lunedì 27 luglio 2020

MRS. AMERICA: ratifica dell'ERA - la seconda ondata femminista e l'opposizione



Se descrivo Mrs America (sull’americana Hulu) come il corso di storia, di scienze politiche, di femminismo, di attivismo e di narrativa biografica che ritengo che sia, lo faccio sembrare un polpettone lagnoso e quello, al contrario, non ritengo lo sia: è una sagace, appassionante battaglia per i diritti delle donne, e con una prospettiva inaspettata che dà peso e rilievo anche a chi quella lotta l’ha combattuta e persa. Si rimane con il fiato sospeso, anche se si sa già come va a finire. E i parallelismi con la contemporaneità rendono tutto ancora più pregnante. Quali di quelle conversazioni sono conversazioni che facciamo tutt’ora? La reazione alla finzione della narrativa possiamo anche intenderla come un potenziale test di Rorschach sulla propria posizione rispetto alle questioni trattate.  

Siamo negli USA, negli anni ’70 (si procede cronologicamente a partire dal ’71). I grandi nomi della seconda ondata femminista Gloria Steinem (Rose Byrne, Damages), Betty Friedan (Tracey Ullman, The Tracey Ullman Show), Bella Abzug (Margo Martindale, The Americans, The Good Wife), Shirley Chisholm (Uzo Aduba, Orange is the New Black), Jill Ruckelshaus (Elizabeth Banks)    si stanno battendo per far ratificare da tutti gli Stati americani, perché sia considerato costituzionale, l’ERA, ovvero l’Equal Rights Emendment, l’emendamento sulla parità dei diritti, approvato da entrambi i rami del Congresso in modo bipartisan e perfino sostenuto dal presidente repubblicano, ma osteggiato da chi sente minacciata la famiglia americana tradizionale, capitanato dalla reazionaria Phyllis Schlafly (Cate Balchet) che ha fondato l’Eagle Forum, un gruppo conservatore, sostenuta a denti stretti dal marito Fred (John Slattery, che dopo Homefront e Mad Men si sta facendo tutte le decadi) e contornata da altre donne che ne condividono i principi, come Alice Maccray (Sara Paulson, American Horror Story) e Rosemary Thomson (Melanie Lynskey).

Le puntate si aprono con il disclaimer che si tratta di eventi realmente accaduti, ma con un margine di invenzione, se non altro rispetto alle conversazioni a porte chiuse. La creazione di Dahvi Waller è particolarmente interessate nel taglio proprio perché, pur dedicando ogni puntata a una icona del movimento per i diritti delle donne, per terminare poi con una visione corale, sceglie di guardare molto a chi si è battuto intensamente contro, mostrando intanto anche le ragioni, non sempre retrograde e ottuse, di queste persone: casalinghe con poca esperienza fuori dall’ambiente domestico si sentivano minacciate e in fondo giudicate come poco importanti da parte di donne agguerrite che cercavano un proprio ruolo fuori dalle mura domestiche, ridicolizzate per essere orgogliose del loro ruolo di casalinghe, quando altrettanto legittima doveva essere giudicata la loro aspirazione di realizzarsi come madri e mogli. Si mostrano attivamente le donne come ultimo baluardo del patriarcato: hanno paura di perdere l’amore e la protezione dell’uomo e si fa vedere come siano state sfruttate le loro paure, ritraendole con un misto di ingenuità e di finto perbenismo (condiscendenza? Non mi pare), ma illustrando come nella concretezza quello che facevano non era lavoro casalingo, ma in tutto e per tutto quello che facevano le femministe a loro opposte: il contenuto era in senso inverso, ma il tipo di impegno era lo stesso.

Bella Abzug lo dice chiaro e tondo a tre di loro (fa cui Alice e Rosemary). Parlando di Phylis Schlafly, la dichiara come una femminista a tutti gli effetti, anzi come forse la donna “più liberata” d’America. Vogliono stare a casa con i propri figli, non essere donne che lavorano, dichiarano. E lei le incalza con una serie di domande su quello che dicono di aver imparato da lei, conoscendo bene la risposta: vi ha insegnato come fare lobbismo sui legislatori? Vi ha insegnato come stendere un comunicato stampa? Come rispondere alle domande dei giornalisti, come procurarsi le interviste televisive? Come preparare e far quadrare un bilancio? Ovviamente sì. Per cui può solo commentare: “Congratulazioni, siete donne che lavorano” (1.07).

Il femminismo non è evidentemente una cosa unica, e l’autrice riesce a mostrare questo aspetto, e a far emergere questioni cruciali trasversali (aborto, lavoro), ma anche ben a mostrare esigenze variegate (le nere, le lesbiche), come si sia cercato il compromesso e come nella negoziazione certi interessi, tutti riconosciuti importanti e validi nella ricerca di giustizia e uguaglianza, alcuni siano stati sacrificati o abbiano rischiato di esserlo a favore di altri per paura di perdere tutto. Ci sono molti punti di vista, e la serie cerca di mantenerli. Era un movimento magari caotico, ma idealmente inclusivo, se non consapevolmente ancora intersezionale, e con molti obiettivi. Di contrasto gli oppositori ne avevo uno e uno solo: fermare le femministe.

C’è chi si è risentito di una visione forse troppo generosa nei confronti della Schlafly, che sarebbe stata dipinta come un’antieroina. In realtà l’autrice non le fa sconti. Non ci si fa scrupoli nel ritrarla come una persona che sì è una brillante organizzatrice, ma è una donna assetata di potere, manipolatrice e ipocrita – che non riconosce che, se riesce a portare avanti la battaglia che le sta a cuore è anche perché ha l’aiuto della cognata Eleanor: Jeanne Tripplehorn (Big Love) ha saputo molto espressivamente mostrare l’amarezza e la delusione di sentirsi disprezzata e ignorata pubblicamente, alla prova dei fatti, quando privatamente le si faceva credere il contrario. Si allude più volte all’uso strumentale da parte della Schlafly di estremismi e fanatismi (l’appoggio del Klu Klux Klan, ad esempio), delle fake news e della volontaria distorsione delle informazioni a proprio vantaggio. Il rancore, il risentimento e la rabbia schiumavano cristalline nella recitazione di una fulgida Cate Blanchett, e non sono passate nemmeno inosservate per Alice, che la Paulson ha reso un personaggio molto acuto, rendendo più che credibile il suo cambiamento di posizione, pur nel non rinnegare il proprio percorso. Insieme a quella della Martingale, queste sono state le interpretazioni più riuscite, in un cast in cui scegliere la migliore è veramente volersi fare del male.  

La Waller (si ascolti l’intervista per TV Top 5: qui) riconosce che il punto di vista privilegiato della Schlafly è stato scelto per riconoscerne l’appeal nella consapevolezza che ad ogni rivoluzione fa da contrappeso una controrivoluzione per cui è necessario capirla per sapersene difendere, per evitare di essere compiacenti. C’è sempre  il rischio di tornare indietro rispetto ai progressi fatti. 

Molta della riflessione si concentra proprio sulle dinamiche di potere, sulle strategie politiche e comunicative, sulle modalità per vincere - ad esempio si dice che le persone a cui si presta attenzione sono quelle che vincono, quindi può essere rilevante a chi viene riservata attenzione; si riflette sull’importanza della presenza fisica, sul potere dell’impatto emozionale… - , sulla retorica, sui concetti che fanno parte del DNA culturale di un’epoca e non necessariamente sono sempre esplicitati, ma sono comunque “nell’aria”. È un testo denso proprio perché si fa carico delle filosofie che lo animano.

La palette di colori usati richiama quelle dell’epoca, e alla mente affiorano programmi come Good Girls Revolt (che tratta tematiche affini) o Swingtown (che tratta tematiche differenti, ma è ambientato nella stessa epoca – nel caso si legga un mio saggio in proposito qui). La sigla, che meriterebbe un pezzo a sé, usa come musica “A Fifth of Beethoven” di Walter Murphy, un pezzo strumentale disco-funk che adattava il primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven, uscito in origine nel 1976. So per certo che questa stessa musica è stata usata in passato (forse proprio negli anni ’70) da un altro telefilm, ma nonostante mi sia scervellata non poco per cercare di ricordarlo o recuperare quale fosse ne sono uscita a mani vuote. Anzi, se qualcuno lo ricorda e me lo segnala mi fa un piacere.

Mrs America è stata concepita come una miniserie, ma non si esclude un approccio antologico, con nuove stagioni. Da parte mia sarebbero benvenute.

domenica 19 luglio 2020

UPLOAD: vita dopo la morte, amore, economia


Siamo nel 2033. Sul punto di morte i dati personali e la memoria di ciascuno può essere caricata (uploaded) su un computer in modo da poter continuare a vivere in forma virtuale attraverso un avatar. Questa è la premessa di Upload, un originale Amazon che riprende una tematica, quella della vita dopo la morte in forma alternativa e delle interazioni digitali, affrontata ormai da parecchie serie che vengono inevitabilmente richiamate: Black Mirror in primis, e specificatamente  il celebrato episodio “San Junipero” ma non solo, poi Altered Carbon, Äkta Människor, Westworld, e per certi aspetti anche The Good Place, Forever , Devs e Osmosis

Un giovane programmatore di computer, Nathan (Robbie Amell), muore prematuramente in circostanze sospette – una macchina che si guida da sola fa un incidente, evento molto poco probabile: che sia un omicidio? La ragazza di lui, la danarosa Ingrid (Allegra Edwards), con cui ha sempre avuto più un’intesa fisica che una vera comunione personale, ne fa digitalizzare la coscienza e lo carica nella costosa ed elegante Lake View, modellata sui grand hotel vittoriani statunitensi e canadesi, a sue spese e sotto il suo controllo. Nell’aldilà virtuale, tutti hanno come riferimento al servizio clienti un proprio “angelo” che si presenta ogni qual volta lo convocano. Per Nathan si tratta di Nora (Andy Allo, un’attrice che potrebbe facilmente aver fatto il casting per il ruolo di Lucca Quinn in The Good Fight, tanto ricorda Cush Jumbo). Fra i due non dovrebbe esserci un rapporto personale, ma nasce e anche qualcosa di più di un’amicizia. Fuori dal lavoro Nora si vede con una sorta di fidanzato occasionale e per il resto cerca di convincere il padre morente a non rinunciare alla possibilità di caricarsi in una di queste opzioni alternative alla morte, timorosa di perderlo, mentre lui non ne vuol sapere, perché crede che morendo si riunirà alla moglie defunta che amava.

La serie costruisce un giallo sulla dipartita del protagonista proprio al minimo sindacale, ed è evidente che lascia eventuali soluzioni per la confermata seconda stagione. L’aspetto meglio riuscito, per quanto non chissà che innovativo o trascinante, è quello romantico fra Nora e Nathan. In un’epoca in cui la possibilità delle relazioni istantanee è spesso la regola, creare ostacoli e conflitti che facciano tenere che una coppia stia insieme è sempre più complicato, ma è l’abbiccì per far appassionare il pubblico. Qui il fatto che lei sia in una situazione lavorativa in cui non può fraternizzare con i clienti è vissuta come un problema, ma in fondo di poco conto, ma ragionevolmente il fatto che lui sia morto e lei no crea un ostacolo non da poco. E che non sia l’amore delle storia che si tramanda nei secoli ci sta anche: sono dolci, stanno bene insieme e si conoscono un po’ alla volta. Hanno una bella intesa. Funziona.

L’interesse principale nella riflessione del programma ideato da Greg Daniels (The Office, Parks and Recreation) però sembra essere economico. Solo chi è danaroso a sufficienza può permettersi una vita dopo la morte magnifica e se non si paga extra non si possono avere tante scelte opzionali, ed evitare pop-up e pubblicità. Chi può permettersi solo pochi giga al mese, rimane bloccato, in un limbo, nel tempo che gli rimane, se li ha terminati: il mondo di chi ha “tre generazioni di giga illimitati” e ha viste mozzafiato non è il mondo di finestre che danno sul grigio dei “due giga al mese”. Mutatis mutandis, Altered Carbon è stato più brutale e incisivo nel mostrare questi problemi, ma questa rappresentazione è decisamente più vicina alla nostra esperienza della realtà fatta quotidianamente con cellulari, web e app varie. La possibilità di vita qui è veramente proporzionale a quando gonfio è il portafogli. E se a pagare è qualcun altro, sei alla sua mercé. In questo caso si tratta di una fidanzata che magari non ti piace poi come crede e a cui non interessi più di tanto, ma se ti metti a contrariarla, non ci mette niente a cancellarti definitivamente. C’è chi vuole che la vita digitale dopo la morte fisica sia un’opzione per tutti – è un diritto umano, protestano con i cartelli alcuni dimostranti. Ci parla del nostro presente, della nostra realtà e di come le disuguaglianze economiche creano una vita diversa da quella che potenzialmente ciascuno potrebbe avere.

Si mettono in campo tante questioni legate al tema: finitezza e significato della vita, vita dopo la morte, coscienza, amore, rapporti a distanza…tutto trattato in modo lieve e con un pizzico di umorismo: è epidermico, aspetto che ne costituisce al contempo la forza e la debolezza.

sabato 11 luglio 2020

THE RIGHTEOUS GEMSTONES: satira tamarra

Pur capendone lo spirito satirico, apprezzandone la recitazione del notevole cast, e godendo degli inaspettati colpi di scena, non mi sono appassionata all’apprezzato The Righteous Gemstones (HBO), il cui tono iperbolicamente parodistico mi ha infastidita più che farmi ridere.

I Gemstones sono una famiglia di televangelisti. Dopo la scomparsa dell’amatissima e riverita moglie Aimee-Leigh (Jennifer Nettles), con cui ha costruito un impero religioso, il patriarca Eli (John Goodman, Roseanne) manda avanti la sua chiesa con migliaia di fedeli con l’aiuto dei suoi tre figli: Jesse, (Danny McBride), sposato con Amber (Cassidy Freeman), e con un rapporto conflittuale con il figlio maggiore Skyler (Skyler Gisondo), qui motore di molte delle vicende; Judy (Edi Patterson), che si sente sempre poco validata, sposata con un uomo mite perennemente fuori posto, BJ (Tim Baltz); e Kelvin (Adam DeVine, Modern Family), che si occupa dei più giovani e ha preso sotto la sua ala protettrice Keefe (Tony Cavalero), ex-seguace del demonio. I tre fratelli non fanno che litigare come bambinetti. A provare risentimento nei loro confronti è il fratello delle defunta, “Baby” Billy Freeman (Walton Goggins, The Unicorn), per il fatto che era lui con la sorella che aveva lanciato un brand che si è sentito sottrarre da Eli, grazie a lei diventato ricchissimo.

La scena iniziale dell’ultima puntata (1.09) incarna bene quello che la serie è nella sua essenza. Aimee-Leigh è appena spirata e tutti i familiari sono riuniti intorno al suo letto. Si prendono per mano per dedicarle un’ultima preghiera di saluto. Un’ape comincia a ronzare sulla defunta e poi fra loro, e nel tentativo sempre più maldestro e aggressivo di scacciarla, finiscono per vandalizzare la stanza dell’ospedale, davanti allo sguardo scioccato del personale. È eccessiva. In questo sovrabbondare di reazione c’è l’ilarità e in questo specifico esempio riesce. La vicenda viene ripresa più in là nella puntata: Baby Billy viene colpito da un fulmine e rischia di morire. Di nuovo, un’ape si poggia sulla sua fronte e qualcuno sta per schiacciarlo, ma Eli lo ferma. È un momento spirituale di riconciliazione. Perché le vicende sono infuse anche di momenti umanamente toccanti. Sono evidenti e sentiti, ma in qualche modo le due parti non si incollano bene fra loro, e l’effetto è di stonatura, per me.

Nel titolo questi predicatori vengono definiti “righteous”, ovvero virtuosi, retti, giusti, un termine classico sulla bocca delle congregazioni religiose. Quella parola di fronte ai fatti diventa presto grottesca. La facciata si sgretola immediatamente. Sono arraffoni, avidi, vendicativi, lussuriosi, pieni di sé, fedigrafi, corrotti, venali…perfino assassini. Si credono superiori, in uno zelo spocchioso, e il loro narcisistico ego è spassoso quando messo dinanzi alla reazione degli altri personaggi. Sono peccatori, e che peccatori. Si sono creati una vita opulenta predicando ciò che non praticano, ma in cui in fondo in fondo forse credono anche, e questo li redime – forse un po’ troppo. Jesse tradisce la moglie fra prostitute e sniffate di coca, cosa che lo porta a venire ricattato e a cercare di nascondere tutto. Quando pentito cerca di fare ammenda con Amber si ride anche che lei lo impallini sulle chiappe (scena che non può non avermi fatto tornare alla memoria Minx che nel 1986 in Santa Barbara ha fatto lo stesso, per altri motivi, con CC Capwell). Nel rapporto personale la redenzione ci sta anche, ma per tutto quello che ne è conseguito, non si vede vera consapevolezza, da parte del programma. Tutto scivola via. Forse non conosco a sufficienza di prima mano questo tipo di realtà io, per percepirne i graffi inferti dalla serie, che qui e lì riveste le vicende di parallelismi biblici – nella funzione pasquale, Skyler come Giuda sarebbe stato evidente anche se non lo avessero in qualche modo esplicitato.  

Gli accostamenti di questa creazione di Danny McBride (Eastbound & Down, e qui interprete di Jesse) a The Sopranos e Succession hanno senso, perché sembra esserne una versione tamarra, gridata e ridicola. Si mostra quanto siano patetici, ma si fatica ad andare oltre.   

venerdì 3 luglio 2020

CHERISH THE DAY: ogni puntata un giorno di una coppia

Ha avuto il sapore di un romanzo, per me, la prima stagione della nuova creazione di Ava DuVernay (Queen Sugar, When They See Us), Cherish the Day, che racconta la vita di una coppia guardando in ciascuna puntata a un solo giorno nel corso della loro relazione – nel primo arco di otto episodi si sono coperti 5 anni. Ogni stagione intende avere personaggi diversi, e in questo senso è definita una serie antologica. Il titolo è tratto da un’omonima canzone di Sade che funge da sigla.

Nella prima tranche si è trattato di Gently James (Xosha Rochemore) ed Evan Fisher (Alano Miller). Lei è una giovane donna indipendente che ama viaggiare; si prende cura di una anziana leggenda del cinema, Miss Luma (Cicely Tyson), condannata in carriera a ruoli secondari e all’oblio in quanto nera; vive con il genitore affidatario che l’ha cresciuta, Ben (Michael Beach), ex membro di una gang e ora fattorino. Lui è un laureato di Stanford (scherzosamente lo chiamano proprio “Stanford”, come lui chiama lei “Carson” per il quartiere da cui proviene) che viene da una famiglia danarosa e che ambisce a fare successo creando una propria app.

La storia si snoda attraverso dei momenti topici – l’incontro avvenuto in biblioteca (1.01), la prima volta che fanno l’amore (1.02), la conoscenza con i genitori di lui in occasione del loro quarantesimo anniversario (1.03); la proposta di matrimonio (1.04); i preparativi per le nozze (1.05); la crisi (1.06); la terapia di coppia (1.07); il re-incontro a distanza di tempo da quando di sono separati (1.08). Quello che può essere accaduto fra un momento e l’altro sta a noi capirlo e ricostruirlo.

C’è molto realismo nel trattare il rapporto di coppia e, mettendo la  lente di ingrandimento sugli snodi e sui momenti nevralgici, si riesce a mostrare che cosa fa sì che ci siano delle svolte in una direzione o in un’altra, oltre a soppesare in che modo si costruisce ed evolve un rapporto. Viene definita una serie “romantica”, ma il motivo per cui io sono restia a definirla tale è perché a quel termine do un’accezione un po’ di edulcorazione dell’amore, cosa che qui non c’è affatto. Si guarda al rapporto, che capita sia prevalentemente di natura sentimentale-romantico-sessuale, ma è di vita in senso ampio.

Qui i due protagonisti vengono da ambienti molto diversi e parte della riflessione si poggia proprio sulla capacità di incontrarsi e di superare queste diversità, lì dove sono un ostacolo, o di farle essere motivo di arricchimento reciproco. La madre si lui, Marilyn (Anne-Marie Johnson)  non approva il rapporto (1.03). Le basta sentire che Gently non è stata al college o accorgersi che ha un tatuaggio per non vederla come una compagna adatta al figlio. Qui, nello specifico nella puntata scritta da Chloé Hung, lo spettatore lo capisce anche prima dell’interessata, grazie a un sapiente uso del non detto e da come il detto viene espresso. La differenza, e come possa costituire una difficoltà, c’è in ogni dettaglio della preparazione delle nozze. Nella puntata scritta da Sylvia L. Jones (1.05) si rende tangibile attraverso gli oggetti fisici di vita. La scelta fra possibili tipi di torta rappresenta le diversità culturali, familiari e di educazione fra i due come meglio non poteva avvenire. Il padre di lei glielo fa notare: ci sono dolci ugualmente buoni, ma sono fatti con ingredienti diversi e non tutti sono per lo stesso palato, alla fine è una questione di scelte.

Si indaga che cosa sia importante nella vita di una coppia, a che cosa dar  valore, che peso abbiano le aspirazioni di ciascuno e in che modo trovare un equilibrio. E, quasi sempre, si esaminano queste questioni nell'incontro e scontro delle due metà della coppia, messa l’una davanti all’altra con molta onestà.

Francamente non mi hanno convinto più di tanto come duo. Gli attori sono stati molto convincenti, e hanno una buona intesa “chimica” fra loro –  vedendoli ci si rende conto anche di quanto siano troppo rare belle scene d’amore per le coppie nere. In definitiva, pur capendone razionalmente le basi però, non vedevo questo grande amore, o perché l’uno dovrebbe essere così interessato all’altra. Il comportamento di lei in particolare mi irritava, di fronte a quello più accomodante di lui. Ma questa è una sensibilità personale. Non dubito che per molti possa essere l’opposto. In fondo comunque il fatto che non fosse il grande amore travolgente per cui uno fa il tifo, ma uno dei tanti amori in cui si inframmezzano le banali quotidianità e diversità di carattere penso sia il senso della serie, e in questa prospettiva non l’ho considerato un difetto.  

giovedì 25 giugno 2020

SPINNING OUT: pattinaggio su ghiaccio e disturbo bipolare



In Spinning Out (su Netflix) siamo in una innevata Idaho, negli USA. Kat Baker (Kaya Scodelario), che ha problemi di disturbo bipolare e pratica atti di autolesionismo come mordersi, è una pattinatrice di figura che ha paura di fare i salti dopo che tempo prima un errore l’ha lasciata distesa sul ghiaccio in una pozza di sangue per una ferita alla testa. Vorrebbe abbandonare tutto, ma ha molto talento e l’allenatrice Dasha (Svetlana Efremova) le propone di cominciare a pattinare in coppia con il talentuoso e danaroso Justin (Evan Roderick), che spera in una nuova compagna e che vuole riscattarsi agli occhi del padre James (David James Elliott, JAG). Anche la sorella Serena (Willow Shields) pattina e, sebbene non abbia quel quid che tutti vedono in Kat, è molto brava, ma viene spinta all’eccesso dalla madre Carol (January Jones, Mad Men), tanto da farla anche finire al pronto soccorso. Quest’ultima, che pure soffre di disturbo bipolare e spesso e volentieri non prende i farmaci, ha dovuto rinunciare ai suoi sogni olimpici quando è rimasta incinta e da un lato prova risentimento, dall’altro agogna a realizzare i propri sogni in modo vicario proprio attraverso le figlie.

Il titolo Spinning out di questa serie, ideata da Samantha Stratton, gioca un po’ sul doppio senso di roteare sul ghiaccio e di “sbandare” emotivamente: erede probabilmente delle atmosfere familiari difficili di I, Tonya non va infatti sulla favola rassicurante di principesse sul ghiaccio. Il tono è spesso piuttosto pensante. Il fulcro della storia è proprio legato alla bipolarità di due dei personaggi principali: quando la madre torna a prendere i farmaci e la vediamo “normalizzarsi” nelle reazioni comportamentali, tocca alla figlia smettere di prenderli nell’errata convinzione che la aiutino a migliorare la performance atletica, salvo poi crollare. Per quello che posso saperne dell’argomento, mi pare ben trattato, anche nel mostrare lo stigma che vi associa e che fa sì che i personaggi non si sentano di parlarne apertamente.

Un altro tema caro all'autrice e ben calibrato è la pressione delle aspettative dei genitori sui figli, e questo non solo attraverso le insistenti spinte su Kat e Serena, ma anche attraverso gli occhi  di Jenn Yu (Amanda Zhou) che per non deludere i genitori continua ad allenarsi nonostante problemi all’anca, contro le indicazioni dell’ortopedico e nonostante rischi di perdere così anche la capacità di camminare. È un tema che emerge sempre più spesso ultimamente (penso ad una storia di Sex Education sul nuoto) dove appunto si sottolineano non tanto gli enormi sacrifici personali a cui gli sportivi si sottopongono nel perseguimento di un proprio obiettivo, come ci hanno tanto abituati gli anime giapponesi degli anni ’70 e ’80, ma il pungolo delle persone care che hanno investito economicamente e emotivamente nel successo della propria prole e il fardello che questo, senza che spesso se ne avvedano, costituisce per i figli.

Molti anni fa ho letto la biografia della pattinatrice Ekaterina Gordeeva, My Sergei (qui su Amazon). Una delle cose che ricordo mi aveva colpito era stato sentirle dire come era pratica comune nel pattinaggio di coppia che i maschi facessero cadere di proposito le femmine nei sollevamenti. Qui non si vede mai nulla di tutto questo. Justin e Kat, che hanno una storia sentimentale a intermittenza, sono sempre professionali sul ghiaccio. Una problematica a cui si è invece alluso molto, cosa che mi fa pensare che accada più di quanto io non ne fossi consapevole in modo esplicito e che probabilmente emerso di più in tempi recenti, è il possibile abuso (o quanto meno molestia) da parte degli allenatori nei confronti delle ragazze (o ragazzi) che si prendono a carico. Qui gli allenatori hanno comunque ruoli semi-genitoriali, come si dice accada spesso in quel mondo: sia nel caso di Dasha nei confronti di Justin, che ha perso la madre, sia nel caso dell’allenatore di Serena, Mitch (Will Kemp). Quest'ultima, che nel vortice dei drammoni familiari rimane abbandonata un po’ a se stessa, finisce comunque vittima di un predatore, ma non il suo coach.  

Anche altre storie minori - Dasha che ha  perso i contatti con l’amore lesbico di tanti anni prima; la matrigna di Justin, Mandy (Sarah Wright Olsen) che tiene segreta al marito una precedente gravidanza; Marcus (Mitchell Edwards), l’amico di Kat impiegato nel ristorante dove lei lavora come cameriera – non aiutano ad alleggerire la tensione e sanno troppo da riempitivo. E nel caso di Marcus, che rinuncia a una borsa di studio in medicina per entrare nella squadra di sci, si ha troppo la sensazione che sia un segnaposto per avere un nero nel cast, quando si poteva riflettere proprio sul fatto che è un mondo molto bianco, da cui storicamente effettivamente  i neri sono stati tagliati fuori. Anche solo mostrarlo una volta con degli sci, invece che sempre e solo al bar a servire cocktail, avrebbe potuto renderlo più credibile.

Non ci sarà una seconda stagione. Va bene così. Intrattiene, ma si può passar oltre.

sabato 20 giugno 2020

THE BAKER AND THE BEAUTY: cancellata



È stata cancellata dopo i soli nove episodi della prima stagione The Baker and the Beauty (ne ho parlato qui). E sta cercando casa altrove. Solitamente, non degnerei di un secondo post una serie che in fondo è solo una favoletta da piacere colpevole. Il motivo per cui lo scrivo è perché l’impressione in chiusura è molto diversa da quella che ho avuto dopo il pilot.

La forza della serie non sta minimamente nella coppia centrale per la quale dovremmo tenere, ovvero quella di Noa-non-sai-quanto-è-duro-essere-ricchi-e-famosi-Hamilton (Nathalie Kelley) con l'Anthony-Bourdain-wannabe, il pasticcere Daniel (Viktor Rasuk), due bambolotti piatti che sulla carta dovrebbero funzionare, ma sullo schermo sono troppo costruiti.

Chi funziona sono gli altri, i comprimari. Il fratello Mateo (David Del Rio), con una vera passione per la musica, fa faville con la ex di Daniel, Vanessa "Princesa" (Michelle Veintimilla), Vanessa la Principessa, come la chiamano. Entrambi sono stati veramente molto bravi a recitare la non riconosciuta ma crescente attrazione reciproca, esplicitata nelle puntate finali. E lei, che tanto una cattiva impressione faceva nel pilot, si è rivelata uno dei personaggi migliori, tosta e sincera, una brava persona in una difficile circostanza, multidimensionale. Per loro si fa il tifo che stiano insieme.

I genitori (Lisa Vidal e Carlos Gómes) hanno il sapore di modelli a cui aspirare che ricordano le vecchie serie: si amano a dispetto dei possibili litigi e sono presenti e di sostegno per i figli. Hanno costruito una famiglia nel senso più bello del termine: persone che si amano e cercano di esserci le une per le altre. Posso anche dirlo, per quanto sdolcinato suoni: sembra la mia sotto quel profilo.

E la sorella Natalie (Belissa Escobedo), che si è scoperta lesbica, deve navigare questa nuova realtà. Per qualche ragione, mi pare che nella cultura ispanica si tratti più l’omosessualità da un versante femminile che non maschile, ma forse è una mia errata percezione. Però l’ho notato, e mi chiedo se ci sia un fattore culturale dietro. In ogni caso, si mostra la crescita di una giovane adolescente, il fatto che chi ama e da chi è attratta sia una donna è solo una parte della storia.

Non mi dispiacerebbe che la serie venisse recuperata da qualcun altro, perché è gradevole a sufficienza, però appunto, concentrerei l’attenzione altrove.

domenica 14 giugno 2020

WORK IN PROGRESS: 180 mandorle di vita

Work in progress è trasmessa dall'americana Showtime. Siamo a Chicago. Abby (Abby McEnany) è una 45enne “queer, mascolina e grassa “ – così si auto-identifica – che a questo punto della sua vita è talmente infelice da essere suicidaria. Una collega sul posto di lavoro le sbandiera delle mandorle, suggerendogliele come modo per dimagrire, sapendo che lei, senza successo, sta cercando di perdere peso. Quasi per ripicca se le compra con l’idea che rappresentino i giorni della sua vita. Ha deciso di concedersene 180, una al dì, e se per quando saranno terminate non sarà cambiato qualcosa, la farà finita. Il titolo delle puntate corrisponde al numero o ai numeri delle mandorle a cui è arrivata. 

Un giorno Abby esce a pranzo con la sorella maggiore Alison (Karin Anglin) e rimane molto colpita dal un ragazzo trans, 23 anni più giovane di lei, Chris (Theo Germaine), uno  spirito libero molto sicuro di sé. Anche lui è intrigato da lei, e cominciano una relazione. Abby ha come figura di riferimento e di supporto l’amica di lunga data Campbell (Celeste Pechous). Nel cast c’è anche Julia Sweeney che interpreta se stessa. Abby più volte nella vita è stata paragonata a un suo personaggio androgino del Saturday Night Live, Pat, fonte di molto dolore per lei, e non ce l’ha in simpatia, finché non la conosce di persona.

Fulcro portante delle serie è l’accettazione di sé: Abby non si piace, soffre di ansia, attacchi di panico e di disturbo ossessivo compulsivo, sembra non riuscire mai a trovare un luogo dove è accettata completamente per quello che è e si aspetta sempre che, nel rivelarsi autenticamente, sia destinata ad allontanare le persone.

Ha un aspetto decisamente butch, e il fatto di essere gender nonconforming, quindi di non conformarsi allo stereotipo del genere sensuale di appartenenza, la mette costantemente in situazioni emotivamente devastanti. Non è mai tanto chiaro come quando non riesce a trovare un bagno pubblico (1.04) in cui possa andare a fare i propri bisogni senza vedere che le donne la scambiano per un uomo e chiamano la sicurezza. Accade perfino nei locali per lesbiche. Semplicemente il mondo non è fatto per lei, e questa estraneità è un affronto continuo alla sua identità. E il suo essere altro è talvolta anche percepito come una minaccia. 
  
Tiene costantemente un diario – ne ha uno sgabuzzino pieno – in cui scrive di quello che le capita nella vita. Mostrarlo agli altri, confessarsi, è un passo enorme, che in passato le è costato caro. La serie, con periodici flashback, ci riporta a quando lei era più giovane per mostrarci la reiterazione di certe esperienze nella sua vita, per farci capire perché ora è quella che è. Sono proprio le paure che poi la minano ulteriormente: il terrore di rivelare a Chris un incidente involontario che teme lo allontani è quello che alla fine lo allontana (1.07). Profezie che si autoavverano.

Le sue ferite aperte sono quello che la serie ci mostra. Mi arrabbio ogni volta che la vedo sullo schermo gettare le mandorle nella spazzatura – considero immorale buttare via cibo perfettamente edibile per nessuna valida ragione.  Soprassedendo su questo aspetto, è narrativamente potente, anche perché minimo e strisciate, vedere che, rapidamente, getta via quei semi, che sono giorni, momenti di vita che se ne vanno, anche quando la presenza nella sua vita di Chris dovrebbe averla resa più gioiosa – e lo ha fatto. Sono il ricordo costante, anche quando sembra normale, che nella testa ha il costante pensiero di farla finita.

Una relazione nuova per Abby, che in passato non ha mai frequentato uomini trans, è una scoperta. C’è qualcosa di dolce e puro nel loro rapporto. L’ho guardato anche con un certo stupore, per il coraggio di una coppia che apparentemente non ha molto in comune, e che ha numerosi ostacoli, anche legati all’età. Eppure funziona. Eppure è un avvicinamento naturale, di scoperta e di apprezzamento reciproco.

Grazie anche al personaggio della Sweeney, si riflette molto sulle implicazioni della rappresentazione, sul diritto a parlare in prima persona della propria storia e su come possa essere una questione di equità sociale. Non ci sono molti personaggi come Abby sul piccolo schermo, e nel guardarla mi accorgo di quanto ce ne sia bisogno. Anche solo vederla. Mette a fuoco il mondo in modo più vero, più umano, più onesto. In chiusura (1.10) c’è uno scontro proprio rispetto a questo tema. Julia ha invitato Abby a uno spettacolo teatrale in cui di nuovo veste in panni di Pat (un personaggio che sul serio la Sweeney ha interpretato), ed è entusiasta di mostrarle che non lo fa con derisione, ma auto-consapevole di sé e dei propri punti deboli. Abby lo considera illusorio e rovinoso, e le rinfaccia di non aver capito nulla e di non averla interpellata. Se è inevitabile che chiunque abbia una propria prospettiva sulla vita degli altri, non bisogna prescindere dalla prospettiva primaria di chi quella vita la vive in prima persona: è una voce necessaria, da ascoltare.

Ideata dalla McEnany, da Tim Mason e scritta da entrambi e da  Lilly Wachowski, si tratta di una serie comica, e ci sono momenti in cui si ride di gusto, a partire dai primi minuti, in cui vediamo la protagonista dalla propria psicoterapeuta, fino alla finale (1.10) quando la protagonista prende in considerazione vari modi per farla finita. Un personaggio minore, King (Armand Fields), le ricorda che “everybody is fucked up – tutti sono un casino” (1.07) Si dice che l’umorismo migliore venga dai momenti di dolore, e qui viene proprio da lì. Anche per questo ha un sapore feroce, a volte; nella crudezza dei punti dolenti forse la risata è il solo balsamo, la sola occasione catartica.

La stagione termina con Abby emotivamente al peggio possibile su più fronti – perfino in modo esageratamente forzato in quella direzione, mi è parso – ma per chiudersi in modo sensato e commovente. ATTENZIONE SPOILER. Non ha più mandorle. Chris la lascia, ma non per il litigio avuto, ma perché non si sente di affrontare la responsabilità di essere la sola ragione che la tiene in vita. E le consegna in una busta quello che a sua insaputa le aveva rubato il primo giorno in cui si erano incontrati: una mandorla. Inaspettato (almeno per me) e magnifico.

È stata confermata una seconda stagione di 10 episodi.  

sabato 6 giugno 2020

UNORTHODOX: l'ultraortodossia ebraica in una potente miniserie


Delicata e potente, Unorthodox (Netflix) ha più il sapore di un film esteso che di una miniserie, ma in fondo poco importa, rimane sicuramente un successo estetico-narrativo indipendentemente da come la definiamo.

Tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman, Unorthodox: the Scandalous rejection of my hasidic roots (Ex-ortodossa: il rifiiuto scandaloso delle mie origini chassidiche, Abendstern Editore, 2019), racconta le vicende di Esther Shapiro (Shira Haas), detta Esty, una diciannovenne cresciuta nella comunità ebraica ultraotodossa chassidica Satmar di Wiliamsburg, a Brooklyn, New York, che, infelice nel matrimonio combinato con Yanky (Amit Rahav), completamente soggiogato alla propria genitrice, decide di scappare e lasciarsi tutto alle spalle per andare a Berlino, dove abita la madre (Alex Reid) che, lesbica, aveva respinto l’ambiente in cui era cresciuta e a sua volta era stata respinta dai familiari anni prima, che la definivano “pervertita”. Esty fa presto amicizia con un gruppo di ragazzi concertisti e, con una grande passione per la musica lei stessa, che la commuove fino alle lacrime, decide di fare domanda per una borsa di studio. Il marito la raggiunge per riprendersela, con l’aiuto del cugino Moishe (Jeff Wilbusch), mentre a casa rimangono la nonna (Dina Doron) e la zia (Ronit Asheri), che l’hanno cresciuta.

Scritta da Anna Winger (Deutschland 83) e Alexa Karolinski, con buona parte dei dialoghi in yiddish, e diretta da Maria Schrader, suppongo che si possa dire che è una storia costruita con una serie di flashback, ma in realtà io non l’ho vissuta così. Ci sono due narrazioni parallele, una del tempo presente, una relativa alle vicende passate, che si intersecano, attorcigliandosi l’una sull’altra. Quello che è accaduto, non è un tornare con la memoria a cose del passato, è materia concreta del presente. È quello che fonda e dà ragione dell’oggi così come viene vissuto, in modo molto pregnante, non distaccato.

Si denuncia una società che impone vincoli non necessari e mantiene nell’ignoranza, mostrandolo attraverso il dolore e l’ingenuità di chi ne è vittima. E non potrebbe esserci di fatto modo più efficace. Questo perché si rispetta la fede e la credenza di chi quel tipo di vita l’ha scelto, però non si chiudono gli occhi dinanzi agli effetti che ha. C’è molta dignità nel mostrare una giovane donna nei suoi momenti più vulnerabili e umilianti anche. Qui si parla di una comunità ebraica, ma in alcuni passaggi, ad esempio quando Esty si reca a una festa in un club, non ho potuto non pensare la comunità Amish, che manda i propri giovani a sperimentare la vita esterna volontariamente, prima di rinunciarvi per rimanere nella comunità. Qui questo tipo di opzione non è contemplata.

Fa tenerezza vedere come ci può essere inconsapevolezza in cose che noi diamo per scontate, come non fosse necessario fare un percorso di apprendimento, quando invece c’è. Quando la protagonista mangia un panino e si rende conto che c’è dentro del prosciutto, corre fuori dal locale pronta a vomitare, perché le hanno sempre detto che l’avrebbe fatta stare male. Ovviamente non succede. Lei però è talmente culturalmente condizionata, e così ignorante del mondo esterno, che non sa che è un’imposizione esterna. Ed è sbalorditivo osservarlo per chi quelle cose le dà per naturali. Io non ho letto il libro da cui questa miniserie è tratta, però, in un parallelismo, questa scena mi ha fatto pensare al libro Educated di Tara Westover, dove pure in virtù di principi religiosi si vive una vita al margine, schermata dalla realtà ordinaria delle persone circostanti. Si vede l’abuso che perpetra il mantenere le persone volontariamente all’oscuro. Si riflette molto piuttosto sull’utilità, sulla necessità di essere diversi, cosa che questa giovane donna vede di se stessa, su come la possibilità di esserlo sia uno dei fondamenti dell’essere liberi: due termini (diversa, libera) che ricorrono sulla bocca della giovane ebrea. 

Si mostra efficacemente che l’oppressione delle donne, che qui è messa in scena, è un danno per tutti, non solo per le donne stesse, qui limitate al loro ruolo di mogli e madri con il compito di “ridare la vita a sei milioni di vittime”, perseguitate dalla memoria dell’Olocausto, evocato anche dall’ambientazione berliniana. Però, pur essendo evidentemente Esty l’eroina della storia, la protagonista centrale, c’è molto tatto nel trattare anche i comprimari. In particolare il marito, viene visto lui stesso come una brava persona che cerca di essere al suo meglio, e di trattare con amore la donna della sua vita, per quello che gli è stato insegnato. Spezza il cuore almeno quanto l’infelice situazione della protagonista.

È una storia molto femminile, comunque. Non ricordo di aver mai visto, cosa strana a pensarci bene, una storia di vaginismo in televisione (forse in Masters of Sex?), o quantomeno una storia così approfondita su questo tema. Forse sarà capitato in modo tangenziale, ma non in modo così significativo come avviene qui nella terza puntata. E l’ho trovato affascinante, perché sicuramente, soprattutto lì dove non c’è la possibilità di affrontarlo apertamente, è stato un problema coperto dal silenzio per molte donne nella storia. 

Un articolo sulla rivista ebraica Forward (qui), scritto da Frieda Vizel, che critica in modo molto negativo ma interessante la rappresentazione, definisce uno stupro la prima volta che Yanky penetra Etsy. Non condivido questa lettura. Non credo che né legalmente né moralmente possa definirsi tale, nel senso che c’è a tutti gli effetti consenso. Anzi, lei insiste proprio che lui lo faccia di fronte allo scrupolo di lui. È evidente che per lei è una esperienza atroce e dolorosa, una violenza che lei prima di ogni cosa impone a se stessa. Se proprio stupro vogliamo definirlo è uno stupro culturale, che impone questo tipo di comportamento. E il fatto che Yanky se lo sia solo goduto, apparentemente disinteressato all’esperienza della moglie che gli era prima sotto e poi a fianco, lo rende nel contesto della scena solo umano. Anche la presunta eccessiva facilità, rimproverata dalla Vizel, con cui la protagonista avrebbe superato tutto, quando in seguito fa sesso, trovo non sia stato inverosimile,  perché il senso è proprio quello: il rapporto fisico è una cosa bella e naturale se lo vuoi e lo desideri, non se ti viene importo per regola come qualcosa a cui devi sottometterti a comando.

Sono poi illuminanti, come chiave di lettura della serie, le parole dell’autrice del libro, in un’interista al New York Times, che richiamano una tematica affrontata anche da The Handmaid’s Tale, ovvero sul ruolo delle donne nell’oppressione delle altre donne. Dice (nella mia traduzione):


Ricordo di essere rimasta sorpresa quando sono andata al Sarah Lawrence [college], e ho seguito un corso di filosofia femminista in cui tutti mi dicevano: "Hai lasciato il patriarcato! Ho pensato: "Beh, se ho lasciato il patriarcato, dove erano tutti gli uomini in questo patriarcato? Perché erano sempre piegati sui libri mentre le persone che mi opprimevano erano donne? Perché le persone che mi facevano più male erano mia zia, mia suocera, le insegnanti, l'assistente di mikvah, l'insegnante di Kallah e la terapista sessuale? Perché sono sempre state le donne che mi hanno ferita e tradita? Avevo così poca interazione con gli uomini, e quel poco che ne avevo me li aveva fatti vedere come molto passivi e bloccati.

Credo che questo traspaia dalla narrazione, anche se probabilmente non è oggetto di specifica riflessione.

In un certo senso il finale rimane irrisolto, capiamo il tipo di scelta che fa la protagonista, ma non abbiamo una risoluzione esplicitamente dichiarata rispetto tutto quello che le accadrà. E questo l’ho trovato molto vero, molto bello, molto europeo. La produzione è tedesca.

venerdì 29 maggio 2020

L'AMICA GENIALE - seconda stagione: intelligenza e cultura



È egregia su tutta la linea la trasposizione della quadrilogia de “L’Amica Geniale” di Elena Ferrante da parte di Saverio Costanzo per HBO, Rai Fiction e TIMvision. L’ho letta interamente e mi è piaciuta molto, e mi sta convincendo altrettanto nella sua incarnazione televisiva.

Non ho scritto sulla prima stagione, lo faccio sulla seconda, “Storia del nuovo cognome” (su Raiplay la si trova qui), ma non per parlarne in senso ampio. Preferisco concentrarmi su un aspetto specifico che era presente anche prima, ma che, con le protagoniste ora più grandi, si è focalizzato ora in modo più specifico. Si tratta di uno degli aspetti che ho apprezzato di più anche sulla pagina scritta e qui vedo trascritto altrettanto efficacemente. Non si cade in quello che è un errore fin troppo comune (Modern Family docet) di confondere e far equivalere intelligenza e cultura.

Chi ha letto i romanzi e visto la serie sa bene che la storia si concentra sulle vite e l’amicizia dall’infanzia alla vecchiaia di due donne, Raffaella/Lila ed Elena/Lenù – in questa tranche interpretate rispettivamente da Gaia Girace e  Margherita Mazzucco. Il titolo “L’amica geniale” non è chiaro a chi delle due faccia riferimento: alla brillante e talentuosa Lila, a cui non è permesso di continuare a studiare e rimane culturalmente rozza, o alla diligente e preparata Lenù, meno appariscente ma sgobbona, che finisce per ricevere una borsa di studio per frequentare la Normale di Pisa e prosegue con successo gli studi? L’ambiguità è ovviamente voluta e probabilmente il titolo fa riferimento a entrambe.

Le due si ammirano a vicenda e si spingono e proteggono a vicenda nella propria formazione, e si invidiano anche: Lenù vede in Lila quell’acume naturale che lei ritiene di non avere, Lila vede in Elena qualcuno che ha saputo affinare il proprio intelletto attraverso lo studio, qualcosa che lei agognava a fare e in cui è stata ostacolata. Cerca di rimediare come può leggendo il più possibile, ma non è sufficiente. La narrazione non cade nell’illusione o nel pregiudizio che essere dotati ed essere colti siano la stessa cosa, ma riflette in modo forte su come la cultura, e il confronto fra menti che studiano, sia importante nel raggiungere la pienezza intellettuale. Se non viene stimolata, se non viene coltivata, l’intelligenza viene sprecata.

“Eri destinata a grandi cose” dice a Lila con rammarico la maestra Oliviero (2.07), che dalle elementari ha cercato di stimolare e proteggere il futuro delle due sue migliori allieve; “Si è proprio persa, Lila. Che peccato” commenta Nino Sarratore (Francesco Serpico), dopo che lei se ne va infastidita per una conversazione dalla quale ritiene di non aver appreso niente da loro che studiano. Lila si sente inadeguata di fronte  a quelli che sono più istruiti di lei, vede che a certi concetti non arriva più nonostante i suoi sforzi di stare al passo. E Lenù pure si sente inadeguata di fronte a Lila perché riconosce una capacità di penetrare gli argomenti che nonostante la sua cultura non è altrettanto incisiva. Lei aveva ottenuto quasi quello che voleva, ma “Lila come sempre era senza quasi” (2.07) e lei si sente rimpicciolita dalle parole dell’amica. C’è rivalità fra le due, ma una rivalità che è ammirazione reciproca e reciproco desiderio di successo per l’altra che però non è piatto e amorfo, è tinto anche dall’amor proprio e dalle insicurezze personali. Viene reso in modo sopraffino.

Gli autori (uso il plurale per intendere tanto la Ferrante come fonte primaria, quando Costanzo come fonte televisiva) pongono un grande valore alla cultura, allo studio, ai libri. Lila spinge continuamente Lenù a impegnarsi e quest’ultima le presta continuamente i propri testi e le letture che la appassionano. Quando Elena riceve per la prima volta dei libri nuovi, non usati (2.03) la madre Immacolata (Anna Rita Vitolo) li annusa, quasi si commuove. 

Si indaga costantemente il ruolo dell’ambiente della formazione culturale di una persona, e su che margine ci sia per un riscatto. Un professore universitario scoraggia Elena dal tentare la carriera accademica in favore dell’insegnamento alle magistrali, per formare studenti futuri, dicendo che l’affinamento avviene in generazioni e che la natura non fa salti (2.08). Le parole vagamente sdegnose e demolitorie deludono la giovane donna. Ci si domanda, con la protagonista che si interroga sul fatto se sarà mai in grado di affrancarsi dal rione che l’ha vista crescere, che il padre una volta laureata le fa attraversare quasi in passerella per vantarsi orgoglioso, quanto di vero e quanto di pregiudizio ci sia in una posizione del genere. E  quanta intelligenza nella lungimiranza nelle maestre di quartiere e dei genitori che, pur nella loro ignoranza, hanno saputo vedere oltre e scommettere sulle capacità delle proprie figlie.  In parte c'è di fondo il perenne quesito di natura vs cultura, ma forse proprio perché non si mettono in contrapposizione, ma se ne guardano le interazioni, il ragionamento che ne esce è molto complesso.  

Nella vita di tutti i giorni, ho spesso incontrato riflessioni su questo tema, ma mai l’ho visto trattato con tanta sagacia, acume, e sottigliezza come qui. E la serie ha reso completamente giustizia al libro – ai libri, volendo. Geniale davvero.   

venerdì 22 maggio 2020

KIDDING: la seconda stagione

ATTENZIONE SPOILER IN TUTTO IL PEZZO. La seconda stagione di Kidding ha tenuto lo stesso tono della prima. Era difficile far uscire il protagonista Jeff (Jim Carrey) dalla distruttiva finale in cui aveva volontariamente investito il nuovo amore della moglie, da cui era separato ma ancora innamorato, Jil (Judy Greer). Come mattatore di un programma per bambini che ha costruito tutto il suo essere intorno ai concetti di gentilezza e amorevolezza, ammettere quello che ha fatto significa perdere tutto. Da sempre la serie ci ha fatto credere che l’alter ego televisivo di Jeff non è una finzione, lui crede sul serio in quei principi, e può scivolare in quanto essere umano, ma non li rinnega, si impegna per metterli in pratica, anche dove gli costa. Ed è così ancora una volta, nel corso di questo arco tutto: confessa quello che ha fatto alla donna che ama e all’uomo che ha ferito, gli dona una parte del suo fegato per permettergli di sopravvivere. La lezione, che non è una predica, è che essere brave persone non è facile, forse è la cosa più difficile di tutte, ma si cerca di esserlo perché è un modo di rendere il mondo migliore.

Molto di questo segmento è stato costruito sui flashback di cui si è fatto un uso ricostruttivo della memoria, ma anche legato a una storia in cui il figlio di Jeff, Will (Cole Allen), desidera tornare nel passato, e si auto-convince che è possibile farlo. Il senso ultimo che si è voluto trasmettere è che fermare il tempo non è possibile, ma lo si può rubare, ovvero ce lo si può dedicare a vicenda, decidendo di trascorrerlo con le persone che per noi contano – a questo proposito uno dei passaggi di montaggio più belli che abbia mai visto in molto tempo è proprio quello che vede Jil chiedere a Jeff se la colpevolizzi rispetto alla scomparsa dell’altro figlio, il gemello di Will, morto per incidente mentre era in macchina con lei: Jeff sembra ripercorrere con la memoria tutta la loro storia, fino al momento delle nozze. Sull’altare, quando chiedono a Jeff se voglia sposarla, si stacca, e la risposta di allora, “sì (voglio sposarti)” è la risposta di ora, “sì (ti incolpo)”. Davvero una costruzione notevole e inaspettata.

Ancora una volta si è insistito su alcune idee care alla serie. In primis quella sulla mascolinità: è importante essere considerati gentili, e questo non deve farsi equivalere con l’essere omosessuali (quello si chiama omofobia). Comportarsi in modo educato e con considerazione per gli altri è un valore. E mirare a ciò non significa negare le proprie pulsioni negative.  Tutti abbiamo più di due dimensioni e un lato oscuro, e dobbiamo imparare a conviverci e a gestirlo. La lotta umana di Jeff è proprio quella. Nella diegesi cerca di mettere in scena la realtà dolorosa del suo divorzio (2.05), anche se ha conseguenze in parte rovinose (il Mr Pickles della versione filippina, in un Paese dove divorziare è illegale, muore, e la produzione ne è ritenuta responsabile).

Un tema esplorato più a fondo in questo arco è stato quello della necessità di prestare attenzione ai bambini, la missione a cui il protagonista si è sempre dedicato con uno spirito di vocazione monacale (in proposito c’è perfino un incontro con il Dalai Lama in 2.10), la necessità di connessione, un avvicinamento umano diverso da quello potenzialmente tossico dei social media, qualcuno con cui parlare e qualcuno che stia ad ascoltare – e studia un giocattolo che abbia proprio questa funzione. 

Si insiste anche sul potere taumaturgico della fantasia: “la realtà è la malattia, la fantasia è la pillola”. Il padre Sebastian comincia ad avere problemi di contatto con la realtà, dovuti a un attacco di cuore e senilità,  e lui ed altri come lui vengono aiutati in una apposita clinica proprio nutrendo le loro fantasie, con l’ausilio di attori. Le fantasie personali sono importanti e le fantasie collettive sono un vero patrimonio. La sorella di Jeff Deidre, che è la creatrice dei molti pupazzi, divorzia dal marito che le sottrae i diritti alle sue creazioni, ora svendute per scopi per cui non erano state pesate. È una ferita personale, ma è una ferita per tutti.

Questa stagione di Kidding è sembrata più caotica della precedente, meno asciutta, perché ha affrontato forse fin troppe realtà insieme. Ha mantenuto però il polso saldo sulla sua etica di fondo, sulla malinconia che la contraddistingue e sul rifiuto di posizioni ciniche. Diversamente dalla scorsa volta, poi, ha terminato su una nota positiva, di speranza di una riappacificazione fra Jeff e Jil. Forse non ci sarà mai, ma si è rubato quell’attimo fuggente di speranza fino ad una eventuale prossima stagione. 

mercoledì 13 maggio 2020

AFTER LIFE: doloroso ed esilarante



Brilliant: così mi sento di definire After Life, la più recente commedia scritta e diretta da Ricky Gervais (Derek, The Office), con due stagioni di 6 puntate ciascuna, su Netflix. Magnifica e intelligente. Dolorosa e umoristica. Specifica e universale.

Tony Johnson (Ricky Gervais) è infelice e suicidario dopo la morte per cancro della moglie Lisa (Kerry Godliman). Doversi prendere cura della cagna Brandy è l’unica cosa che lo spinge a non farla finita. Lavora per il Tambury Gazette, un giornale che racconta le vicende della gente comune del luogo, il cui direttore è suo cognato Matt (Tony Basden). Arrabbiato con il mondo e senza peli sulla lingua, cerca di trovare un senso alla propria vita con l’aiuto delle persone che lo circondano, fra cui i colleghi: il fotografo Lenny (Tony Way), l’addetta alla pubblicità Kath (Diane Morgan), la giornalista neoimpiegata Sandy (Mandeep Dhillon), l’addetta alla reception Valerie (Michelle Greenidge).  

La serie è costruita su una sequela di situazioni ricorsive in cui vediamo il protagonista meditare sulla condizione umana nel confronto con gli altri: interagisce spesso con frustrazione con i colleghi; chiacchiera con una vedova più anziana di lui che si ferma sempre su una panchina davanti alla lapide del defunto marito, Anne (Penelope Wilton, Downton Abbey); va a trovare il padre Ray (David Bradley) - che soffre di demenza e metà delle volte non lo riconosce e si trova in una casa di cura -, dove fa amicizia con l’infermiera Emma (Ashley Jensen, Catastrophe); cerca un conforto che non arriva dagli appuntamenti con lo psichiatra (Paul Kaye) suggeritogli dal cognato, che pure si avvale dei suoi servigi professionali; inscena piccole scaramucce con il postino Pat (Joe Wilkinson), che gli legge sempre le cartoline e non gli infila mai la posta nell’apposita fessura sulla porta; socializza castamente con una prostituta, una “professionista del sesso” come precisa regolarmente lei, Daphne “in arte” Roxy (Roisin Conaty) e per un periodo con Julian (Tim Plester), uno spacciatore, anche lui vedovo affranto. Quando è da solo in casa cerca di consolarsi guardando al computer spezzoni di vecchi homevideo dell’amata perduta.

E poi ci sono gli incontri con le minute, insignificanti, spesso patetiche realtà quotidiane degli abitanti che chiamano il giornale perché si scriva una storia su di loro, a partire da Brian (David Earl), una accumulatore compulsivo, che fa di tutto per comparire sulle pagine della Gazzetta e finisce poi per essere assunto per distribuirla. Nell’assurdità spesso ridicola di questi incontri, che Tony affronta con molto sarcasmo, in realtà emerge tanto dolore e sofferenza e vede che ciascuno di noi cerca di andare avanti come può.

Come è un classico per Gervais, il suo ateismo, quasi un tabù nello stato della televisione attuale, è dichiarato senza compromessi. Offre invece e incoraggia un umanismo che crede nel prendersi cura gli uni degli altri e nel fare del proprio meglio per il prossimo fino a che la morte non mette fine a tutto. Filosoficamente forse è un po’ banale, nel senso che il fare del bene non sempre può essere di così facile definizione, ma che ci sia consapevolezza anche di questo è lapalissiano.

Tony dà del denaro a Julian che gli dice esplicitamente che non averlo è l’unica cosa che lo trattenga dal togliersi la vita. Se lo avesse, comprerebbe droga a sufficienza da farla finita. Lui tira fuori il portafogli e gli dà il necessario. Il giorno dopo l’amico è morto per overdose. Tony ha fatto bene? Ha fatto male? Quando accenna al cognato che sapeva delle intenzioni di Julian, Matt lo minaccia di non fargli più vedere il nipote, se non nega quello che ha appena confessato, lui perciò lo nega. La serie è quindi ben consapevole di avere morali ambigue e non si preoccupa di dare una risposta o una soluzione – ed è meglio così – non di meno invita ad essere il miglior sé che si può, informato dalle proprie conoscenze e capacità e sensibilità, nel quotidiano, nel piccolo, in gesti di premura che mostrano considerazione. Nel vedere che Tony riserva tante piccole attenzioni ala fine della prima stagione (1.06) alle persone che nella vita lo circondano, come non commuoversi? Quello è il senso ultimo e la bussola morale del programma.

Sotto i riflettori è un “paese-famiglia” vagamente stilizzato e fatto anche di tante persone “ai margini”, che sprizzano umanità. È un’esistenza dolente, si medita sul lutto, sui modi di affrontare il dolore, sulla solitudine. Nella citazione di Frost che si mette sulle labbra di Tony alla fine della seconda stagione, di una sola cosa si può essere certi, che la vita continua. La cosa essenziale è esserci, con reciprocità, nella certezza  che per essere felici  “avere qualcuno da amare è tutto. Non serve altro”.

Ho poi notato con piacere una cosa di cui già mi avevano avvertita. Come anche chi non mi conosce di persona può sapere leggendo la mia breve nota biografica indicata in questo blog, soffro di encefalomielite mialgica / sindrome da fatica cronica (ME/CFS). E se ora non sono più severa, sono stata grave e molto grave per parecchi lustri. Gervais in passato nei suoi spettacoli comici ha ridicolizzato l’invalidante patologia di cui soffro, e ha portato danno alla comunità dei pazienti per questo, aumentando lo stigma. È stato ferocemente criticato da noi attivisti e una clip del suo monologo su di noi è finito anche nel documentario sulla patologia “Unrest”, di Jennifer Brea. Qui, risolleva la questione e quello che ha deciso di scrivere ha il sapore di una scusa e di una correzione.

Il protagonista (2.06) è chiamato a intervistare un cinquantenne che si identifica in una bambina di 8 anni, e come tale si veste. La moglie insiste che sta avendo un crollo nervoso, lui la accusa di essere transfobica. La vicenda tutta, anche con una scena successiva con la figlia di lui e con una conversazione con Lenny, è costruita in modo molto calibrato e rispettoso della comunità trans, credo. In ogni caso la moglie dell’uomo ritiene che sia solo una delle sue tante fasi, come quando appunto, dopo aver visto un documentario sulla ME/CFS ha passato un anno credendo di averla. Lui replica che era stato un incubo, che era stanco tutto il giorno. E quando lei l’apostrofa dicendo che è una stronzata, lui la incalza facendo presente che c’è molto fraintendimento e cinismo sulla malattia. Lei a quel punto ammette che è vero, solo che lui non ce l’aveva. Sono state alla fine poche battute, ma che per me e per molti hanno voluto dire tanto.  
  
Gervais è graffiante e spiazzante come sempre, ma non disumano, anzi acutamente consapevole di quello che ci rende tutti vulnerabili e per questo davvero brillante, oltre che immancabilmente esilarante.   

martedì 5 maggio 2020

THE MORNING SHOW: una serie sul #metoo


The Morning Show (Apple TV+) è una serie che ci porta dietro le quinte di un fittizio programma di notizie mattutino, che è un incrocio, come è evidente dal titolo, fra i molto reali Good Morning America e The Today Show, e guardandolo è impossibile non pensare che sia ispirato almeno in parte alle vicende che hanno travolto il giornalista Matt Lauer, conduttore di quest’ultimo. 

A fare da padrona di casa di quello che è un amatissimo show per la fittizia UBA è Alex Levy (una Jennifer Aniston molto convincente nel ruolo). Quando Mitch Kessler (Steve Carell, anche lui efficacemente preso in prestito da ruoli precedentemente comici) viene accusato di cattiva condotta sessuale e perde il lavoro venendo epurato, si scoperchia una situazione spinosa. Fra le “prede” del conduttore c’è anche Hannah Shoenfeld (Guru Mbatha-Raw), una talentuosa collega che ha fatto carriera rapidamente. Le denunce di scorrettezza lasciano tutti scossi, compresa la produttrice Mia Jordan (Karen Pittman), che in passato aveva avuto una storia con lui. È un colpo anche per Alex, che, separata dal marito Jason (Jack Davenport), ha sempre avuto un rapporto molto stretto, anche amicale, con il co-conduttore. Tra l’altro viene a scoprire che intendono approfittare della situazione per sostituirla nel suo ruolo, cosa che avevano intenzione già di fare. Nonostante le resistenze iniziali di Charlie “Chip” Black (Mark Duplass), il produttore esecutivo, a sostituire Mitch a fianco di Alex in trasmissione è Bradley Jackson (una grintosa Reese Witherspoon), una reporter senza previa esperienza di questo tipo, molto diretta e impulsiva, voluta fortemente da Cory Ellison (Billy Crudup), un dirigente della rete che la vede come un’occasione per svecchiare il contenitore mattutino. Questo lascia scontento Daniel Henderson (Desean Terry) che contava di essere lui favorito ad ereditarne il ruolo. Il metereologo Yanko Flores (Néstor Carbonell) e l’assistente alla produzione Claire Canway (Bel Powley) hanno segretamente una storia, e alla luce dello scandalo si interrogano sulle ripercussioni sulle loro carriere se si venisse a scoprire.  

Tanti sono i temi che emergono nelle puntate: come gestire l’immagine di un programma e rilanciarlo dopo un momento di crisi; le concezioni sul ruolo del giornalismo e della televisione; le dinamiche all’interno di un network e le politiche aziendali in merito alla condotta dei propri impiegati; la cultura condivisa; l’apparenza versus la realtà; i sacrifici individuali; i rapporti personali dai confini non sempre così ben definiti; le connessioni umane che si creano nei luoghi di lavoro; il ruolo nel non detto nelle relazioni; l’inesperienza e la professionalità; il potere; la percezione sociale e l’opinione pubblica; l’equilibrio fra vita professionale e casalinga; la deontologia e l’etica; il silenzio e la condivisione; lo spazio delle donne nella realtà contemporanea; le modalità di costruzione delle narrative degli eventi; il peso degli aspetti economici e finanziari nelle scelte di ciascuno… Non c’è dubbio alcuno però su quale sia la tematica centrale sotto i riflettori: le molestie sessuali sul luogo di lavoro e il movimento #metoo.

Non sempre si ha l’impressione di trovarsi davanti a una serie rivelatoria e potente, con una scrittura nitida e graffiante, eppure in molti momenti lo è e quello che la fa comunque emergere, e fa capire che è meno ingenua di quanto non potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale, è che semplicemente gli autori si rifiutano di semplificare la questione. La si seziona tenendo conto di tutti. C’è una condanna netta verso i comportamenti predatori, siano consapevoli o meno, perché sono distruttivi: la season finale (senza fare spoiler) rivela quanto possano esserlo. Si dice chiaramente che anche lì dove c’è apparentemente consenso, il fatto che una persona si trovi in una posizione di potere nei confronti di un’altra (per età, per esperienza, per fama, per ruolo) il consenso può essere viziato. Si mostra e si dice come le molestie si riflettano sull’immagine di sé, sul proprio lavoro, sulla propria vita, di come ci si possa sentire violati, spaventati, inermi, usati, di come si possa trovare difficoltoso dire no e difendersi, di come nel parlare si possa temere di venire definiti da quell’evento…

Questo non significa che le posizioni personali siano solo bianche o nere, ma in molte gradazioni di grigio. C’è spazio per la collega che vedeva un clima insalubre ma lo attribuiva al fatto che è sempre stato un mondo al maschile; c’è spazio per il pubblico che rimane deluso e non vuole credere alla colpevolezza del proprio beniamino; per l’affetto della collega che condanna il comportamento, ma vuole comunque bene alla persona; per gli egoistici interessi personali che fanno agire in un modo che a posteriori si rimpiange; nel clima culturale esistente c’è spazio per riconoscere, anche se non si condona, che qualcuno non si possa essere reso conto di abusare del proprio ruolo, credendosi corretto, ingenuamente magari ma in buona fede; per chi vuole veramente una relazione sul lavoro, ma ne teme le conseguenze e le invasioni di privacy; c’è perfino spazio per chi quegli abusi li ha subiti e apparentemente ne ha avuto dei benefici secondari… in tutto questo non si giustificano una cultura e quegli atteggiamenti che permettono abusi, ma si guarda all’umanità delle interazioni. C’è molto su cui riflettere in questa creazione di Jay Carson. Nelle sfumature, nelle sbavature dei margini, il programma dimostra la propria grandezza.  
 
    
In modo tangenziale, osservo anche un altro dato, una curiosità, più che altro. Ho visto la season finale, originariamente trasmessa poco prima di Natale 2019, nel marzo 2020, in piena crisi coronavirus. Quello che non ho potuto non notare, e che probabilmente mi sarebbe passato indifferente se avessi guardato l’ultima puntata in un altro momento, è che quando le protagoniste interrompono la regolare messa in onda per prendere la parola, la notizia che stavano trasmettendo riguardava la quarantena di una nave per un misterioso virus. Alle loro spalle si leggeva proprio a caratteri cubitali la scritta “quarantena”. Ha fatto uno strano effetto, anche proprio in prospettiva della rilevanza che si può o può non dare a un’informazione in uno specifico momento.  La produzione della seconda stagione della serie è stata peraltro interrotta causa COVID-19.