciuta nel Vault, credendo nelle buone maniere, nell’importanza di prestare attenzione agli altri e nella cooperazione, Lucy ha una certa ingenuità nell’emergere dal sottosuolo. Sono principi in cui crede veramente, e che cerca di applicare comunque perché ritiene siano la base per un mondo migliore, ma allo stesso tempo deve scontrarsi con una realtà che non le fa sconti e ne rimane sempre vagamente scandalizzata. Le minacce sono moltissime: che sia evitare di essere mangiata da un enorme mostro marino per il quale è stata usata come esca (1.02) o sfuggire ai venditori di organi a cui il Ghoul l’ha barattata in cambio di farmaci (1.04). Questa purezza, che è in lei conservata a dispetto di quello che vede, è in parte la sua forza. Lo stesso vale per Maximus che ha molto idealismo nel voler diventare cavaliere, sogna di indossarne con fierezza l’armatura, ma si scontra con la realtà. E lo stesso Cooper ora è una sorta di cowboy mutante – e qui tornano echi di Westworld – ma in passato non era il bruto che è ora – molti flashback che illustrano anche la relazione con sua moglie Barb (Frances Turner), un pezzo grosso della Vault-Tec, lo mostrano come una persona amabile, al di là anche dei ruoli che come attore è costretto a recitare. In che modo cambiamo? Desideriamo le stesse cose quando siamo diventate persone diverse?

Il pianeta è devastato – e vengono alla mente Silo, the Last of Us, Moonhaven…la Terra alla luce del sole è la realtà però più di quanto non lo sia la comunità sotterranea che in qualche modo ripete rituali che appartengono a un mondo che non esiste più e si aggrappa ad una storia che suona falsa. E quel mondo era comunque tale per cui sotto l’apparenza di interesse per l’umanità c’erano giochi sporchi di concorrenza economica che vedevano nella guerra solo un’occasione di profitto. Nel denunciarlo non ci si illude che la natura umana sia nobile. Gli ultimi episodi, con numerosi inaspettati colpi di scena, gettano nuova luce sugli eventi tutti.

Un’appassionante avventura, in definitiva, a stomacare la violenza. Io prevedo di continuare a seguirla.