Sono passati tre anni dagli
eventi della prima stagione di Squid
Game, sia nella diegesi che per la messa in onda, e torniamo a
respirare la stessa aria brutale e terrificante di allora – avevo parlato della
prima stagione al link sul titolo e i
principi lì espressi rimangono validi anche per questa. Forse alla ferocia si è
aggiunta anche una nota di sadismo, o forse sono più sensibile io che ho
trovato più difficile della scorsa volta stomacare tanta violenza. Se quando ho
seguito la prima stagione non c’era il doppiaggio in italiano, questa volta sì,
e ho deciso perciò di seguirlo doppiato nella nostra lingua e mi pare che
abbiano fatto un buon lavoro.
Continua ad essere quello che Daniel
Fienberg dell’Hollywood Reporter ha ben definito una serie
sulla disperazione economica, anche se lui la stronca. Se è evidente che la
seconda stagione, e la terza il cui debutto è previsto per il 27 giugno, è
stata fatta per mungere il successo della prima, non di meno la serie ha avuto
ancora da dire e per me il messaggio forte in questo caso è stato “finchè il
mondo non cambierà, il gioco non si fermerà” (2.02), non importa quanto lo vuoi,
quanto ti sgoli perché accada. Forse è ancora più esplicito, semmai fosse stato
necessario, il fatto che il sistema capitalista che mette il denaro davanti a
tutto, vede le persone con una vita al limite perché schiacciate dai debiti
come spazzatura, come “scarafaggi”. Progetto di seguire anche la prossima
stagione, ma più per completismo che per vero desiderio di proseguire, per
quanto io sia curiosa di vedere come lo chiudono. Lo trovo intelligente e in
una certa misura anche appassionante, ma non è una visione facile.
Seong Gi-hun (Lee Jung-jae),
vincitore della precedente edizione dei giochi, si rende conto dell’aberrazione
che sono, e decide di fermarli. Si ritrova a doverli giocare nuovamente, sempre
con il numero 456. Torna anche quello che un tempo era stato il frontman dei
giochi, Hwang In-ho (Lee Byung-hun), che ha preso il posto di giocatore 001 dal
creatore originale del gioco, ma di cui nessuno conosceva l’identità dal
momento che era in precedenza mascherato. Questi due personaggi sono pensati,
come ha proprio spiegato l’autore stesso Hwang Dong-hyuk (si veda lo speciale
post-seconda stagione), l’uno come l’opposto dell’altro, ovvero il primo come
fiducioso nella bontà ultima dell’essere umano, il secondo come convinto nella
sua corruttibilità e detestabilità, che incarnano in prima persona. Fra i
personaggi tornano c'è anche Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon), il poliziotto che già in
passato si era infiltrato sull'isola per cercare il fratello scomparso, che si
era scoperto essere proprio il frontman, e che ora cerca di ritrovare il luogo, e il reclutatore (Gong Yoo), simbolicamente micidiale nelle scene in cui fa
scegliere a dei senza tetto del pane o in alternativa dei biglietti della lotteria.
Il primo gioco è lo stesso, gli
altri cambiano, e mantengono lo stesso spirito, la stessa grottesca eppur
mortale semplicità. In pista sono nuovi disperati: un ex marine amico di Gi-hun
alle prese con il divorzio dalla moglie e il fallimento del negozio di famiglia,
un padre con spese mediche da pagare per la figlia malata di leucemia, un ex
militare che si sta sottoponendo alla transizione di genere, una anziana che è
sopravvissuta alla guerra di Corea e suo figlio, una giovane incinta senza
famiglia, un ex influencer che ha causato la rovina economica di diversi dei
giocatori con i suoi suggerimenti finanziari rivelatesi delle truffe anche ex
fidanzato della ragazza incinta, un rapper, “Thanos”, sempre mezzo strafatto,
un anziano che ha un debito di 100 miliardi di won, una pseudo-sciamana mezza
folle…
Sono tornati anche i controllori di
“quel gioco maledetto” con le loro maschere con quadrato, triangolo e cerchio,
simboli che indicano il loro rango in ordine da più alto a più basso e che
rappresentano le lettere coreane che sono l’inizio del nome coreano di Squid
Game. Dall’anonimato emerge in questa stagione la storia di una di loro, Kang
No-eul (Park Gyu-young), che dopo aver disertato dalla Corea del Nord lavora in
un parco di divertimenti e, quando sono in corso, come cecchino in questi
giochi. Riconosce fra i partecipanti il papà della bambina malata, che le aveva
regalato un disegno nel suo altro lavoro. Lei vuole guadagnare quello che le
serve per trovare e riunirsi alla figlia, è lei stessa è vittima di minacce e
violenza dal momento che quando vede qualcuno agonizzante, ma non morto, cerca
di finirli, cosa che non sta bene a chi vuole esportare gli organi dei poveri
malcapitati. Nessuno è immune dalla società crudele che si è costruita.
Più che non in passato ci si
sofferma su lunghe scene in cui i giocatori devono votare se interrompere o
continuare i giochi, che avviene alla fine di ogni prova, con gli uni che
cercano di convincere gli altri e di portarli dalla propria parte spiegando le
proprie ragioni. Forse ha rallentato il ritmo, ma l’ho trovato un bel commento
sulla democrazia e su come funziona, anche su come si rimane incastrati da voti
che legano la propria vita a decisioni aberranti che per se stessi non si
vogliono e di come ci sia spesso una letterale guerra fra poveri.
Il finale rimane sospeso, perché come è evidente da subito, la terza stagione è di fatto semplicemente il prosieguo di questa.