venerdì 20 dicembre 2024

MARY & GEORGE: un dramma storico salace

Basato sul libro di Benjamin Woolley “L'assassino del re” – “The king's assassin: The Secret Plot to Murder King James I”, Mary and George (Sky Atlantic – qui il promo in italiano), ambientato nel XVII° secolo, narra di una donna di umili natali, passato che tiene ben celato, Mary Villiers (una viscerale, sempre acutissima Julianne Moore, qui anche produttrice esecutiva), che diventa Contessa di Buckingham, che istruisce il proprio secondo figlio, l’avvenente George (Nicholas Galitzine), perché diventi l’amante e il nuovo favorito di re Giacomo I (Tony Curran) come via privilegiata per aver accesso al potere.

Lui inizialmente non vuole saperne di essere spedito in Francia per essere educato alla maniera delle corti, tanto più che è innamorato di Jenny, una serva di casa, ma la scaltra, ambiziosa madre, che non può avere in prima persona quello che il figlio riesce ad ottenere anche grazie alla propria prestanza fisica, è risoluta. Morto il marito, caduto dalle scale mentre la picchiava (e lei non si è certo precipitata a chiamare aiuto), sposa il ricco Sir Thomas Compton (Sean Gilder) e indirizza al meglio il secondogenito, consapevole che il primo, John (Tom Victor), ha problemi mentali che lo rendono anche violento, per quanto lei si adoperi per sposarlo alla riottosa figlia di Sir Edward Coke (Adrian Rawlins), nonostante la volontà contraria della madre di lei, Lady Hatton (Nicola Walker). Mary, ora rabbiosa, ora deferente, ora maliziosa, è astuta e l’unica su cui può fare affidamento è una prostituta Sandie Brookes (Niamh Algar) a cui si lega sentimentalmente. Ha però il sostegno della moglie del re, la Regina Anna (Trine Dyrholm), che mal sopporta i numerosi amanti del consorte, così come del resto fatica a digerirli il figlio, il principe Carlo (Samuel Blenkin), che si sente trascurato. George perciò, gli piaccia o meno, viene inviato ad apprendere francese, scherma, ballo e riceve anche un’ampia e versatile educazione sessuale, e tornato in suolo inglese deve imparare da una lato a navigare la corte, e in particolare l’attuale favorito del re, Robert Carr (Laurie Davidson), Duca di Somerset, che lo vede adeguatamente come una minaccia, dall’altro gli umori del sovrano. Progressivamente infastidito dalle ingerenze della madre, viene accostato da Sir Francis Bacon (Mark O’Halloran) che vuole approfittarne per farne una propria pedina. Del resto lui sta imparando, e in fretta, ma non è smaliziato quanto i due veterani.

Nel salace dramma storico britannico in sette puntate ideato da D.C. Moore (Killing Eve) non si è certo timidi. In modo più facilmente evidente è perché è pieno di nudità, orge, appetiti lascivi. “I corpi sono solo corpi” viene ricordato a George, con una frase che rivela l’etica che muove la serie tutta, ovvero esplorare e indagare il corpo come strumento di potere, come mezzo per elevare la propria posizione sociale. C’è poco romanticismo qui, e sebbene la lussuria di re James sia anche mostrata in termini sentimentali, è sfruttata in prevalenza come strumento per avere il suo favore e, con quello, un ruolo di rilievo. Il corpo perciò diventa in modo esplicito un bene che ha un peso economico e politico. Per lo spettatore è affascinante da seguire, per i coinvolti non sempre equivale a piacere.

Un’atra colonna portante delle vicende è la manipolazione: tradimenti, omicidi, bullismo, violenza, alleanze… c’è ogni tipo di intrigo, ma su tutte regna sovrana la capacità di raggirare e piegare con intelligenza gli altri e le situazioni ai propri interessi, cosa in cui eccellono Mary e Sir Francis Bacon. Se il re sembra meno interessato alle questioni di stato che all’intrattenimento, non di meno conosce il proprio ruolo, come gestire il parlamento, il rapporto con la Scozia, le dinamiche di religione… non è uno sprovveduto anche se il suo darsi ad una vita godereccia può far pensare altrimenti.   

Non sarebbe guastato maggiore approfondimento psicologico – le scelte di Mary rispetto al primogenito ad esempio, fanno accapponare la pelle e potevano avere maggiore giustificazione. Scrive bene però Lucy Mangan sul Guardian, quando dice che la miniserie ha “il rigore narrativo di The Favourite, lo stile disciplinato di The Great, un pizzico dell'eccesso di The Tudors e abbastanza sesso da rendere felici anche i fan di Bridgerton. È un'ottima combinazione”.

La notevole sigla viene descritta così dai realizzatori, il Peter Anderson Studio: “La nostra sequenza per Mary & George fonde artisticamente scene del dramma, travestite da dipinti a olio dell’era giacobina, e opere d'arte d'epoca. Le scritte agiscono come un portale attraverso il quale il pubblico viene attirato, offrendo finestre su un mondo pieno di segreti e silenziose macchinazioni. Ogni credit diventa uno spioncino nell'anima di coloro che si contendono il potere nelle oscure corti della storia.

martedì 10 dicembre 2024

FALLOUT: un'ucronia distopica post-apocalittica

Basato sulla serie di videogiochi di ruolo ideata da Tim Cain e Leonard Boyarsky, che non serve conoscere per ben seguire le vicende, Fallout (Amazon Prime) è una coinvolgente ucronia distopica post-apocalittica che ha ricevuto grandi consensi di critica; nel mio apprezzamento ha un solo grande limite: è parecchio violenta. Si sente che è una violenza “da videogioco”; sarà che sto invecchiando ma mi ha dato fastidio ugualmente, anche se è coerente con il mondo che ritrae. Non così tanto da impedirmi di proseguirla, ma a sufficienza da valutarne la possibilità. Mi ha ricordato Westworld in questo senso e non è un caso che, ideata da Graham Wagner and Geneva Robertson-Dworet che sono showrunner, sia stata sviluppata da Jonathan Nolan e Lisa Joy che sono appunto le menti dietro al successo di quella serie targata HBO.

Nel 2077 la società americana ci appare retrofuturistica: i valori e l’estetica degli anni ’50 del Novecento sono ancora l’ultimo grido, ma dopo la seconda Guerra Mondiale il mondo se lo spartiscono Stati Uniti e il blocco comunista di URSS e Cina. Cooper Howard (Walton Goggins) è un amato attore di western che si è ridotto a partecipare come animatore alle feste di compleanno. La minaccia nucleare incombe e sono stati realizzati numerosi rifugi anti-atomici (che solo i più ricchi possono permettersi), per cui in italiano è stata mantenuta la dicitura Vault (che significa “caveau” o “camera blindata”, in inglese), realizzati dalla Vault-Tec che, come si scopre dopo qualche puntata, intendeva eseguirvi esperimenti socio-psicologici a insaputa di chi vi avrebbe abitato. Il 23 ottobre di quell’anno accade il peggio, una guerra termonucleare annichilisce miliardi di persone e devasta il territorio e pochi hanno accesso ai Vault.

219 anni dopo, nel 2296, Lucy MacLean (Ella Purnell), nell’ordinata, sicura vita del Vault 33 sta per sposare con un matrimonio combinato un abitante del Vault 32, che lei non conosce, ma che è collegato con il Vault 31. A seguito delle nozze si scopre che in realtà gli invitati del Vault 32 altro non sono se non predoni guidati da Lee Moldaver (Sarita Choudhury), che distruggono quello che trovano, uccidono gli abitanti e finiscono per rapire Hank MacLean (Kyle MacLachlan), padre di Lucy e soprintendente del Vault 33. La ragazza perciò decide di lasciare quello che conosce alle sue spalle, compreso il timido fratello Norman "Norm" (Moisés Arias), che dal canto suo cercherà di esplorare i vari bunker facendo sorprendenti scoperte. Esce nel mondo esterno alla ricerca del padre. La California che vede è un mondo arido, desolato, selvaggio, ostile e grandemente contaminato – e scene sono state girate a Kolmanskop, una città fantasma in un deserto della Namibia – ed è abitato da disperati che cercano di sopravvivere alla meno peggio. Nel suo cammino incontra Maximus (Aaron Moten), che è inizialmente solo apprendista poi scudiero, ma aspira a diventare cavaliere della Confraternita d'Acciaio, un'organizzazione il cui obiettivo è proteggere la Zona Contaminata  e mira a identificare e ricercare tecnologia pre-bellica. Fra i due nasce presto una simpatia e complicità. Deve guardarsi invece da quel Cooper Howard che era attore ed è stato trasformato dalle radiazioni in un Ghoul e ora è un cacciatore di taglie senza scrupoli. Uno dei suoi obiettivi, al momento è Wilzig (Michael Emerson), uno scienziato.

La perdita di innocenza è un tema importante della serie: cresciuta nel Vault, credendo nelle buone maniere, nell’importanza di prestare attenzione agli altri e nella cooperazione, Lucy ha una certa ingenuità nell’emergere dal sottosuolo. Sono principi in cui crede veramente, e che cerca di applicare comunque perché ritiene siano la base per un mondo migliore, ma allo stesso tempo deve scontrarsi con una realtà che non le fa sconti e ne rimane sempre vagamente scandalizzata. Le minacce sono moltissime: che sia evitare di essere mangiata da un enorme mostro marino per il quale è stata usata come esca (1.02) o sfuggire ai venditori di organi a cui il Ghoul l’ha barattata in cambio di farmaci (1.04). Questa purezza, che è in lei conservata a dispetto di quello che vede, è in parte la sua forza. Lo stesso vale per Maximus che ha molto idealismo nel voler diventare cavaliere, sogna di indossarne con fierezza l’armatura, ma si scontra con la realtà. E lo stesso Cooper ora è una sorta di cowboy mutante – e qui tornano echi di Westworld – ma in passato non era il bruto che è ora – molti flashback che illustrano anche la relazione con sua moglie Barb (Frances Turner), un pezzo grosso della Vault-Tec, lo mostrano come una persona amabile, al di là anche dei ruoli che come attore è costretto a recitare. In che modo cambiamo? Desideriamo le stesse cose quando siamo diventate persone diverse?

Il pianeta è devastato – e vengono alla mente Silo, the Last of Us, Moonhaven…la Terra alla luce del sole è la realtà però più di quanto non lo sia la comunità sotterranea che in qualche modo ripete rituali che appartengono a un mondo che non esiste più e si aggrappa ad una storia che suona falsa. E quel mondo era comunque tale per cui sotto l’apparenza di interesse per l’umanità c’erano giochi sporchi di concorrenza economica che vedevano nella guerra solo un’occasione di profitto. Nel denunciarlo non ci si illude che la natura umana sia nobile. Gli ultimi episodi, con numerosi inaspettati colpi di scena, gettano nuova luce sugli eventi tutti.

Un’appassionante avventura, in definitiva, a stomacare la violenza. Io prevedo di continuare a seguirla.

sabato 30 novembre 2024

DOCTOR ODYSSEY: è un'allucinazione?

Dare una chance o no Doctor Odyssey, dal 28 novembre 2024 su Disney+, disponibile poco dopo il debutto negli USA il 26 settembre sulla ABC (la ABC è di proprietà della Disney)? Per me la risposta aveva un pro e un contro: il pro è che ha come protagonista Joshua Jackson (Dawson’s Creek, Fringe, The Affair), un attore bravo e attraente che sta invecchiando bene, nel ruolo del dottor Max Bankman un medico neoassunto su una nave da crociera, la Odyssey (Odissea), ed ero in cerca di una serie di easy-viewing per sostituire la terminata The Good Doctor; il contro è che la serie è ideata da Ryan Murphy, insieme a Jon Robin Baitz e Joe Baken. Intendiamoci, ho stima intellettuale per Murphy, che ha al suo attivo numerose pregevoli produzioni. Solo, mi sento spesso attivamente bullizzata dalle sue creazioni che non mi fanno stare bene e, alla fine, a che pro seguirle? Poi è arrivata una teoria di TV Line che mi incuriosita molto: dovevo vederla. Ma procediamo con ordine…

Il suddetto dottor Bankman viene accolto sulla nave da crociera di cui al titolo dal capitano Robert Massey (Don Johnson, Miami Vice, Nash Bridges). Incontra subito i suoi più stretti collaboratori, gli infermieri Avery Morgan (Phillipa Soo) e Tristan Silva (Sean Teale), quest’ultimo forse non troppo segretamente innamorato della collega. Bankman è anche troppo qualificato per quel lavoro, ma vuole un ambiente diverso da quello a cui è abituato, più rilassato e che gli permetta anche di godersi un po’ la vita, e in ogni caso si rende conto che nonostante la sua bravura, i suoi collaboratori riescono ad essere più efficaci di lui lì dove è necessaria anche l’esperienza sul campo di casi che nell’ambiente di una nave di quel tipo si ripetono con costanza. Il motivo per cui cerca un cambio di rotta è che è stato il paziente zero all’inizio della pandemia da coronavirus e ha una nuova prospettiva ora che è guarito. E qui vene il bello. TV Line infatti si domanda: e se non lo fosse?   

Qui spiegano la loro teoria che traduco di seguito. “Max non ha mai sconfitto il COVID. È bloccato in coma, sospeso tra la morte e la vita. L'Odyssey è il paradiso, che lo invita a passare dall'altra parte. La nave non esiste! Come spiegare altrimenti l'aura ultraterrena del dottor Max? Come si spiega altrimenti che una nave di queste dimensioni impieghi solo tre medici? Come si spiega altrimenti l'assurda bizzarria di tutto  ̶  come l'equipaggio un minuto prima curi un uomo per aver mangiato troppi gamberi e quello dopo faccia festa su una spiaggia, lasciando apparentemente gli ospiti dell'Odyssey a cavarsela da soli?”

La narrazione è velocissima, con eventi ridotti all’osso e salti pindarici, quindi che passino da curare un paziente a divertirsi non è necessariamente significativo, ma la loro ipotesi ha senso. Poi, naturalmente portano ampie prove indiziarie a supporto della propria tesi: sembra un sogno in qualche modo irreale, molto luminoso come se fossero stati usati dei filtri di Instagram, tanto che Ryan Murphy avrebbe usato la parola “sparkle” (luccichio, scintillio) per descriverne la qualità;  il nome Odissea allude a un viaggio o una ricerca intellettuale o spirituale, quindi il protagonista o trova un modo di tornare alla vita o rimane sulla nave che è il paradiso: il capitano della nave la definisce proprio come tale, “paradiso”; un teaser della ABC per la serie ha usato la canzone “Wouldn’t It Be Nice” dei Beach Boys il cui testo dice “Non sarebbe bello se potessimo svegliarci al mattino quando il giorno è nuovo?” e sotto il continuare della canzone si sentono macchinari di ospedale…E indubbiamente entrare nella nave visivamente ha il senso di attraversare un tunnel e uscirne salire una scala verso una grande luce (1.02), la luce del Paradiso?

Insomma, è vero: Tristan e Avery potrebbero non essere gli assistenti del dottor Max a bordo della Odyssey, ma parte del suo team di cura e lui in una sorta di purgatorio della coscienza. E la luce in cui sono immersi i personaggi, per me a dire il vero fastidiosa e poco attraente, è segno di una realtà atra, distorta. Persino sul set pare abbiano avanzato questa ipotesi. Dopotutto, come ricorda bene sempre TV Line, se il tutto si rivelasse un sogno o una illusione durante un coma non sarebbe nemmeno così rivoluzionario: nel 1988, nella celeberrima series finale di St. Elsewhere – A Cuore Aperto si scopre che la realtà dell’ospedale in cui sono ambientate le vicende altro non era se non quello che il giovane Tommy Westphall (Chad Allen), il figlio autistico del dottor Westphall, che era un personaggio ricorrente, immagina accada dentro una palla di vetro, di quello che se giri e scuoti inneva l’interno.

Se fosse un’allucinazione, se non altro questo renderebbe meno attivamente stronzo Max (quando ci vuole ci vuole), che nel pilot bacia Avery davanti a Tristan poco dopo che lui gli ha ammesso di esserne innamorato, non certo un comportamento da nobile eroe, mettiamola così. La locandina con la tagline “Big Deck Energy” non grida proprio finezza, a dire il vero  - “Deck” è ponte, ma mi sorprenderei se qualcuno mi dicesse che non ha pensato a “Dick” (cazzo). Non so se continuerò a seguire Doctor Odyssey perché ha un modo di raccontare le storie troppo rapido per i miei gusti, troppo succede-questo-e-poi-questo-e-poi-questo come uno spuntare una lista di accadimenti senza spessore o conseguenze a lungo termine, e per questo troppo poco appagante. Curiosa però, sono curiosa.

lunedì 25 novembre 2024

HEARTSTOPPER: disturbi alimentari nella terza stagione

Continua con dolcezza, in linea con le precedenti stagioni, la serie LGBTQ+ adolescenziale Heartstopper, ormai alla sua terza stagione. Importante è stata in questo arco la tematica dei problemi di disturbi alimentari e di autolesionismo di Charlie (Joe Locke), realizzata con delicatezza ma senza paura. Sembra che questo genere di problemi siano più diffusi nella comunità LGBTQ+ che fra gli eterosessuali, e soprattutto fra i giovani, ma se ne parla poco e ancora meno quando si tratta di persone di sesso maschile. L’immaginario diffuso collega l’anoressia (che è quello di cui soffre il protagonista) in modo prevalente alle donne.

Alice Oseman, l’ideatrice, rivela in un’intervista ad Elle:

“Si trattava di trovare il giusto confine tra il mostrare troppo e il mostrare troppo poco, essenzialmente. Volevo che fosse realistico e che mostrasse in modo autentico la realtà di avere un disturbo alimentare, ma se mostravo troppo, allora diventava gratuitamente orribile e dannoso. Quello non è utile per nessuno. Anzi, è attivamente dannoso per le persone che guardano.

Ma d'altra parte, se tratto di sfuggita o glisso sugli elementi più oscuri di quella storia, allora non è realistica o nessuno riesce ad riconoscervisi. C'è una linea intermedia che ho cercato di trovare, e questa è stata la sfida anche quando ho scritto le graphic novel. Mi sono avvicinata alla storia pensando: cosa devo mostrare? Cosa non dovrei mostrare? Cosa dovrei raccontare al pubblico e non farglielo vedere?”

Da profana ritengo che abbiano fatto un buon lavoro, con i familiari e il suo ragazzo Nik (Kit Connor) che gli stanno vicino, ma se per esperienza con l’argomento ritenete che non sia così, mi fa piacere se mi commentate argomentando in proposito. 

I primi approcci al sesso pure hanno avuto il loro spazio, così come la tematica trans, con il rischio che venga vista attraverso quella lente qualunque cosa uno faccia: Elle (Yasmin Finney) rimane delusa e ferita che, convocata per un’intervista sulla sua arte, finiscano per chiederle poi in realtà più della sua sessualità che della sua opera.

Nel variegato gruppo è rincuorante vedere che non si dimenticano di chi è asessuale, anche perché se c’è una categoria sottorappresentata è quella. Di questo specifico aspetto in passato ne avevo parlato qui.

Graditissimo il cameo di Jonathan Bailey (Bridgerton, Fellow Travelers) che, grande fan lui stesso, si è attivato per poter partecipare. ‘Tutti coloro che hanno superato i 40 anni dovrebbero essere costretti a guardarlo. (…) E onestamente, se fossero costretti a guardare Heartstopper, il mondo sarebbe probabilmente migliore per questo”, ha dichiarato (qui). Non so se si dovrebbero costringere le persone a vedere cose, ma concordo; sarebbe per molti un’educazione.

mercoledì 20 novembre 2024

THE DIPLOMAT: brevi note sulla seconda stagione

Nonostante il recap, inizialmente sono rimasta spaesata all’esordio della seconda stagione di The Diplomat (su Netflix dal 31 ottobre 2024; qui ho parlato della prima stagione) e ho dovuto fare un ripasso di chi era chi perché la serie ha ricominciato a tutto gas da dove aveva lasciato. Una volta che ho ripreso le fila me la sono goduta come non mai.

Non ha perso un colpo ed è stata dinamica, piena di colpi di scena. E che cliffhanger: la reazione del primo ministro Trowbridge (2.04), e ammetto di avere un debole per Rory Kinnear (Penny Dreadful) che lo interpreta; il ruolo della vice-presidente agli eventi (2.05); la reazione del presidente USA alle notizie riportategli da Hal (2.06) proprio al calare del sipario della season finale. Già non vedo l’ora per la prossima stagione.

Adoro il cast tutto, ma l’aggiunta di Allison Janey nel ruolo della vicepresidente Grace Penn è particolarmente di soddisfazione visti i suoi trascorsi in The West Wing, dove interpretava la segretaria stampa del presidente USA. Potenti le conversazioni fra di lei e la protagonista Katherine "Kate" Wyler (Keri Russell): dialoghi pregnanti, un convincente modo di mostrare donne che sanno essere complici e sanno essere rivali, ma che sopra ogni cosa sono professionali. Intelligente anche il discorso sulla soft power avvenuto fra le due.

Cospirazioni e complotti internazionali per una serie pop-corn con un suo spessore nella consapevolezza di dinamiche sofisticate che sfuggono non solo ai comuni mortali, ma anche ai grandi attori della politica, a meno di non esserne a parte. 


venerdì 15 novembre 2024

AGATHA ALL ALONG: quello che voglio vedere

Questo è quello che voglio vedere quando seguo una serie con delle streghe, ho pensato guardando Agatha All Along (Disney TV+): gustosa avventura con donne grintose, pentoloni (o in questo caso un lavandino a fare da pentolone) e pozioni magiche, formule rituali meglio se in latino, congreghe che si riuniscono con pentacoli e candele, l’occasionale volo con la scopa, e meglio se poi come in questo caso ci si lamenta pure che è diventata un simbolo commerciale e un’ovvia icona di domesticità della donna, senso di connessione con la natura e con la Dea, timore dei roghi, un po’ di giocoso divertimento con la classica iconografia…con qualche spruzzata di saggezza Wicca.

Non avevo alcun desiderio di approfondire il personaggio di Agatha, dopo la visione di WandaVision, che pure avevo apprezzato (ne avevo parlato qui), né ho un interesse particolare ad approfondire il mondo Marvel, ma le recensioni di questo spin-off ideato da Jac Schaeffer erano meritatamente buone: complice lo spirito di Halloween per cui è ideale, me la sono divorata con gusto. Nata come miniserie in 9 puntate, sembra possa avere stagioni successive: le aspetto. E sebbene riprenda elementi dalla serie madre, la mancata visione di quest’ultima non inficia l’apprezzamento di questa nuova creazione. Il viaggio dell’eroe con le sue tappe, le varie prove da superare e i suoi archetipi è una delle strutture narrative più collaudate che ci siano, e qui la si mette a buon frutto in modo prima di tutto fisico, dato che è un vero viaggio quello che intraprende la protagonista con le sue comprimarie.

Agatha Harkness (una versatile, magnetica Kathryn Hahn, Tiny Beautiful Things, I love Dick), che alla fine di WandaVision era stata intrappolata da un incantesimo di Wanda nella cittadina di Westview, nel New Jersey, nel ruolo di Agnes, una poliziotta, dopo tre anni si risveglia dall'incantesimo, grazie a un misterioso Ragazzino (così lo chiamerà, in inglese “Teen”) che le diventa famiglio, William Kaplan (Joe Locke, Heartstopper): un sigillo gli impedisce di rivelare la propria identità che si scoprirà nel corso delle vicende. Agatha si rende conto che i suoi poteri sono svaniti e con lui, che le chiede di percorrerla insieme, decide di intraprendere la leggendaria Strada delle Streghe, di cui parla una famosa ballata, la The Ballad of the Witches' Road, cantata più volte nel corso della stagione (qui in una delle versioni, e vi sfido a non cantarla voi stessi alla fine).

L’obbiettivo è riconquistare le proprie capacità magiche, inseguita dalle Sette di Salem, storiche nemiche. Prima però deve riunire una congrega. Si uniscono a lei Jennifer Kale (Sasheer Zamata), esperta di pozioni; Alice Wu-Gulliver (Ali Ahn), strega protettrice la cui famiglia è afflitta da una maledizione generazionale che la vede perseguitata da un demone; Lilia Calderu (la mitica Patti LuPone), una strega siciliana di 450 anni esperta di tarocchi e divinazione. Nella necessità di una “strega verde”, una il cui punto di forza è il rapporto con la terra, Agatha con una scusa si trascina dietro una vicina di casa che non sa nulla di magia, Sharon Davis (Debra Jo Rupp), che lei continua a chiamare “signora Hart”, dal nome del personaggio che era stata costretta ad interpretare in WandaVision. Alla scomparsa di quest’ultima, la sostituisce la ben più temibile Rio Vidal (la azzeccatissima Aubrey Plaza – la ricordate in Legion, al di là di Parks and Recreation e The White Lotus?), ex amante di Agatha e, come si scoprirà, incarnazione della Morte.

Questa produzione funziona da un punto di vista narrativo grazie a una sfacciata, feroce antieroina la cui backstory viene scavata dando profondità al personaggio e al suo dolore oltre alla avvincente avventura che, mescolando tragedia e commedia, coinvolge i personaggi in “trial”, in prove, in test, volte a mettere in campo la propria abilità per poter passare alla tappa successiva. Ci sono colpi di scena fino in ultimo, mai un tempo morto, e non guasta che ad ogni nuova challenge contro il tempo (che viene scandito in un pressante conto alla rovescia) le protagoniste si ritrovino in ambientazioni con outfit ogni volta diversi. Buona parte dell’attrattiva è stata anche dovuta alla capacità di giocare con l’estetica stregonesca, inspirandosi anche a personaggi leggendari con una buona dose di riferimenti pop, a partire dall’iconico Il Mago di Oz, che viene richiamato in più di un’occasione, a Maleficient, ad Alice nel Paese delle Meraviglie, fino alle suggestioni della brillante sigla finale (qui, e qui con una spiegazione in dettaglio) – non c’è invece una scena post-titoli di coda, una tradizione di queste produzioni che in questo caso non è stata volutamente rispettata.

martedì 5 novembre 2024

HIERARCHY: una scuola d'elite coreana

Scritto da Chu Hye-mi, e con la regia di Bae Hyeon-jin, Hierarchy (ovvero “Gerarchia”, in coreano 하이라키) è una serie scolastico-romantico-adolescenziale di Netflix ambienta nell’esclusiva Jooshin High School dove il prestigio, in un Paese che valorizza moltissimo la cultura, in questo caso è dettato dai frequentanti, tutti ricchissimi rampolli di famiglia a cui viene impartita la più vasta istruzione possibile. A fondare questa scuola privata, il cui motto è proprio “noblesse oblige”, è il Jooshin Group.

Un ragazzo che frequentava la scuola con una borsa di studio rimane ucciso e il fratello Kang Ha (Lee Chae-min) si iscrive nella stessa scuola, sempre grazie a una borsa di studio, per scoprire che cosa è accaduto e per vendicarsi. Qui incontra subito un ambiente molto snob dove chi non è danaroso viene regolarmente bullizzato. Re e regina della cricca di giovani sono considerati Kim Ri-an (Kim Jae-won), che è l’erede designato del gruppo Jooshin, che ha una madre completamente anaffettiva, che nel momento in cui lui le chiede più attenzione gli domanda se non sia sufficiente il numeroso personale che ha assunto per seguirlo; e Jung Jae-i (Roh Jeong-eui), figlia di un potente capo di un gruppo d’affari rivale, il Jaeyul Group che tiranneggia la figlia disprezzandola come la madre da cui si è separato e usandola solo ai fini di business. Ri-an e Jae-i erano una coppia innamorata, ma eventi in partenza poco chiari li vedono separati. La migliore amica di lei, He-ra (Ji Hye-won), è gelosa della loro relazione e non si accorge che il comune amico Lee Woo-jin (Lee Won-jung) è interessato a lei.

La serie è inclusa in un filone che comprende titoli come Élite, Sweet Revenge, The Glory e Boys Over Flowers. Personalmente non li ho visti e mi fido della critica e dei fan che li reputano migliori. Nonostante una sigla di gran stile infatti, la qualità della produzione  elevata da scenografie stilose e una fotografia elegante, Hierarchy non riesce a catturare le simpatie degli spettatori. Vorrebbe essere una storia di amore, amicizia e vendetta, ma non si distingue a sufficienza da titoli indicati sopra per offrire qualcosa di nuovo, ripete dinamiche già viste in altri teen drama. La mancanza di una direzione chiara, personaggi stereotipati e l’assenza di coesione fra alcune parti della trama sono lamentele sollevate che condivido. La soluzione alla morte del fratello di Kang Ha è appagante, ma il triangolo fra questi, Ri-an e Jae-i è inconsistente. Sembra un’opportunità sprecata, perché il potenziale in realtà c’era.

Centro focale di interesse sono il privilegio e le gerarchie sociali che contaminano la società coreana, il potere e le manipolazioni messe in atto per mantenere il proprio status: chi è economicamente benestante gode evidentemente di maggiori possibilità, ma la critica che si muove è di costituire una casta chiusa che non solo non condivide il proprio benessere, esclude volontariamente gli altri per puro senso di superiorità e perché può e ostracizza gli esterni alla propria cerchia umiliandoli e ritenendoli sacrificabili. La generazione giovane, almeno nei tre-quattro leading characters, è mostrata migliore rispetto a quella dei propri genitori nella misura in cui credono ancora nella responsabilità personale, nel voler rendere la realtà migliore e nell’esserci gli uni per gli altri.

Ammetto di aver avuto grande difficoltà nel valutare la capacità recitativa dei personaggi.  Ji Hye-won che interpreta He-ra mi è parsa molto convincente nel ruolo dell’amica d’infanzia gelosa di Jae-i, che ora le è vicina ora cerca di affossarla, che ricchissima cade in disgrazia ma è lei stessa maciullata dalle macchinazioni altrui e dalle sorti economiche della propria famiglia. È stata estremamente espressiva. Diversamente da lei  Roh Jeong-eui, che è appunto l’amica Jae-i, mi è sembrata molto piatta. Sono consapevole però che in estremo oriente fa parte della cultura cercare di non mostrare sul proprio volto i propri sentimenti: dissimularli o nasconderli è incoraggiato. Quindi non sono stata davvero in grado di valutare se certe scelte di recitazione fossero scarso talento da parte dell’attrice o, come mi pare di poter intuire da altri momenti di narrazione, scelte di mostrarsi stoicamente impassibile. Forse la voce avrebbe aiutato, ma non conosco il coreano e per semplicità ho guardato il programma doppiato in inglese (in italiano non c’era la possibilità). In ogni caso ho sentito lo scarto culturale e la mia mancanza di strumenti per fare una valutazione adeguata. Genericamente le interpretazioni sono state apprezzate nonostante per qualcuno siano state troppo smaccate e mancassero di sfumature.

Se si è amanti del sottogenere di ragazzi ricchi e viziati in collegi esclusivi non scoraggio la visione, ma non la incoraggio nemmeno. Al mio scrivere non è prevista una seconda stagione, comunque poco probabile vista la tiepida ricezione.

sabato 26 ottobre 2024

FOR ALL MANKIND: la quarta stagione

Mi rammarico di non aver mai scritto prima su For All Mankind  (AppleTV+), anche perché la quarta stagione di cui mi accingo a parlare è quella che di tutte finora mi è piaciuta meno, pur comunque nell’alto livello di apprezzamento.

ATTENZIONE SPOILER PER LA QUARTA STAGIONE

Questa non è la fantascienza in cui si indossano tutine aderenti e si incontrano alieni antropomorfi ma è, semmai di fantascienza vogliano parlare, quella in cui ci si muove scafandrati su una superficie arida e ostile e si cercano disperatamente molecole di potenziali esseri viventi. Si tratta di un’ucronia in cui sono stati i sovietici i primi ad allunare e la quarta stagione parte nel 2003 iniziando con “Glasnost” (4.01) e finendo con “Perestrojka” (4.10). Fulcro dell’azione è in questo caso Marte, dove la base "Happy Valley" si è molto ampliata, e salvo un piccolo avamposto nordcoreano,  è gestita all’unisono da americani e russi, con Danielle Poole (Krys Marshall) richiamata dal pensionamento per comandarla al posto di Edward Baldwin (Joel Kinnaman).

Come sempre, questa serie, ideata Ronald D. Moore (Battlestar Galactica, Outlander), Matt Wolpert e Ben Nedivi, con questi ultimi due responsabili di buona parte della sceneggiatura, è meticolosamente costruita verso una season finale che porta molta suspense. In questo caso, se nel sottofinale (“Brazil”, 4.09) arriva come un fulmine a ciel sereno l’assassinio di Sergei (Piotr Adamczyk, Karol, un uomo diventato papa), un personaggio molto amato (anche se narrativamente non ci si è non potuti chiedere che fine avesse fatto in ultimo la moglie), la conclusione ha tenuto con il fiato sospeso al pari delle stagioni precedenti con un asteroide chiamato Goldilocks/Riccioli d’oro, ricco di prezioso iridio, che NASA, con l’amministratore Eli Hobson (Daniel Stern), e ROSCOSMOS,  con a capo Irina Morozova (Svetlana Efremova), vogliono portare in orbita verso la terra e HELIOS (un’agenzia privata) che invece intende sabotare il loro progetto e dirottarlo perché rimanga nell’orbita di Marte assicurando così continui investimenti e ricerca nel pianeta rosso che diversamente verrebbe abbandonato al proprio destino. Si testano così punti di vista e si creano alleanze inaspettate.  E l’inaspettato ruolo di Dev Ayesa (Edi Gathegi) in tutto questo è stato coerente con quello che il personaggio è per come è stato presentato dall’inizio.

Parte del motivo per cui mi è piaciuta meno questa stagione è che ci si è tanto concentrati sul malcontento e le rivendicazioni operaie, in particolare capeggiate da Samantha Massey (Tyner Rushing) e Miles Dale (Toby Kebbell, Servant), ex lavorante di piattaforma petrolifera diventato contrabbandiere, che in chiusura diventano inaspettatamente eroi della situazione. In realtà ho apprezzato molto però come siano riusciti a mostrare le ragioni di entrambe le parti. Tutti avevano regione e allo stesso tempo nessuno aveva ragione, se è vero che quelli dei “piani bassi” sono stati imbrogliati e si trovavano in una situazione più disagiata dei “piani alti”, è vero altrettanto che spesso non è colpa di questi ultimi che cercano di fare il possibile e spesso hanno le mani altrettanto legate, e che sappiamo bene dalle stagioni precedenti che in un certo senso eventuali piccoli privilegi se li sono anche guadagnati, con molti anni vissuti in condizioni ben più restrittive e di sacrificio di quelli degli attuali “piani bassi”. La capacità di mostrare più prospettive è uno dei punti di forza del programma, così come la capacità di dimostrare che non è tutto bianco o nero, come ben illustra l’emblematica storyline di Margo Madison (Wrenn Schmidt), creduta morta e passata ai russi e, ma poi rivelatasi viva, con grande sorpresa in particolare di Aleida Rosales (Coral Peña), che peraltro ha stretto un magnifico rapporto professional-amicale con Kelly Baldwin (Cynthy Wu), mostrando una volta in più che non si ha timore di mettere in primo piano donne competenti. I comportamenti e compromessi che ha fatto Margo, a cui noi abbiamo potuto assistere passo passo, ma che non vengono accettati da Aleida, sono una vera gemma perché pur nella loro problematicità, difficilmente non verrebbero compresi dallo spettatore che facilmente avrebbe fatto scelte simili, incastrato dagli eventi. Margo in questa stagione richiama alla memoria un evento passato in cui lei era stata profondamente accusatoria nei confronti di un suo mentore Wernher von Braun, quando aveva scoperto che aveva lavorato per i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, pur consapevole del trattamento dei prigionieri che costruivano il razzo V-2. Si domanda se, mutatis mutandis, non abbia fatto scelte ugualmente biasimevoli. È stata una finezza da parte degli autori riprendere con la memoria un evento della prima stagione e una citazione di una riflessione che questi le aveva fatto, “Il progresso non è mai gratuito, Margo. C’è sempre un costo” (1.02), che dimostra una volta in più con quanta cura sia stato pensato questo arco. Mantenere i personaggi moralmente in bilico nell’impossibilità di riuscire a stabilire in via definitiva qualche sia la scelta più giusta nelle specifiche circostanze, da cui ci si sente costretti, e far sì che si tifi comunque per loro, non è abilità da poco.  

Proprio all’ingegnera prima donna del Controllo Missione della NASA passata all’Unione Sovietiva viene affidato il pensiero conclusivo della stagione, recitato in voice-over, per una serie che deve il proprio titolo alla placca commemorativa lasciata sulla Luna dall'equipaggio dell'Apollo 11, che riporta la scritta «We came in peace for all mankind» (Siamo venuti in pace per tutta l'umanità): “i nostri sentimenti possono non essere convenienti, possono anche rallentare il nostro progresso, ma sono anche il solo modo per cominciare davvero a comprendere il mondo intorno a noi, e i nuovi mondi che ci attendono” (traduzione mia). Insomma gli esseri umani che agiscono “per tutta l’umanità” sono esseri imprevedibili e contraddittori e dobbiamo riconoscere la preziosità di questa caratteristica.

Rimane un certo idealismo – Danielle parlando con casa menziona Star Trek, e ci sono fugaci momenti in cui c’è la sensazione che ci sia in nuce quel tipo di futuro. La confermata quinta stagione partirà, come già si è visto dalla chiusura di questa, nel 2012nella diegesi, vista l’abitudine di For All Mankind di fare dei salti temporali fra un arco e l’altro. Vista anche l’età, su alcuni dei personaggi storici (Danielle, Margo, Edward) è probabile che cali il sipario, ma già è stato annunciato l’arrivo di Celia Boyd, membro della Forza di Sicurezza Pacificatrice sulla colonia di Marte, con il volto di Mireille Enos (The Killing). E se non si escludono possibili stagioni 6 e 7, con il rinnovo per la quinta si è intanto anche annunciato lo spin-off “Star City”, in cui si tornerà all'inizio della linea temporale alternativa stabilita da "For All Mankind", ma questa volta dalla prospettiva sovietica.

mercoledì 16 ottobre 2024

THE CURSE: idiosincratico e cringy

“Che cos’è l’arte? Che cosa intende trasmettere?” The Curse (Showtime; Paramount+) si è posta costantemente questa domanda nel corso delle sue 10 puntate, in modo sia esplicito che no. Non è un caso che sia stata indicata da molti come uno dei migliori programmi del 2023. Asher (Nathan Fielder), uno dei tre protagonisti, se lo domanda una volta in più parlandone con la moglie Whitney (Emma Stone), molto incinta, nella season finale (1.10). Dà anche una risposta, dopo aver riflettuto su Mel Brooks, la ricezione a The Producers da parte degli spettatori ebrei e l’olocausto: qualche volta arte è spingersi fino all’estremo per provare la propria tesi.

SPOILER SULLA SEASON FINALE NEI PROSSIMI DUE PARAGRAFI

Antecedentemente ci sono due momenti terribilmente cringy, vera cifra stilistica dello show. Nel primo la coppia fa un collegamento video con un programma di cucina di Rachel Ray per promuovere un proprio programma televisivo, su cui hanno lavorato nel corso della stagione – seguirli mentre lo realizzano è stato il contenuto delle vicende della serie. Sorridono come idioti imbalsamati tutto il tempo mentre lei praticamente li ignora. Nel secondo Asher per rendere felice Whitney, che lo è quando riesce a rendere tali gli altri, decide di regalare una casa con un valore di 280.000-300.00 dollari ad Abshir (Barkhad Abdi), uno squatter a cui l’avevano in precedenza già comunque prestata e quest’ultimo non solo non sembra commosso come si aspettavano, ma ne è quasi infastidito, li lascia sulla porta non facendoli nemmeno entrare e la sola cosa di cui si interessa è chi pagherà le tasse di proprietà – loro naturalmente. Poi la serie fa esattamente quello che Asher dice che l’arte debba talvolta fare, in una delle finali più memorabili che io abbia mai visto. Geniale, surreale, kafkiana. Davvero arte.

Non sono sicura di aver capito il significato della conclusione scelta, che tesi voglia provare e come si integri con il resto della stagione, ma l’ho amata profondamente. La coppia dovrebbe essere a letto a riposare, ma quando si svegliano si rendono conto che, per qualche inspiegata ragione, che inizialmente ipotizzano legata al sistema pressorio dell’abitazione, lui è sul soffitto, con la faccia rivolta verso il pavimento. E non importa quanto cerchi disperatamente di scendere, la gravità lo spinge in alto. Whitney intanto comincia ad avere le contrazioni e all’opposto è letteralmente che striscia bocconi sul pavimento, preoccupati che le succeda altrettanto. Asher è appunto convinto che il fenomeno sia legato alla casa e cerca di uscire, ma si rende subito conto che non è così: se lo lasciano vola via, come un palloncino. Uscendo dalla casa vola in alto e viene trattenuto solo dai rami di un albero, a cui si aggrappa. Il miglior amico Dougie (Benny Safdie) pensa che sia in crisi per la paura di diventare padre, una cosa astratta di cui ancora non riesce a rendersi conto, e lo filma; i pompieri che intervengono lo credono matto e, invece di  fare come chiede, tagliano il ramo dell’albero per farlo cadere, e lui prende il volo, finendo oltre l’atmosfera terrestre, nello spazio remoto. Whitney in ospedale partorisce da sola un nel bambino che la riempie di felicità; Dougie piange per non aver creduto all’amico. Potente, folle, inspiegabile. Memorabile. Che senso ha?

Ma facciamo un passo indietro: Asher e Whitney Siegel vogliono mandare in onda un reality, “Fliplanthropy”, filmato dall’amico Dougie Schacter come autore e regista spesso incompreso, in cui riqualificano la zona economicamente depressa della comunità di Española, in New Mexico, ricca di cultura nativo-americana. Lo vogliono fare attraverso la propria società di sviluppo immobiliare costruendo nuovi modelli di casa, ecologicamente sostenibili, dando valore all’arte locale con una filosofia abitativa olistica. Vogliono aiutare la gente del posto, e vanno al di là di quanto anche può apparire ragionevole per farlo, ma vengono criticati per la gentrificazione dell'area. Si è straziati di imbarazzo a seguirne il processo creativo, dove il limite fra realtà e reality è costantemente ridefinito, ci sono inquadrature che danno il senso di spiare attraverso il buco della serratura e molte interazioni sono fatte a uso e consumo delle telecamere. Versano dell’acqua sugli occhi di una donna che sta morendo di cancro, con un po’ di mentolo perché siano arrossati per un effetto più realistico, per fingere lacrime di gratitudine perché hanno trovato un lavoro al figlio. Non si potrebbe essere più spietati nel mettere a nudo la compassione o la generosità puramente performative. O nel puntare il dito contro l’atteggiamento da “white savior” (salvatore bianco). Lui regala 100 dollari a delle bimbe che fanno le venditrici ambulanti di bevande gassate, ma come scena, poi li rivuole indietro, e da qui la maledizione, la “curse” del titolo da cui Nathan si sente perseguitato per molto del tempo. Era solo una challenge di TikTok, ma è vera perché ci credono?

Il confine fa realtà e finzione è continuamente rinegoziato, e non è un caso che a ideare il programma sia stato insieme a Safide proprio Filler, noto per programmi sperimentali come The Rehersal e Nathan for You in cui proprio questo spazio liminale viene costantemente e intelligentemente interrogato. Le puntate non sono tanto costruite su atti, quando su moduli che si susseguono. Le sorti incerte della produzione si alternano a quelle della loro vita personale: si mette in dubbio la sincerità di lei anche per le pratiche dei propri genitori, si demolisce la capacità umoristica di lui, un Dougie privo di scrupoli si incunea nel rapporto facendo temporaneamente credere che questo renderebbe la loro idea più drammaticamente appetibile ai network, ci si deve relazionare con vari interlocutori, fra cui un’artista del Pueblo Picuris di nome Cara Durand (Nizhonniya Luxi Austin) – tutte le scene con quest’ultima sono follemente geniali…Ansia, mortificazione, senso di inadeguatezza abbondano. 

Si tratta di un programma complesso, originalissimo e difficile da classificare anche se viene considerato una black comedy-drama thriller satirico. Non è una serie, di cui non è completamente esclusa una seconda stagione, che si guardi sempre con piacere. Ha scritto bene Daniel Fienberg su The Hollywood Reporter, quando ha detto che “è un luogo visceralmente sgradevole” da visitare e che la “serie ha affinato l'umiliazione e l'antipatia fino al limite del kink, e i vari malintesi e le intenzioni discutibili rendono difficile tifare per qualcosa in particolare, se non per l'incenerimento di molte delle nostre illusioni culturalmente condivise”. Indubbiamente sviscera in modo chirurgico il tema dell’autenticità ed è pregno di riflessioni. Affascinante, idiosincratico e da non perdere. 

domenica 6 ottobre 2024

THE GIRLS ON THE BUS: quattro giornaliste politiche

Ispirato al memoir del 2018 della giornalista politica del New York Times Amy Chozik intitolato Chasing Hillary, in cui lei seguiva la campagna elettorale della Clinton, e qui co-ideatrice insieme a Julie Plec (The Vampire Diaries), The Girls on the Bus (sull’americana Max) ha titolo che è un omaggio al seminale testo di saggistica giornalistica del 1973 The Boys on the Bus, un best-seller tutt’ora usato come materiale di studio nei corsi universitari di giornalismo, in cui l’autore Timothy Crouse racconta la vita in viaggio dei reporter che seguivano le elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 1972, libro mostrato spesso nella diegesi.

Cancellata dopo una sola stagione, con le presidenziali americane nel vivo, mi è sembrato il momento ideale per seguirla. Le quattro donne sotto i riflettori sono sì persone, ma allo stesso tempo rappresentano un modello di giornalismo così come si contendono la scena nella contemporaneità e possono ciascuna essere identificate da una parola chiave, come esplicitano in chiusura (1.10). Sadie McCarthy (Melissa Benoist, Supergirl) è la penna politica di punta per The New York Sentinel, adora la propria professione, ed è appassionata, crede che l’autenticità e rivelare le proprie simpatie eventuali sia più onesto e abbia più integrità di un’oggettività che spesso è illusoria. Dopo una crisi avvenuta qualche tempo prima ha convinto il suo superiore Bruce Turner (Griffin Dunne, This is us), che per lei è un incrocio fra un mentore e una figura paterna, a darle una seconda possibilità. Lui, con un passato di dipendenza da sostanze stupefacenti, pare sia ispirato al leggendario David Carr del Times. Suo idolo è il pioniere del giornalismo Hunter S. Thompson (P.J. Sosko), che le appare incarnando i propri pensieri. Rappresenta la carta stampata giovane e grintosa che è ancora animata da idealismo e convinzione di essere rilevante e poter fare la differenza, è la “speranza”. Il lavoro di Sadie la porta in contatto con un’ex-fiamma che lei aveva ghostato, Malcom (Brandon Scott).

Sempre alla carta stampata appartiene Grace Gordon Greene (Carla Gugino, The Fall of the House of Usher), una veterana che ha vinto il Pulitzer che mette la carriera e gli scoop davanti ad ogni cosa, anche al marito (Scott Cohen) e alla figlia universitaria (Rose Jackson-Smith) che sta avendo un periodo di crisi che lei non riesce a gestire. È il “cinismo”.  Kimberlyn Anaya Kendrick (Christina Elmore), la conservatrice del gruppo, in contrasto ideologico con le altre, lavora per un network simil-FoxNews il "Liberty News Direct" che non la apprezza come dovrebbe. Ha un fidanzato, Eric (Kyle Vincent Terry), poi marito, con il quale il rapporto è difficile proprio a causa dei suoi mille impegni di lavoro. Rappresenta l’”ambizione”. Lola Rahaii (Natasha Behnam), che è la “giovinezza”, è un’influencer e attivista della Generazione Z che ha più follower su Twitter di quanti ne abbia il Washington Post. È grintosa e convinta che il suo modo di fare informazione sui social sia quello rilevante, mentre vede la carta stampata come morta e la TV via cavo come un canale per vecchi. Nel tempo però impara il rispetto per i giornalisti di vecchia scuola e sente sempre più soffocante la continua necessità di fare product placement.

Queste professioniste dell’informazione devono seguire i politici che si contendono la nomination democratica: Felicity Walker (Hettienne Park), in parte modellata su Hillary Clinton, Biff de la Peña (Mark Consuelos), attore prestato alla politica, Hayden Wells Garrett (Scott Foley, Felicity) il meno noto fra i contendenti che riserverà alcune sorprese. Scrive Daniel Fienberg sull’Hollywood Reporter: “I candidati in pista per lo più non vengono nominati e sono presentati come archetipi: il geriatrico, la matricola, l'uomo bianco e sexy, ecc. Ma gli spettatori abbastanza intelligenti da identificare il network via cavo come simil-Fox troveranno facile riconoscerli come Fake AOC (Tala Ashe), Fake Mayor Pete (Scott Foley), Fake Arnold Schwarzenegger (Mark Consuelos), Fake Joe Biden (Richard Bekins) e Fake Hillary (Park)”.

Traspare l’amore per la professione giornalistica, con la consapevolezza che chi lavora in questo settore potrà non fare la storia, ma di certo la scrive (1.09); allo stesso tempo è guardata anche un l’atteggiamento disilluso di chi si rende conto che “di questi tempi la verità è qualunque cosa tu voglia credere” e siamo in un momento storico in cui i media sono sotto attacco. Fra Sadie e Bruce, e poi fra le protagoniste ci sono discussioni su questi temi. La sensazione di fondo è però che si rinunci a discutere senza esclusione di colpi, rendendo le opinioni un po’ blande (specie del caso di Kimberlyn, che dovrebbe essere la voce dissonante), e facendo finire i contrasti a tarallucci e vino in virtù della bella amicizia che si crea fra di loro, presenti l’una per l’altra nei momenti di difficoltà, pronte ad aiutarsi sul piano personale e professionale e diventate una famiglia. E per quanto si sentano le salvatrici della democrazia, nell’affrontare le tematiche però si dice poco del mondo là fuori e non si riesce ad essere una voce reale nel commentare la politica o i media effettivi. 

Scrive bene Alison Herman su Variety quando dice “Lo show è bloccato nel peggiore dei due mondi: le sue frequenti sciocchezze sembrano inappropriate, mentre le sue occasionali grandiosità appaiono del tutto fuori dalla sua portata”. Good Girls Revolt, The Morning Show o i vari  programmi di Aaron Sorkin (che sia The West Wing o The Newsroom) hanno sicuramente una diversa pregnanza. A dispetto di questo, anche grazie a una buona intesa fra il cast, è una visione gradevole anche se priva di rivelazioni.

giovedì 26 settembre 2024

MY LADY JANE: divertente e romantico

Frizzante, romantico, divertente, pieno di avventura, di intrighi e colpi di scena, di tensione e desiderio: My Lady Jane (Amazon Prime), purtroppo cancellata dopo una sola stagione, è stata una gradita sorpresa. Adattata per la televisione da Gemma Burgess, è basata sull’omonimo libro, primo di una serie di romanzi conosciuti come The Lady Janies, scritti da Jodi Meadows, Brodi Ashton e Cynthia Hand.

Si tratta di un’ucronia fantasy romantica in cui protagonista è Lady Jane Grey (Emily Bader), prima regina di Inghilterra, pronipote di Enrico VIII (sul personaggio storico si legga qui). Come nella finzione, fu fatta sposare a Guilford Dudley (Edward Bluemel, Sex Education), rampollo del duca John Dudley (Rob Brydon), consigliere di Edoardo VI (Jordan Peters) che, morendo, l’aveva designata come sua erede al trono. Nella vita reale ha regnato per soli nove giorni, dal 10 al 19 luglio 1553, condannata a morte da quella che lei stessa riconosceva come legittima erede, Maria I (Kate O’Flynn, Everyone Else Burns), figlia di Enrico VIII. Qualcuno forse ricorda il famoso quadro di Paul Delaroche, che ritrae la sua esecuzione (qui).

Nella serie le vicende vanno diversamente. La madre di Jane, Lady Frances (Anna Chancellor) costringe sì la figlia a sposarsi con un uomo che non conosceva, e alla fine deve farlo nonostante un tentativo di fuga messo in atto con la sua fedele domestica Susannah (Máiréad Tyers); e sì Mary cerca a tutti i costi, con l’aiuto del marito Lord Seymour (Dominic Cooper), di accaparrarsi il trono, ma lei sopravvive e quello che era un matrimonio forzato in realtà diventa uno di complicità oltre che di attrazione che inizialmente entrambi cercano di negare e tenere a freno e alla fine di amore. L’incipit parla chiaro, e nel farlo mostra subito lo spirito irriverente che anima il programma: “Tanto tempo fa, in una terra non molto lontana, una stirpe di re credeva che Dio avesse concesso loro il diritto di governare l’Inghilterra a loro piacimento. Conoscete Re Enrico VIII il gigante, re Tudor dai capelli rossi. Usava le mogli come fazzoletti, un soffio e via. Divorziata. Decapitata. Morta. Divorziata. Decapitata. Sopravvissuta. A lui successe il figlio Edward. Quando egli morì ci si aspettava che la corona andasse alla sorellastra Mary o magari a Elisabeth. E, invece, ci fu uno shock pazzesco. Lady Jane Grey. Intellettuale ribelle, discreta rompipalle e pedina della propria ambiziosa e nobile famiglia, Jane fu sposata senza il suo consenso e incoronata regina contro il suo volere. E, solo nove giorni dopo fu marchiata come una traditrice e… Perse la testa. Sarebbe potuta essere la leader che serviva all’Inghilterra, ma la storia la ricorda come l’emblema della damigella in pericolo. Ohhhh Vaffanculo! E se fosse andata diversamente?”

C’è di più. In questa versione dell’Inghilterra di epoca Tudor esistono delle persone, gli Ethiani, persone mutaforma che a piacimento e all’occorrenza si possono trasformare in animali, considerati da molti come esseri inferiori e perseguitati, che sono in contrasto con gli umani, detti Veritiani. Questo elemento fantastico maschera allegoricamente quello che nella storia è stato il contrasto nel Paese e nella vita di questa regina, fra Protestanti e Cattolici. ATTENZIONE SPOILER Anche Guilford è un ethiano, anche se fa di tutto per nasconderlo. Per lui è più difficile che per gli altri, perché non riesce a trasformarsi a piacimento, ma di giorno diventa un cavallo e solo quando cala il sole può ritrasformarsi in uomo. Spera proprio che la brillantezza di Jane possa trovare un modo per guarirlo. È ossessionato dalla cura, tanto da subordinare tutto a quella, inizialmente. Una lettura metaforica può facilmente essere fatta in termini LGBTQ+ o di abilismo: e si contrappone una sana accettazione di sé a un fobica demolizione di ciò che è diverso.

La recitazione è brillante da parte di tutto il cast e fa funzionare le scene più bizzarre, spesso commentate con ironico distacco dalla voce fuori campo (Oliver Chris nella versione originale). L’intesa fra Jane e Guilford è palpabile, i battibecchi e scaramucce verbali fanno scintille e ben mostrano l’intesa montante fra loro che lo spettatore anela che consumino. C’è verve e grande umorismo, ma anche tanto romanticismo, e alla fine l’amore trionfa.

Qualcuno ha inappropriatamente collegato la serie a Bridgerton, ma a parte un’ambientazione d’epoca, e pure diversa, il solo contatto è nella presenza di una madre preoccupata dalla propria situazione finanziaria dopo la morte del marito e nella necessità di maritare tre figlie. Il tono sbarazzino, rivoluzionario, lievemente sboccato e femminista lo avvicina più a The Great con qualche elemento alla Queste oscure materie di Pullman  o eventualmente Ladyhawke.  

Godibilissimo. Qui il trailer ufficiale in italiano.


lunedì 16 settembre 2024

EVIL: la quarta e ultima (?) stagione

Si è da poco chiusa la quarta e ultima stagione di Evil (Paramount+). In un’intervista niente meno che Stephen King si è dichiarato un estimatore: considera la serie divertente, arguta e molto acuta. Attori e ideatori, che sono i coniugi Robert e Michelle King, ma a dispetto del cognome non hanno alcun rapporto con lo scrittore, ne sono rimasti lusingati e su X (l’ex Twitter) lo hanno ringraziato. Lui ha rincarato la dose, dicendo che è un programma brillante, stimolante, e che a tratti incute molta paura. Non posso che trovarmi d’accordo e augurarmi che la pressione che è nata per far continuare la serie, magari su Netflix o su altri servizi di streaming, possa avere successo. Negli USA si è piazzata nella top ten dei programmi più visti, gli autori hanno assicurato di avere storie per almeno altre due stagioni, e gli interpreti sono interessati a continuate a recitare quei ruoli. Katja Herbers in particolare, che interpreta Kristen Bouchard, è stata vocale nel fare campagna in proposito. Incrociamo le dita.  

La premessa è sempre la stessa e sembra quasi l’inizio di una barzelletta: una psicologa (Kristen), un prete (David Acosta, interpretato da Mike Colter), e un esperto di tecnologia (Ben Shakir, a cui dà il volto Aasif Mandvi) indagano situazioni “paranormali” per conto della chiesa cattolica: sono eventi spiegabili dalla scienza oppure c’è altro? Quanti sono orrori psicologici e quanta è possessione demoniaca? Ci si mantiene in bilico, senza essere creduloni, ma dando un margine di dubbio, e oltre alla puntata autoconclusiva procedurale si segue un arco sul “male” che appare mostruoso ma è evidentemente una metafora di mali sociali più o meno riconoscibili. Come non apprezzare quando Sheryl (Christine Lahti), la madre di Kristen, si ritrova finalmente in un ufficio tutto suo, ma il soffitto è bassissimo, è di cristallo e sopra di lei camminano solo uomini? Sister Andrea (Andrea Martin), un'anziana suora che riesce a vederli fisicamente davanti ai propri occhi, insegue schiaccia e distrugge i demoni più diversi.

In passato (ne avevo parlato qui) mi aveva lasciato qualche problematicità morale nel momento in cui ha avuto l’eroina protagonista capace di un omicidio premeditato nel corso nella seconda stagione. La moralità o meno dell’omicidio è però qui un tema ricorrente, con i personaggi dalla parte del bene che pure spesso si interrogano in che misura sia eventualmente lecito ricorrervi: David ad esempio prende in considerazione di eliminare fisicamente Leland Townsend, il sempre viscidamente seducente e inquietante Michael Emerson (Lost), grande cattivo della situazione. Il peso dei compromessi morali è preso seriamente, come è stato osservato. Con un mistero vagamente alla Dan Brown, David Acosta ha cominciato a lavorare per una società segreta, l’Entità, legata alla chiesa cattolica, che sfrutta la sua abilità di avere visioni, e se lui è sempre stato l’uomo di fede, non rimane cieco alla crisi della Chiesa Cattolica, così come spesso si discute del valore e del senso delle religioni organizzate, con più posizioni messe in campo – Kristen è stata cresciuta dalle suore, ma è agnostica, e le fa paura che la figlia maggiore stia valutando di farsi suora, ad esempio.

Ho proprio notato nel corso delle stagioni che mi lasciava una certa inquietudine di fondo, nonostante solitamente in queste cosa nulla mi tanga. E non sono mai mancati ironia e umorismo. Come non sghignazzare quando Leland ha a che fare con l’anticristo che è un bebè frignante che non riesce a dormire ma fa solo cacca e pipì, o quando glielo battezzano per fargli dispetto e impedirgli di usarlo per i propri fini? Le storie sanno essere folli e assurde a momenti, si passa con nonchalance dalla commedia a discussioni molto pregnanti e impegnate, con sostanza. I personaggi sono autenticamente amici e si vogliono bene, ma realisticamente da un punto di vista umano possono non essere d’accordo, e sanno esprimerlo con rispetto reciproco, ammettendo dubbi e paure. Gli interpreti tutti hanno saputo dare molto spessore a coloro che incarnano: David nella sua vocazione che talvolta si interroga se sia sufficiente, ma che sa essere la sua strada; Kristen nel suo ruolo professionale e di madre, con le quattro figlie  - Lynn (Brooklyn Shuck), Lila (Skylar Gray), Lexis (Maddy Crocco) e Laura (Dalya Knapp) – le cui voci si sovrappongono, che hanno sempre regalato una bella energia; Ben nella sua fiducia nella scienza, che nell’ultima stagione sembra essere in crisi.   

Scrive acutamente TV Guide che Evil ha attinto al potere di ciò che è assente, ed è lì che si sono sovrapposti l'orrore, il romanticismo e il desiderio religioso della serie, ed è riuscita ad essere raffinata nei dialoghi ma anche sorprendentemente pregnante nei momenti di silenzio. E aggiunge, facendo riferimento a un video di YouTube che non è reso disponibile nel nostro Paese che “(i) King hanno spesso citato il thriller in bianco e nero di Charles Laughton del 1955, The Night of the Hunter / La notte del cacciatore, come una delle principali influenze dello stile visivo di Evil, che punta al cielo, inquadrando i personaggi sotto uno spazio vuoto. In un dietro le quinte della quarta stagione, il direttore della fotografia Fred Murphy ha spiegato: ‘Abbiamo voluto dare più spazio intorno ai personaggi, per dare spazio al mondo degli angeli sopra ai personaggi’. Gli angeli del male avevano la stessa probabilità di essere tanto visioni di terrore come di meraviglia, e anche ciò che scendeva dall'alto poteva essere pericoloso. (Robert King ha dichiarato a Entertainment Weekly, durante la prima stagione, che la casa di Kristen si trovava sotto un treno, in modo che i personaggi “guardassero in alto in cerca di una minaccia”). Ma era importante che, mentre i demoni dilagavano, il mondo degli angeli fosse definito da ciò che non si vedeva”.

La conclusione c’è stata su più fronti. L’unico aspetto che mi è parso poco soddisfacente è stato quello del marito di Kristen, liquidato in modo affrettato, senza che si venisse davvero a scoprire che i suoi vuoti di memoria erano programmati da Leland, che gli succhiava letteralmente il sangue. La narrativa ha risolto i nodi principali e ha visto la chiesa cattolica chiudere il programma di valutazioni per cui erano stati assunti David, Kristen e Ben, anche se andava forte, e licenziarli. Sono delusi. Avrebbero continuato. Molto meta. Robert King  ha dichiarato in un’intervista a Slate che in parte volevano affrontare la questione della disintegrazione del sistema, della società, ma anche che sono partiti dall’idea che il male (evil in inglese) continua a esistere, indipendentemente dai desideri della Paramount+, rete televisiva che manda in onda le puntate. “Quindi, per definizione, se il male continua a esistere, la storia continua a esistere”. Ci auguriamo davvero possa farlo anche sui nostri teleschermi.