sabato 5 settembre 2020

THE BOOTH AT THE END: un patto per ottenere ciò che desideri


Che cosa saresti disposto a fare per ottenere quello che desideri? È questa l’idea centrale intorno a cui ruota The Booth at the End, ideato da Christopher Kubasik.

Un uomo (Xander Berkeley), senza nome, propone alle persone che si rivolgono a lui un patto. Se loro eseguono esattamente quello che lui chiede, otterranno per certo quello che vogliono, qualunque cosa essa sia. In cambio vuole solo essere tenuto al corrente ed essere aggiornato sui dettagli. I compiti che affida sono semplici o difficili, atroci o piacevoli, non c’è una regola. Lui apre un quaderno da qui legge quello che devono fare, e in cui segna quello che i suoi clienti gli raccontano. 

Chi è? Non si sa. È forse Dio? È il diavolo alla Faust di Goethe? “Come so che non sei il diavolo?”, gli chiede una. “Non lo sai”, risponde. È uno sceneggiatore? Uno psicoterapeuta? La propria coscienza resa visibile, i propri meccanismi mentali a volte assurdi resi concreti? È l’intermediario di qualcuno? È la materializzazione del fato eschileo come suggeriscono su FestivaldelNerd? O magari è un esperimento di Milgram, per l’era digitale, come propone Lucy Mangan sul Guardian? Non abbiamo una risposta. Non solo, dice esplicitamente che non possiamo saperlo. E questa incognita gnoseologica è una delle cifre stilistiche su cui fonda la propria forza la narrazione.

C’è il padre che vuole che il figlio non muoia di leucemia, la ragazza che desidera essere la più bella, l’uomo che agogna che una  donna vista nel poster di una rivista si innamori di lui, la suora che ha perso la fede che vuole ritrovare Dio… E i compiti possono essere i più vari, da aiutare una vecchina ad attraversare la strada, a rapinare una banca, a piazzare una bomba o uccidere qualcuno…

Lui, l’uomo al tavolo al fondo di una archetipa diner americana, non costringe nessuno. Chiede ripetutamente ai propri clienti se vogliono continuare, non affida mai missioni impossibili, solo compiti che spesso le persone non vogliono svolgere, questo sì. Sta a loro decidere che cosa fare. Loro hanno la scelta. Vogliono davvero quello che hanno detto di volere? A che cosa sono disposti per averlo? Possono abbandonare i propri propositi in ogni momento, e sono liberi di scegliere come mettere in atto il piano, hanno libero arbitrio di cambiare idea e chiedere cose differenti. E non è detto che quello che vogliono poi non lo ottengano comunque, indipendentemente dall’accordo stipulato.   

Lui, di sè, non dice nulla. Nemmeno a Doris (Jenni Blong), cameriera della tavola calda, che cerca di capire chi è e di far sì che lui si apra con lei. Così come dichiara rigorosamente di non sapere molte delle cose che gli domandano, di come stiano andando, o su chi siano le persone con cui vengono in contatto.

La serie è costruita esclusivamente sui dialoghi fra l’uomo e i propri clienti, è quindi puramente conversazionale, quasi teatrale.  Non vediamo accadere niente, e tutto è ricostruito nella nostra fantasia attraverso le parole. Ci si interroga proprio sul desiderio, sulle scelte, sulla natura umana e su quello che saremmo disposti a fare per ottenere determinate cose. Io per me stessa credo di sapere bene a che cosa sarei disposta e a che cosa no. Però sarebbe diverso se avessi la certezza di avere quello che voglio?

E le storie, scopriamo pian piano, almeno alcune di esse, sono collegate. A un uomo viene chiesto di uccidere una bambina, a un altro di proteggerla. È la vita.

Purtroppo su Amazon Prime, dove è disponibile la prima, tutta con la regia di Jessica Landaw, di due stagioni di cinque puntate ciascuna, è possibile solo seguirla in italiano. Mi rammarico di questo non tanto per principio, perché è più bello avere l’opzione di vederla anche in originale (che solitamente scelgo), tanto più con un cast di prim’ordine come in questo caso, quanto perché la versione doppiata è mal sincronizzata, e questo un po’ rovina la qualità della fruizione.

È un racconto che è contemporaneamente intimo, perché poche cose ci rivelano a noi stessi come i desideri, ma anche molto distaccato, teso. Non sembra tradire emozioni il man at the booth, se non curiosità e sorpresa, e non giudica chi ha di fronte, né per quel che vengono a chiedergli, né per come decidono di attuare i propri compiti. Si pongono questioni filosofiche, esistenziali, etiche, sebbene ci sia un fondo in qualche modo sovrannaturale. C’è anche un’estetica molto “ordinaria”, quotidiana. A dispetto della premessa, non c’è niente di cervellotico.

Leggo su Wikipedia che il regista italiano Paolo Genovese ne ha tratto ispirazione per un suo film, The Place. La serie intanto, che è del 2010, è affascinante. Da non perdere. E se mi dispiace che sia stata cancellata dopo dope due stagioni, mi auguro di poter almeno vedere presto almeno la seconda, per ora inedita.

mercoledì 26 agosto 2020

AVENUE 5: delude, ma migliora


In Avenue 5, avventura comica di Armando Iannucci (Veep), siamo in un futuro in cui gli esseri umani vanno in crociera nello spazio.

A causa di una momentanea perdita di gravità artificiale e della morte dell’ingegnere capo, la nave interplanetaria del titolo, di proprietà dell’egocentrico, odioso  multimilionario Judd (Josh Gad), che pure è a bordo, si ritrova molti gradi fuori rotta, e al capitano Ryan (Hugh Laurie, House), che presto si rivela essere qualcuno di diverso da quello che tutti pensano che sia, tocca l’amaro compito di annunciare che il previsto viaggio di 8 settimane intorno a Saturno, si prolungherà: ci vorranno addirittura circa tre anni per tornare sul pianeta Terra. Equipaggio e passeggeri devono tenere la calma e imparare a convivere, ma sono arrabbiati.

Se le sparate del mercuriale, viziato Judd vengono gestite alla meno peggio dalla sua assistente personale Iris (Suzy Nakamura), al rapporto con la clientela è preposto Matt (Zach Woods, Silicon Valley), i cui tentativi di calmare tutti spesso hanno l’effetto opposto a quello desiderato, e la matura Karen (Rebecca Front) si fa portavoce delle esigenze dei passeggeri, fra cui il suo stesso marito Frank (Andy Buckley) e la coppia in crisi Mia (Jessica St. Clair) e Doug (Kyle Bornheimer, Worst Week). Chi cerca di venire a capo della situazione con delle soluzioni sono, sulla Terra, Rav Mulcair (Nikki Amuka-Bird), a capo della missione e sempre più stressata, anche per il costante scarto di tempo in cui avvengono le comunicazioni fra lo spazio e la base, e sulla nave la giovane ingegnera Billie (Lenora Crichlow, A to Z), anche se il suo contributo vorrebbe poterlo dare anche l’ex-astronauta Spike (Ethan Phillips). Ad alleggerire la tensione ci prova il giovane cabarettista Jordan (Himesh Patel).

Questa comedy inizialmente delude, ma prende vigore a mano a mano che procede. E anche se è facilmente interpretabile in modo metaforico-politico da Judd a Trump il passo non è lungo – non è sempre del tutto chiaro quale sia l’obiettivo della satira. Diversi dei personaggi (Judd, il capitano Ryan e Matt, in particolare) incarnano l’ossimoro fra quello che sono e quello che professionalmente dovrebbero essere chiamati ad essere: sono una farsa, l’assurdo di una società per cui è sempre più difficile distinguere realtà e apparenza – a questo proposito la season finale (1.08), in cui ciascuno reagisce in modo diverso all’ipotesi che la situazione in cui si trovano sia una simulazione, è emblematica. E una delle tematiche più interessanti che sono emerse è quella della competenza, e di come se non è esteticamente appetibile viene tenuta nascosta, e si premia invece la facciata più accattivante, anche se nasconde inettitudine.

Forse complice il fatto che in quarantena ho seguito la serie, in quella prospettiva si legge facilmente: persone bloccate in modo imprevisto in uno stesso ambiente, e persone a cui tieni che sono distanti. Con un tocco di antropologia sociale non indifferente (non credo di averne visto uno su questo principio dai tempi di Caprica), il capitano, il  cui matrimonio viene messo in crisi dalla situazione, è sposato non con una, ma con due persone – e i coniugi che gli chiedono il divorzio sono sulla terra.

Occasionalmente caustica, l’ilarità si potenzia nel tempo, e non solo perché conosciamo di più i personaggi, ma perché si riesce a costruire mungendo il più possibile umorismo da una stessa idea. Un esempio concreto è il fatto che ad un certo punto la nave deve espellere la cacca dei passeggeri che finisce, per effetto della gravità creata dal veicolo aerospaziale stesso, a rotearle intorno. La merda è davvero terreno fertile per battute e situazioni che montano con il tempo in vis comica – e causa di risate non solo scatologiche, ma anche allegoriche – e che mostrano l’abilità degli autori che, appunto, da una occasione iniziale continuano a cavare spunti.   

Scrive poi bene Troy Patterson sul New Yorker, che richiama ora l’Aereo più pazzo del mondo, ora Pirandello, Star Trek e Love Boat, quando dice che “(i) personaggi consumano un sacco di aria riciclata per criticare l’uno la dizione dell'altro, a lamentarsi del tono, a controllare le sfumature di connotazione, a sbuffare sul "gergo", a misurare la gestazione delle pause ricche di significato e, in generale, a trovare le figure retoriche gli uni degli altri”. Sebbene fino in fondo non convinca del tutto, non è sicuramente una commedia di autori alle prime armi e, rinnovata per una seconda stagione, avrà tempo di aggiustare la rotta.

domenica 16 agosto 2020

THE UNICORN: ricominciare dopo un lutto


Rinnovata per una seconda stagione, The Unicorn ha come protagonista Wade (Walton Goggins, The Shield, Justified), vedovo e ora padre single di due ragazzine adolescenti, Grace (Ruby Jay) e Natalie (Makenzie Moss), che cerca di capire come andare avanti dopo la morte della moglie. È quello che il suo gruppo di amici definisce un “unicorno” (da cui il titolo), ovvero una brava persona, senza grilli per la testa,  devota alla famiglia e con un buon lavoro – è un architetto paesaggista – che è in cerca di una nuova relazione e non ha paura di impegnarsi: una creatura elusiva che tutte le donne cercano, una rarità insomma. Un DILF (la versione maschile di MILF), come ha scherzato qualcuno. E i suoi tentativi di avviare una nuova relazione, sebbene con riluttanza, e il suo ruolo genitoriale ora che è sua sola responsabilità sono il fulcro di questa commedia scaldacuore dove il grande motore che fa sì che la vita continui è l’amicizia. Wade può infatti contare sul supporto, e le spinte, di Forrest (Rob Corrdry, The Daily Show with Jon Stewart) e Delia (Michaela Watkins, Casual), lui specialista in risorse umane, lei pediatra, e di Ben (Omar Benson Miller) e Michelle (Maya Lynne Robinson), genitori oberati di quattro figli.

La serie di ritrova necessariamente ad affrontare il tema della perdita. In 1.03 il protagonista viene spinto dagli amici a rivolgersi a un gruppo di aiuto-aiuto di persone che hanno perso il  proprio partner di vita, come modo di affrontare la propria rabbia. Il primo impatto non è dei migliori, perché le vedove son tutte donne, parlano molto di sesso e sebbene lui non sia puritano, si sente fuori luogo. Ci riprova però e riesce a trovare una connessione proprio sul tema della rabbia, trova la legittimazione a provarne – ha diritto di essere arrabbiato di quello che gli è successo -  e a sfogarla in modo produttivo. La figlia minore a sua volta trova il modo di manifestare la propria rabbia per le cose che stanno cambiano e per il modo in cui lei si sente lasciata in disparte.

In realtà però non è tanto il lutto a farla da padrone. Altrimenti, come After Life, ben ha dimostrato recentemente, uscire con qualcuno che ha appena subito la perdita di una persona tanto amata tanto facile non è. Qui è trascorso più di un anno dal funerale e sono le piccole grandi quotidianità delle vita ordinaria a dominare la scena, in particolare la difficoltà a trovare una persona con cui si possa davvero andare d’accordo al punto da condividere la vita su base stabile, con la prospettiva di una persona ormai matura. La forza del programma è quella di trattare con una certa intelligenza la propria premessa: anche nel mostrare l’inesperienza del protagonista  in certi aspetti dell’educazione delle proprie figlie, ma di non lo fanno apparire un’inetto ai fini di strappare una facile risata.

Nulla di quanto accade sulle schermo è in realtà particolarmente divertente. Si sorride, ma non ci sono grandi risate, ma c’è un tono fine e gentile che la rende amabile. E in finale di stagione (1.18), in cimitero, grazie a una puzzola, si mette in campo quello che con ogni probabilità potrà essere l’interesse sentimentale (Natalie Zea) del protagonista nel prosieguo delle vicende.

Ideata da Bill Martin, Mike Schiff e Grady Cooper, questa sit-com non rivoluziona certo il genere, ma rinverdisce il classico “una famiglia di amici” con un cast davvero di prim’ordine.  

giovedì 6 agosto 2020

THE GREAT: godibilissima


Huzzah!”, come esclamano di continuo i suoi personaggi,  “urrà!”: l’esilarante, effervescente The Great (dell’americana Hulu) è stata rinnovata per una seconda stagione. Una postilla al titolo di dice che è “una storia occasionalmente vera” questa rivisitazione della vita di Caterina di Russia ad opera di Tony McNamara, sceneggiatore australiano noto per la serie Doctor, Doctor, ma soprattutto per la nomination all’Oscar per La Favorita , che l’ha basata su una sua precedente opera teatrale del 2008.

Siamo nella Russia del XVIII° secolo. La diciannovenne (nelle vicende)  Caterina (Alle Fanning), una principessa tedesca (in realtà prussiana), sposa Pietro III (Nicholas Hoult), figlio di Pietro il Grande (questo nella serie, non nella storia vera, dove gli era nonno materno). Colta e imbevuta di idee illuministe, vuole portare grandi rinnovamenti, ma si trova dinanzi all’inettitudine a allo scarso interesse del consorte, più interessato a gozzovigliare che altro, e a dilettarsi sotto le lenzuola con la moglie del suo amico Grigor (Gwilym Lee), Georgina (Charity Wakefiled), cosa che entrambi accettano per lo status che ne hanno come conseguenza, ma lui in particolare molto a denti stretti. Caterina studia la possibilità di prendere lei il trono, supportata da quelli di cui si circonda a corte, fra cui Marial (Phoebe Fox), una nobildonna caduta in disgrazia per i torti del padre a Pietro, ora sua cameriera, e il verginale, pavido, studiosissimo conte Orlo (Sacha Dhawan), consigliere imperiale. Il marito poi le “regala” un amante con cui divertirsi, Leo (Sebastian De Souza) e inizialmente lo accoglie con riluttanza, ma poi fra i due nasce l’amore. Questo con grande dispiacere del generale Velementov (Douglas Hodge), che ha una cotta per lei, ed è spesso impegnato in guerra – che stanno perdendo contro gli svedesi. A dare dritte alla futura imperatrice è la zia del sovrano (Belinda Bromilow, consorte nella vita reale dell’ideatore), mentre chi la osteggia è l’arcivescovo “Archie” (Adam Godley, Lodge 49) che come capo della chiesa è ostile ad ogni innovazione che la donna propone: l’arte, la scienza, la stampa…

Gli interpreti dei due protagonisti principali recitano davvero alla perfezione, con grande verve, i propri ruoli: se tutti sono molto abili nel riuscire a far passare come sono “ostaggi” dei capricci del sovrano, la Fanning riesce a trasmettere l’entusiasmo e la voglia di innovazione mescolati alla realizzazione continua che la sua ingenuità si scontra con una realtà molto gretta – rendersi conto appena arrivata che le sue dame di compagnia non sanno leggere è un colpo – ed è contemporaneamente appassionata, e sognatrice, ma allo stesso tempo molto concreta e calcolatrice, se necessario; Hoult sceglie non solo di rendere il suo personaggio capriccioso e infantile, ma anche completamente disinibito e, nel suo egocentrismo totalmente autoassorbito e perennemente autocelebrativo che non riesce nemmeno a immaginare che tutti non lo adorino, riesce a infondere umanità. Se non fosse così perfettamente calibrato potrebbe riuscire facilmente odioso, invece riesce perfino a elicitare tenerezza.

Sono convincenti nella più assurda delle situazioni e hanno un tempismo comico invidiabile. Non credevo che avrei mai potuto ridere così tanto nel sentire citato Diderot, ma quando nel pilot, lei ne legge un passaggio al marito, la reazione di lui è particolarmente incisiva per il lasso di tempo che ha saputo tenere prima della risposta. E ugualmente sul tempo è giocata la “prima notte” dei reali. Marial vuole assicurarsi che la madre abbia informato Caterina su che cosa aspettarsi la prima volta. Lei sembra più informata del necessario perfino: fa una lunga, lunghissima descrizione poetica su quello che si aspetta. Non solo il lungo soffermarsi sui particolari è buffo in sé e per sé, ma rende cocente la delusione dell’atto successivo, che avviene in modo particolarmente crudo e sbrigativo. Il riso diventa presto amaro.

C’è  anche parecchia brutalità nella serie tutta – uno per tutti le deste decapitate dei nemici offerte insieme al dessert (1.02) – e si affrontano anche tematiche che hanno rilevanza nella contemporaneità – in “A Pox of Hope” (1.07), quando il servo Vlad (Louis Hynes, Una serie di sfortunati eventi) contrae il vaiolo, si parla di variolizzazione, e c’è una sorta di discussione fra vax e no-vax ante-litteram.

C’è sufficiente irriverenza nella scrittura e messa in scena che non si corre il rischio di prendere per vere quelle che sono evidenti licenze poetiche ai fini di ilarità. In questo modo e attraverso questo filtro si nascondono però molte verità storiche che vanno al di là degli eventi, ma che riguardano gli atteggiamenti egli elementi culturali che informano un periodo storico, come nel caso del dispotismo o della misoginia, del potere e dell’ambizione, della cultura e delle idee, della crudeltà senza senso e dei meccanismi di forza che li tengono in vita, della diversa percezione di ciò che è pubblico o privato, dell’opulenza oziosa della classe dirigente in contrasto con la sorte dei sottoposti, della forzata ipocrisia della corte, da cui spesso dipendeva la vita stessa, che è qui un filo conduttore importante.

A tratti assurda, anacronistica e rozza, confezionata in un look ricercato, è una satira affilata capace di tenere salde le redini e piena di sorprese, con momenti anche romantici (penso al doloroso finale): godibilissima. E per me, senza ombra di dubbio, una delle serie migliori dell’anno. 

lunedì 27 luglio 2020

MRS. AMERICA: ratifica dell'ERA - la seconda ondata femminista e l'opposizione



Se descrivo Mrs America (sull’americana Hulu) come il corso di storia, di scienze politiche, di femminismo, di attivismo e di narrativa biografica che ritengo che sia, lo faccio sembrare un polpettone lagnoso e quello, al contrario, non ritengo lo sia: è una sagace, appassionante battaglia per i diritti delle donne, e con una prospettiva inaspettata che dà peso e rilievo anche a chi quella lotta l’ha combattuta e persa. Si rimane con il fiato sospeso, anche se si sa già come va a finire. E i parallelismi con la contemporaneità rendono tutto ancora più pregnante. Quali di quelle conversazioni sono conversazioni che facciamo tutt’ora? La reazione alla finzione della narrativa possiamo anche intenderla come un potenziale test di Rorschach sulla propria posizione rispetto alle questioni trattate.  

Siamo negli USA, negli anni ’70 (si procede cronologicamente a partire dal ’71). I grandi nomi della seconda ondata femminista Gloria Steinem (Rose Byrne, Damages), Betty Friedan (Tracey Ullman, The Tracey Ullman Show), Bella Abzug (Margo Martindale, The Americans, The Good Wife), Shirley Chisholm (Uzo Aduba, Orange is the New Black), Jill Ruckelshaus (Elizabeth Banks)    si stanno battendo per far ratificare da tutti gli Stati americani, perché sia considerato costituzionale, l’ERA, ovvero l’Equal Rights Emendment, l’emendamento sulla parità dei diritti, approvato da entrambi i rami del Congresso in modo bipartisan e perfino sostenuto dal presidente repubblicano, ma osteggiato da chi sente minacciata la famiglia americana tradizionale, capitanato dalla reazionaria Phyllis Schlafly (Cate Balchet) che ha fondato l’Eagle Forum, un gruppo conservatore, sostenuta a denti stretti dal marito Fred (John Slattery, che dopo Homefront e Mad Men si sta facendo tutte le decadi) e contornata da altre donne che ne condividono i principi, come Alice Maccray (Sara Paulson, American Horror Story) e Rosemary Thomson (Melanie Lynskey).

Le puntate si aprono con il disclaimer che si tratta di eventi realmente accaduti, ma con un margine di invenzione, se non altro rispetto alle conversazioni a porte chiuse. La creazione di Dahvi Waller è particolarmente interessate nel taglio proprio perché, pur dedicando ogni puntata a una icona del movimento per i diritti delle donne, per terminare poi con una visione corale, sceglie di guardare molto a chi si è battuto intensamente contro, mostrando intanto anche le ragioni, non sempre retrograde e ottuse, di queste persone: casalinghe con poca esperienza fuori dall’ambiente domestico si sentivano minacciate e in fondo giudicate come poco importanti da parte di donne agguerrite che cercavano un proprio ruolo fuori dalle mura domestiche, ridicolizzate per essere orgogliose del loro ruolo di casalinghe, quando altrettanto legittima doveva essere giudicata la loro aspirazione di realizzarsi come madri e mogli. Si mostrano attivamente le donne come ultimo baluardo del patriarcato: hanno paura di perdere l’amore e la protezione dell’uomo e si fa vedere come siano state sfruttate le loro paure, ritraendole con un misto di ingenuità e di finto perbenismo (condiscendenza? Non mi pare), ma illustrando come nella concretezza quello che facevano non era lavoro casalingo, ma in tutto e per tutto quello che facevano le femministe a loro opposte: il contenuto era in senso inverso, ma il tipo di impegno era lo stesso.

Bella Abzug lo dice chiaro e tondo a tre di loro (fa cui Alice e Rosemary). Parlando di Phylis Schlafly, la dichiara come una femminista a tutti gli effetti, anzi come forse la donna “più liberata” d’America. Vogliono stare a casa con i propri figli, non essere donne che lavorano, dichiarano. E lei le incalza con una serie di domande su quello che dicono di aver imparato da lei, conoscendo bene la risposta: vi ha insegnato come fare lobbismo sui legislatori? Vi ha insegnato come stendere un comunicato stampa? Come rispondere alle domande dei giornalisti, come procurarsi le interviste televisive? Come preparare e far quadrare un bilancio? Ovviamente sì. Per cui può solo commentare: “Congratulazioni, siete donne che lavorano” (1.07).

Il femminismo non è evidentemente una cosa unica, e l’autrice riesce a mostrare questo aspetto, e a far emergere questioni cruciali trasversali (aborto, lavoro), ma anche ben a mostrare esigenze variegate (le nere, le lesbiche), come si sia cercato il compromesso e come nella negoziazione certi interessi, tutti riconosciuti importanti e validi nella ricerca di giustizia e uguaglianza, alcuni siano stati sacrificati o abbiano rischiato di esserlo a favore di altri per paura di perdere tutto. Ci sono molti punti di vista, e la serie cerca di mantenerli. Era un movimento magari caotico, ma idealmente inclusivo, se non consapevolmente ancora intersezionale, e con molti obiettivi. Di contrasto gli oppositori ne avevo uno e uno solo: fermare le femministe.

C’è chi si è risentito di una visione forse troppo generosa nei confronti della Schlafly, che sarebbe stata dipinta come un’antieroina. In realtà l’autrice non le fa sconti. Non ci si fa scrupoli nel ritrarla come una persona che sì è una brillante organizzatrice, ma è una donna assetata di potere, manipolatrice e ipocrita – che non riconosce che, se riesce a portare avanti la battaglia che le sta a cuore è anche perché ha l’aiuto della cognata Eleanor: Jeanne Tripplehorn (Big Love) ha saputo molto espressivamente mostrare l’amarezza e la delusione di sentirsi disprezzata e ignorata pubblicamente, alla prova dei fatti, quando privatamente le si faceva credere il contrario. Si allude più volte all’uso strumentale da parte della Schlafly di estremismi e fanatismi (l’appoggio del Klu Klux Klan, ad esempio), delle fake news e della volontaria distorsione delle informazioni a proprio vantaggio. Il rancore, il risentimento e la rabbia schiumavano cristalline nella recitazione di una fulgida Cate Blanchett, e non sono passate nemmeno inosservate per Alice, che la Paulson ha reso un personaggio molto acuto, rendendo più che credibile il suo cambiamento di posizione, pur nel non rinnegare il proprio percorso. Insieme a quella della Martingale, queste sono state le interpretazioni più riuscite, in un cast in cui scegliere la migliore è veramente volersi fare del male.  

La Waller (si ascolti l’intervista per TV Top 5: qui) riconosce che il punto di vista privilegiato della Schlafly è stato scelto per riconoscerne l’appeal nella consapevolezza che ad ogni rivoluzione fa da contrappeso una controrivoluzione per cui è necessario capirla per sapersene difendere, per evitare di essere compiacenti. C’è sempre  il rischio di tornare indietro rispetto ai progressi fatti. 

Molta della riflessione si concentra proprio sulle dinamiche di potere, sulle strategie politiche e comunicative, sulle modalità per vincere - ad esempio si dice che le persone a cui si presta attenzione sono quelle che vincono, quindi può essere rilevante a chi viene riservata attenzione; si riflette sull’importanza della presenza fisica, sul potere dell’impatto emozionale… - , sulla retorica, sui concetti che fanno parte del DNA culturale di un’epoca e non necessariamente sono sempre esplicitati, ma sono comunque “nell’aria”. È un testo denso proprio perché si fa carico delle filosofie che lo animano.

La palette di colori usati richiama quelle dell’epoca, e alla mente affiorano programmi come Good Girls Revolt (che tratta tematiche affini) o Swingtown (che tratta tematiche differenti, ma è ambientato nella stessa epoca – nel caso si legga un mio saggio in proposito qui). La sigla, che meriterebbe un pezzo a sé, usa come musica “A Fifth of Beethoven” di Walter Murphy, un pezzo strumentale disco-funk che adattava il primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven, uscito in origine nel 1976. So per certo che questa stessa musica è stata usata in passato (forse proprio negli anni ’70) da un altro telefilm, ma nonostante mi sia scervellata non poco per cercare di ricordarlo o recuperare quale fosse ne sono uscita a mani vuote. Anzi, se qualcuno lo ricorda e me lo segnala mi fa un piacere.

Mrs America è stata concepita come una miniserie, ma non si esclude un approccio antologico, con nuove stagioni. Da parte mia sarebbero benvenute.

domenica 19 luglio 2020

UPLOAD: vita dopo la morte, amore, economia


Siamo nel 2033. Sul punto di morte i dati personali e la memoria di ciascuno può essere caricata (uploaded) su un computer in modo da poter continuare a vivere in forma virtuale attraverso un avatar. Questa è la premessa di Upload, un originale Amazon che riprende una tematica, quella della vita dopo la morte in forma alternativa e delle interazioni digitali, affrontata ormai da parecchie serie che vengono inevitabilmente richiamate: Black Mirror in primis, e specificatamente  il celebrato episodio “San Junipero” ma non solo, poi Altered Carbon, Äkta Människor, Westworld, e per certi aspetti anche The Good Place, Forever , Devs e Osmosis

Un giovane programmatore di computer, Nathan (Robbie Amell), muore prematuramente in circostanze sospette – una macchina che si guida da sola fa un incidente, evento molto poco probabile: che sia un omicidio? La ragazza di lui, la danarosa Ingrid (Allegra Edwards), con cui ha sempre avuto più un’intesa fisica che una vera comunione personale, ne fa digitalizzare la coscienza e lo carica nella costosa ed elegante Lake View, modellata sui grand hotel vittoriani statunitensi e canadesi, a sue spese e sotto il suo controllo. Nell’aldilà virtuale, tutti hanno come riferimento al servizio clienti un proprio “angelo” che si presenta ogni qual volta lo convocano. Per Nathan si tratta di Nora (Andy Allo, un’attrice che potrebbe facilmente aver fatto il casting per il ruolo di Lucca Quinn in The Good Fight, tanto ricorda Cush Jumbo). Fra i due non dovrebbe esserci un rapporto personale, ma nasce e anche qualcosa di più di un’amicizia. Fuori dal lavoro Nora si vede con una sorta di fidanzato occasionale e per il resto cerca di convincere il padre morente a non rinunciare alla possibilità di caricarsi in una di queste opzioni alternative alla morte, timorosa di perderlo, mentre lui non ne vuol sapere, perché crede che morendo si riunirà alla moglie defunta che amava.

La serie costruisce un giallo sulla dipartita del protagonista proprio al minimo sindacale, ed è evidente che lascia eventuali soluzioni per la confermata seconda stagione. L’aspetto meglio riuscito, per quanto non chissà che innovativo o trascinante, è quello romantico fra Nora e Nathan. In un’epoca in cui la possibilità delle relazioni istantanee è spesso la regola, creare ostacoli e conflitti che facciano tenere che una coppia stia insieme è sempre più complicato, ma è l’abbiccì per far appassionare il pubblico. Qui il fatto che lei sia in una situazione lavorativa in cui non può fraternizzare con i clienti è vissuta come un problema, ma in fondo di poco conto, ma ragionevolmente il fatto che lui sia morto e lei no crea un ostacolo non da poco. E che non sia l’amore delle storia che si tramanda nei secoli ci sta anche: sono dolci, stanno bene insieme e si conoscono un po’ alla volta. Hanno una bella intesa. Funziona.

L’interesse principale nella riflessione del programma ideato da Greg Daniels (The Office, Parks and Recreation) però sembra essere economico. Solo chi è danaroso a sufficienza può permettersi una vita dopo la morte magnifica e se non si paga extra non si possono avere tante scelte opzionali, ed evitare pop-up e pubblicità. Chi può permettersi solo pochi giga al mese, rimane bloccato, in un limbo, nel tempo che gli rimane, se li ha terminati: il mondo di chi ha “tre generazioni di giga illimitati” e ha viste mozzafiato non è il mondo di finestre che danno sul grigio dei “due giga al mese”. Mutatis mutandis, Altered Carbon è stato più brutale e incisivo nel mostrare questi problemi, ma questa rappresentazione è decisamente più vicina alla nostra esperienza della realtà fatta quotidianamente con cellulari, web e app varie. La possibilità di vita qui è veramente proporzionale a quando gonfio è il portafogli. E se a pagare è qualcun altro, sei alla sua mercé. In questo caso si tratta di una fidanzata che magari non ti piace poi come crede e a cui non interessi più di tanto, ma se ti metti a contrariarla, non ci mette niente a cancellarti definitivamente. C’è chi vuole che la vita digitale dopo la morte fisica sia un’opzione per tutti – è un diritto umano, protestano con i cartelli alcuni dimostranti. Ci parla del nostro presente, della nostra realtà e di come le disuguaglianze economiche creano una vita diversa da quella che potenzialmente ciascuno potrebbe avere.

Si mettono in campo tante questioni legate al tema: finitezza e significato della vita, vita dopo la morte, coscienza, amore, rapporti a distanza…tutto trattato in modo lieve e con un pizzico di umorismo: è epidermico, aspetto che ne costituisce al contempo la forza e la debolezza.

sabato 11 luglio 2020

THE RIGHTEOUS GEMSTONES: satira tamarra

Pur capendone lo spirito satirico, apprezzandone la recitazione del notevole cast, e godendo degli inaspettati colpi di scena, non mi sono appassionata all’apprezzato The Righteous Gemstones (HBO), il cui tono iperbolicamente parodistico mi ha infastidita più che farmi ridere.

I Gemstones sono una famiglia di televangelisti. Dopo la scomparsa dell’amatissima e riverita moglie Aimee-Leigh (Jennifer Nettles), con cui ha costruito un impero religioso, il patriarca Eli (John Goodman, Roseanne) manda avanti la sua chiesa con migliaia di fedeli con l’aiuto dei suoi tre figli: Jesse, (Danny McBride), sposato con Amber (Cassidy Freeman), e con un rapporto conflittuale con il figlio maggiore Skyler (Skyler Gisondo), qui motore di molte delle vicende; Judy (Edi Patterson), che si sente sempre poco validata, sposata con un uomo mite perennemente fuori posto, BJ (Tim Baltz); e Kelvin (Adam DeVine, Modern Family), che si occupa dei più giovani e ha preso sotto la sua ala protettrice Keefe (Tony Cavalero), ex-seguace del demonio. I tre fratelli non fanno che litigare come bambinetti. A provare risentimento nei loro confronti è il fratello delle defunta, “Baby” Billy Freeman (Walton Goggins, The Unicorn), per il fatto che era lui con la sorella che aveva lanciato un brand che si è sentito sottrarre da Eli, grazie a lei diventato ricchissimo.

La scena iniziale dell’ultima puntata (1.09) incarna bene quello che la serie è nella sua essenza. Aimee-Leigh è appena spirata e tutti i familiari sono riuniti intorno al suo letto. Si prendono per mano per dedicarle un’ultima preghiera di saluto. Un’ape comincia a ronzare sulla defunta e poi fra loro, e nel tentativo sempre più maldestro e aggressivo di scacciarla, finiscono per vandalizzare la stanza dell’ospedale, davanti allo sguardo scioccato del personale. È eccessiva. In questo sovrabbondare di reazione c’è l’ilarità e in questo specifico esempio riesce. La vicenda viene ripresa più in là nella puntata: Baby Billy viene colpito da un fulmine e rischia di morire. Di nuovo, un’ape si poggia sulla sua fronte e qualcuno sta per schiacciarlo, ma Eli lo ferma. È un momento spirituale di riconciliazione. Perché le vicende sono infuse anche di momenti umanamente toccanti. Sono evidenti e sentiti, ma in qualche modo le due parti non si incollano bene fra loro, e l’effetto è di stonatura, per me.

Nel titolo questi predicatori vengono definiti “righteous”, ovvero virtuosi, retti, giusti, un termine classico sulla bocca delle congregazioni religiose. Quella parola di fronte ai fatti diventa presto grottesca. La facciata si sgretola immediatamente. Sono arraffoni, avidi, vendicativi, lussuriosi, pieni di sé, fedigrafi, corrotti, venali…perfino assassini. Si credono superiori, in uno zelo spocchioso, e il loro narcisistico ego è spassoso quando messo dinanzi alla reazione degli altri personaggi. Sono peccatori, e che peccatori. Si sono creati una vita opulenta predicando ciò che non praticano, ma in cui in fondo in fondo forse credono anche, e questo li redime – forse un po’ troppo. Jesse tradisce la moglie fra prostitute e sniffate di coca, cosa che lo porta a venire ricattato e a cercare di nascondere tutto. Quando pentito cerca di fare ammenda con Amber si ride anche che lei lo impallini sulle chiappe (scena che non può non avermi fatto tornare alla memoria Minx che nel 1986 in Santa Barbara ha fatto lo stesso, per altri motivi, con CC Capwell). Nel rapporto personale la redenzione ci sta anche, ma per tutto quello che ne è conseguito, non si vede vera consapevolezza, da parte del programma. Tutto scivola via. Forse non conosco a sufficienza di prima mano questo tipo di realtà io, per percepirne i graffi inferti dalla serie, che qui e lì riveste le vicende di parallelismi biblici – nella funzione pasquale, Skyler come Giuda sarebbe stato evidente anche se non lo avessero in qualche modo esplicitato.  

Gli accostamenti di questa creazione di Danny McBride (Eastbound & Down, e qui interprete di Jesse) a The Sopranos e Succession hanno senso, perché sembra esserne una versione tamarra, gridata e ridicola. Si mostra quanto siano patetici, ma si fatica ad andare oltre.   

venerdì 3 luglio 2020

CHERISH THE DAY: ogni puntata un giorno di una coppia

Ha avuto il sapore di un romanzo, per me, la prima stagione della nuova creazione di Ava DuVernay (Queen Sugar, When They See Us), Cherish the Day, che racconta la vita di una coppia guardando in ciascuna puntata a un solo giorno nel corso della loro relazione – nel primo arco di otto episodi si sono coperti 5 anni. Ogni stagione intende avere personaggi diversi, e in questo senso è definita una serie antologica. Il titolo è tratto da un’omonima canzone di Sade che funge da sigla.

Nella prima tranche si è trattato di Gently James (Xosha Rochemore) ed Evan Fisher (Alano Miller). Lei è una giovane donna indipendente che ama viaggiare; si prende cura di una anziana leggenda del cinema, Miss Luma (Cicely Tyson), condannata in carriera a ruoli secondari e all’oblio in quanto nera; vive con il genitore affidatario che l’ha cresciuta, Ben (Michael Beach), ex membro di una gang e ora fattorino. Lui è un laureato di Stanford (scherzosamente lo chiamano proprio “Stanford”, come lui chiama lei “Carson” per il quartiere da cui proviene) che viene da una famiglia danarosa e che ambisce a fare successo creando una propria app.

La storia si snoda attraverso dei momenti topici – l’incontro avvenuto in biblioteca (1.01), la prima volta che fanno l’amore (1.02), la conoscenza con i genitori di lui in occasione del loro quarantesimo anniversario (1.03); la proposta di matrimonio (1.04); i preparativi per le nozze (1.05); la crisi (1.06); la terapia di coppia (1.07); il re-incontro a distanza di tempo da quando di sono separati (1.08). Quello che può essere accaduto fra un momento e l’altro sta a noi capirlo e ricostruirlo.

C’è molto realismo nel trattare il rapporto di coppia e, mettendo la  lente di ingrandimento sugli snodi e sui momenti nevralgici, si riesce a mostrare che cosa fa sì che ci siano delle svolte in una direzione o in un’altra, oltre a soppesare in che modo si costruisce ed evolve un rapporto. Viene definita una serie “romantica”, ma il motivo per cui io sono restia a definirla tale è perché a quel termine do un’accezione un po’ di edulcorazione dell’amore, cosa che qui non c’è affatto. Si guarda al rapporto, che capita sia prevalentemente di natura sentimentale-romantico-sessuale, ma è di vita in senso ampio.

Qui i due protagonisti vengono da ambienti molto diversi e parte della riflessione si poggia proprio sulla capacità di incontrarsi e di superare queste diversità, lì dove sono un ostacolo, o di farle essere motivo di arricchimento reciproco. La madre si lui, Marilyn (Anne-Marie Johnson)  non approva il rapporto (1.03). Le basta sentire che Gently non è stata al college o accorgersi che ha un tatuaggio per non vederla come una compagna adatta al figlio. Qui, nello specifico nella puntata scritta da Chloé Hung, lo spettatore lo capisce anche prima dell’interessata, grazie a un sapiente uso del non detto e da come il detto viene espresso. La differenza, e come possa costituire una difficoltà, c’è in ogni dettaglio della preparazione delle nozze. Nella puntata scritta da Sylvia L. Jones (1.05) si rende tangibile attraverso gli oggetti fisici di vita. La scelta fra possibili tipi di torta rappresenta le diversità culturali, familiari e di educazione fra i due come meglio non poteva avvenire. Il padre di lei glielo fa notare: ci sono dolci ugualmente buoni, ma sono fatti con ingredienti diversi e non tutti sono per lo stesso palato, alla fine è una questione di scelte.

Si indaga che cosa sia importante nella vita di una coppia, a che cosa dar  valore, che peso abbiano le aspirazioni di ciascuno e in che modo trovare un equilibrio. E, quasi sempre, si esaminano queste questioni nell'incontro e scontro delle due metà della coppia, messa l’una davanti all’altra con molta onestà.

Francamente non mi hanno convinto più di tanto come duo. Gli attori sono stati molto convincenti, e hanno una buona intesa “chimica” fra loro –  vedendoli ci si rende conto anche di quanto siano troppo rare belle scene d’amore per le coppie nere. In definitiva, pur capendone razionalmente le basi però, non vedevo questo grande amore, o perché l’uno dovrebbe essere così interessato all’altra. Il comportamento di lei in particolare mi irritava, di fronte a quello più accomodante di lui. Ma questa è una sensibilità personale. Non dubito che per molti possa essere l’opposto. In fondo comunque il fatto che non fosse il grande amore travolgente per cui uno fa il tifo, ma uno dei tanti amori in cui si inframmezzano le banali quotidianità e diversità di carattere penso sia il senso della serie, e in questa prospettiva non l’ho considerato un difetto.  

giovedì 25 giugno 2020

SPINNING OUT: pattinaggio su ghiaccio e disturbo bipolare



In Spinning Out (su Netflix) siamo in una innevata Idaho, negli USA. Kat Baker (Kaya Scodelario), che ha problemi di disturbo bipolare e pratica atti di autolesionismo come mordersi, è una pattinatrice di figura che ha paura di fare i salti dopo che tempo prima un errore l’ha lasciata distesa sul ghiaccio in una pozza di sangue per una ferita alla testa. Vorrebbe abbandonare tutto, ma ha molto talento e l’allenatrice Dasha (Svetlana Efremova) le propone di cominciare a pattinare in coppia con il talentuoso e danaroso Justin (Evan Roderick), che spera in una nuova compagna e che vuole riscattarsi agli occhi del padre James (David James Elliott, JAG). Anche la sorella Serena (Willow Shields) pattina e, sebbene non abbia quel quid che tutti vedono in Kat, è molto brava, ma viene spinta all’eccesso dalla madre Carol (January Jones, Mad Men), tanto da farla anche finire al pronto soccorso. Quest’ultima, che pure soffre di disturbo bipolare e spesso e volentieri non prende i farmaci, ha dovuto rinunciare ai suoi sogni olimpici quando è rimasta incinta e da un lato prova risentimento, dall’altro agogna a realizzare i propri sogni in modo vicario proprio attraverso le figlie.

Il titolo Spinning out di questa serie, ideata da Samantha Stratton, gioca un po’ sul doppio senso di roteare sul ghiaccio e di “sbandare” emotivamente: erede probabilmente delle atmosfere familiari difficili di I, Tonya non va infatti sulla favola rassicurante di principesse sul ghiaccio. Il tono è spesso piuttosto pensante. Il fulcro della storia è proprio legato alla bipolarità di due dei personaggi principali: quando la madre torna a prendere i farmaci e la vediamo “normalizzarsi” nelle reazioni comportamentali, tocca alla figlia smettere di prenderli nell’errata convinzione che la aiutino a migliorare la performance atletica, salvo poi crollare. Per quello che posso saperne dell’argomento, mi pare ben trattato, anche nel mostrare lo stigma che vi associa e che fa sì che i personaggi non si sentano di parlarne apertamente.

Un altro tema caro all'autrice e ben calibrato è la pressione delle aspettative dei genitori sui figli, e questo non solo attraverso le insistenti spinte su Kat e Serena, ma anche attraverso gli occhi  di Jenn Yu (Amanda Zhou) che per non deludere i genitori continua ad allenarsi nonostante problemi all’anca, contro le indicazioni dell’ortopedico e nonostante rischi di perdere così anche la capacità di camminare. È un tema che emerge sempre più spesso ultimamente (penso ad una storia di Sex Education sul nuoto) dove appunto si sottolineano non tanto gli enormi sacrifici personali a cui gli sportivi si sottopongono nel perseguimento di un proprio obiettivo, come ci hanno tanto abituati gli anime giapponesi degli anni ’70 e ’80, ma il pungolo delle persone care che hanno investito economicamente e emotivamente nel successo della propria prole e il fardello che questo, senza che spesso se ne avvedano, costituisce per i figli.

Molti anni fa ho letto la biografia della pattinatrice Ekaterina Gordeeva, My Sergei (qui su Amazon). Una delle cose che ricordo mi aveva colpito era stato sentirle dire come era pratica comune nel pattinaggio di coppia che i maschi facessero cadere di proposito le femmine nei sollevamenti. Qui non si vede mai nulla di tutto questo. Justin e Kat, che hanno una storia sentimentale a intermittenza, sono sempre professionali sul ghiaccio. Una problematica a cui si è invece alluso molto, cosa che mi fa pensare che accada più di quanto io non ne fossi consapevole in modo esplicito e che probabilmente emerso di più in tempi recenti, è il possibile abuso (o quanto meno molestia) da parte degli allenatori nei confronti delle ragazze (o ragazzi) che si prendono a carico. Qui gli allenatori hanno comunque ruoli semi-genitoriali, come si dice accada spesso in quel mondo: sia nel caso di Dasha nei confronti di Justin, che ha perso la madre, sia nel caso dell’allenatore di Serena, Mitch (Will Kemp). Quest'ultima, che nel vortice dei drammoni familiari rimane abbandonata un po’ a se stessa, finisce comunque vittima di un predatore, ma non il suo coach.  

Anche altre storie minori - Dasha che ha  perso i contatti con l’amore lesbico di tanti anni prima; la matrigna di Justin, Mandy (Sarah Wright Olsen) che tiene segreta al marito una precedente gravidanza; Marcus (Mitchell Edwards), l’amico di Kat impiegato nel ristorante dove lei lavora come cameriera – non aiutano ad alleggerire la tensione e sanno troppo da riempitivo. E nel caso di Marcus, che rinuncia a una borsa di studio in medicina per entrare nella squadra di sci, si ha troppo la sensazione che sia un segnaposto per avere un nero nel cast, quando si poteva riflettere proprio sul fatto che è un mondo molto bianco, da cui storicamente effettivamente  i neri sono stati tagliati fuori. Anche solo mostrarlo una volta con degli sci, invece che sempre e solo al bar a servire cocktail, avrebbe potuto renderlo più credibile.

Non ci sarà una seconda stagione. Va bene così. Intrattiene, ma si può passar oltre.

sabato 20 giugno 2020

THE BAKER AND THE BEAUTY: cancellata



È stata cancellata dopo i soli nove episodi della prima stagione The Baker and the Beauty (ne ho parlato qui). E sta cercando casa altrove. Solitamente, non degnerei di un secondo post una serie che in fondo è solo una favoletta da piacere colpevole. Il motivo per cui lo scrivo è perché l’impressione in chiusura è molto diversa da quella che ho avuto dopo il pilot.

La forza della serie non sta minimamente nella coppia centrale per la quale dovremmo tenere, ovvero quella di Noa-non-sai-quanto-è-duro-essere-ricchi-e-famosi-Hamilton (Nathalie Kelley) con l'Anthony-Bourdain-wannabe, il pasticcere Daniel (Viktor Rasuk), due bambolotti piatti che sulla carta dovrebbero funzionare, ma sullo schermo sono troppo costruiti.

Chi funziona sono gli altri, i comprimari. Il fratello Mateo (David Del Rio), con una vera passione per la musica, fa faville con la ex di Daniel, Vanessa "Princesa" (Michelle Veintimilla), Vanessa la Principessa, come la chiamano. Entrambi sono stati veramente molto bravi a recitare la non riconosciuta ma crescente attrazione reciproca, esplicitata nelle puntate finali. E lei, che tanto una cattiva impressione faceva nel pilot, si è rivelata uno dei personaggi migliori, tosta e sincera, una brava persona in una difficile circostanza, multidimensionale. Per loro si fa il tifo che stiano insieme.

I genitori (Lisa Vidal e Carlos Gómes) hanno il sapore di modelli a cui aspirare che ricordano le vecchie serie: si amano a dispetto dei possibili litigi e sono presenti e di sostegno per i figli. Hanno costruito una famiglia nel senso più bello del termine: persone che si amano e cercano di esserci le une per le altre. Posso anche dirlo, per quanto sdolcinato suoni: sembra la mia sotto quel profilo.

E la sorella Natalie (Belissa Escobedo), che si è scoperta lesbica, deve navigare questa nuova realtà. Per qualche ragione, mi pare che nella cultura ispanica si tratti più l’omosessualità da un versante femminile che non maschile, ma forse è una mia errata percezione. Però l’ho notato, e mi chiedo se ci sia un fattore culturale dietro. In ogni caso, si mostra la crescita di una giovane adolescente, il fatto che chi ama e da chi è attratta sia una donna è solo una parte della storia.

Non mi dispiacerebbe che la serie venisse recuperata da qualcun altro, perché è gradevole a sufficienza, però appunto, concentrerei l’attenzione altrove.

domenica 14 giugno 2020

WORK IN PROGRESS: 180 mandorle di vita

Work in progress è trasmessa dall'americana Showtime. Siamo a Chicago. Abby (Abby McEnany) è una 45enne “queer, mascolina e grassa “ – così si auto-identifica – che a questo punto della sua vita è talmente infelice da essere suicidaria. Una collega sul posto di lavoro le sbandiera delle mandorle, suggerendogliele come modo per dimagrire, sapendo che lei, senza successo, sta cercando di perdere peso. Quasi per ripicca se le compra con l’idea che rappresentino i giorni della sua vita. Ha deciso di concedersene 180, una al dì, e se per quando saranno terminate non sarà cambiato qualcosa, la farà finita. Il titolo delle puntate corrisponde al numero o ai numeri delle mandorle a cui è arrivata. 

Un giorno Abby esce a pranzo con la sorella maggiore Alison (Karin Anglin) e rimane molto colpita dal un ragazzo trans, 23 anni più giovane di lei, Chris (Theo Germaine), uno  spirito libero molto sicuro di sé. Anche lui è intrigato da lei, e cominciano una relazione. Abby ha come figura di riferimento e di supporto l’amica di lunga data Campbell (Celeste Pechous). Nel cast c’è anche Julia Sweeney che interpreta se stessa. Abby più volte nella vita è stata paragonata a un suo personaggio androgino del Saturday Night Live, Pat, fonte di molto dolore per lei, e non ce l’ha in simpatia, finché non la conosce di persona.

Fulcro portante delle serie è l’accettazione di sé: Abby non si piace, soffre di ansia, attacchi di panico e di disturbo ossessivo compulsivo, sembra non riuscire mai a trovare un luogo dove è accettata completamente per quello che è e si aspetta sempre che, nel rivelarsi autenticamente, sia destinata ad allontanare le persone.

Ha un aspetto decisamente butch, e il fatto di essere gender nonconforming, quindi di non conformarsi allo stereotipo del genere sensuale di appartenenza, la mette costantemente in situazioni emotivamente devastanti. Non è mai tanto chiaro come quando non riesce a trovare un bagno pubblico (1.04) in cui possa andare a fare i propri bisogni senza vedere che le donne la scambiano per un uomo e chiamano la sicurezza. Accade perfino nei locali per lesbiche. Semplicemente il mondo non è fatto per lei, e questa estraneità è un affronto continuo alla sua identità. E il suo essere altro è talvolta anche percepito come una minaccia. 
  
Tiene costantemente un diario – ne ha uno sgabuzzino pieno – in cui scrive di quello che le capita nella vita. Mostrarlo agli altri, confessarsi, è un passo enorme, che in passato le è costato caro. La serie, con periodici flashback, ci riporta a quando lei era più giovane per mostrarci la reiterazione di certe esperienze nella sua vita, per farci capire perché ora è quella che è. Sono proprio le paure che poi la minano ulteriormente: il terrore di rivelare a Chris un incidente involontario che teme lo allontani è quello che alla fine lo allontana (1.07). Profezie che si autoavverano.

Le sue ferite aperte sono quello che la serie ci mostra. Mi arrabbio ogni volta che la vedo sullo schermo gettare le mandorle nella spazzatura – considero immorale buttare via cibo perfettamente edibile per nessuna valida ragione.  Soprassedendo su questo aspetto, è narrativamente potente, anche perché minimo e strisciate, vedere che, rapidamente, getta via quei semi, che sono giorni, momenti di vita che se ne vanno, anche quando la presenza nella sua vita di Chris dovrebbe averla resa più gioiosa – e lo ha fatto. Sono il ricordo costante, anche quando sembra normale, che nella testa ha il costante pensiero di farla finita.

Una relazione nuova per Abby, che in passato non ha mai frequentato uomini trans, è una scoperta. C’è qualcosa di dolce e puro nel loro rapporto. L’ho guardato anche con un certo stupore, per il coraggio di una coppia che apparentemente non ha molto in comune, e che ha numerosi ostacoli, anche legati all’età. Eppure funziona. Eppure è un avvicinamento naturale, di scoperta e di apprezzamento reciproco.

Grazie anche al personaggio della Sweeney, si riflette molto sulle implicazioni della rappresentazione, sul diritto a parlare in prima persona della propria storia e su come possa essere una questione di equità sociale. Non ci sono molti personaggi come Abby sul piccolo schermo, e nel guardarla mi accorgo di quanto ce ne sia bisogno. Anche solo vederla. Mette a fuoco il mondo in modo più vero, più umano, più onesto. In chiusura (1.10) c’è uno scontro proprio rispetto a questo tema. Julia ha invitato Abby a uno spettacolo teatrale in cui di nuovo veste in panni di Pat (un personaggio che sul serio la Sweeney ha interpretato), ed è entusiasta di mostrarle che non lo fa con derisione, ma auto-consapevole di sé e dei propri punti deboli. Abby lo considera illusorio e rovinoso, e le rinfaccia di non aver capito nulla e di non averla interpellata. Se è inevitabile che chiunque abbia una propria prospettiva sulla vita degli altri, non bisogna prescindere dalla prospettiva primaria di chi quella vita la vive in prima persona: è una voce necessaria, da ascoltare.

Ideata dalla McEnany, da Tim Mason e scritta da entrambi e da  Lilly Wachowski, si tratta di una serie comica, e ci sono momenti in cui si ride di gusto, a partire dai primi minuti, in cui vediamo la protagonista dalla propria psicoterapeuta, fino alla finale (1.10) quando la protagonista prende in considerazione vari modi per farla finita. Un personaggio minore, King (Armand Fields), le ricorda che “everybody is fucked up – tutti sono un casino” (1.07) Si dice che l’umorismo migliore venga dai momenti di dolore, e qui viene proprio da lì. Anche per questo ha un sapore feroce, a volte; nella crudezza dei punti dolenti forse la risata è il solo balsamo, la sola occasione catartica.

La stagione termina con Abby emotivamente al peggio possibile su più fronti – perfino in modo esageratamente forzato in quella direzione, mi è parso – ma per chiudersi in modo sensato e commovente. ATTENZIONE SPOILER. Non ha più mandorle. Chris la lascia, ma non per il litigio avuto, ma perché non si sente di affrontare la responsabilità di essere la sola ragione che la tiene in vita. E le consegna in una busta quello che a sua insaputa le aveva rubato il primo giorno in cui si erano incontrati: una mandorla. Inaspettato (almeno per me) e magnifico.

È stata confermata una seconda stagione di 10 episodi.  

sabato 6 giugno 2020

UNORTHODOX: l'ultraortodossia ebraica in una potente miniserie


Delicata e potente, Unorthodox (Netflix) ha più il sapore di un film esteso che di una miniserie, ma in fondo poco importa, rimane sicuramente un successo estetico-narrativo indipendentemente da come la definiamo.

Tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman, Unorthodox: the Scandalous rejection of my hasidic roots (Ex-ortodossa: il rifiiuto scandaloso delle mie origini chassidiche, Abendstern Editore, 2019), racconta le vicende di Esther Shapiro (Shira Haas), detta Esty, una diciannovenne cresciuta nella comunità ebraica ultraotodossa chassidica Satmar di Wiliamsburg, a Brooklyn, New York, che, infelice nel matrimonio combinato con Yanky (Amit Rahav), completamente soggiogato alla propria genitrice, decide di scappare e lasciarsi tutto alle spalle per andare a Berlino, dove abita la madre (Alex Reid) che, lesbica, aveva respinto l’ambiente in cui era cresciuta e a sua volta era stata respinta dai familiari anni prima, che la definivano “pervertita”. Esty fa presto amicizia con un gruppo di ragazzi concertisti e, con una grande passione per la musica lei stessa, che la commuove fino alle lacrime, decide di fare domanda per una borsa di studio. Il marito la raggiunge per riprendersela, con l’aiuto del cugino Moishe (Jeff Wilbusch), mentre a casa rimangono la nonna (Dina Doron) e la zia (Ronit Asheri), che l’hanno cresciuta.

Scritta da Anna Winger (Deutschland 83) e Alexa Karolinski, con buona parte dei dialoghi in yiddish, e diretta da Maria Schrader, suppongo che si possa dire che è una storia costruita con una serie di flashback, ma in realtà io non l’ho vissuta così. Ci sono due narrazioni parallele, una del tempo presente, una relativa alle vicende passate, che si intersecano, attorcigliandosi l’una sull’altra. Quello che è accaduto, non è un tornare con la memoria a cose del passato, è materia concreta del presente. È quello che fonda e dà ragione dell’oggi così come viene vissuto, in modo molto pregnante, non distaccato.

Si denuncia una società che impone vincoli non necessari e mantiene nell’ignoranza, mostrandolo attraverso il dolore e l’ingenuità di chi ne è vittima. E non potrebbe esserci di fatto modo più efficace. Questo perché si rispetta la fede e la credenza di chi quel tipo di vita l’ha scelto, però non si chiudono gli occhi dinanzi agli effetti che ha. C’è molta dignità nel mostrare una giovane donna nei suoi momenti più vulnerabili e umilianti anche. Qui si parla di una comunità ebraica, ma in alcuni passaggi, ad esempio quando Esty si reca a una festa in un club, non ho potuto non pensare la comunità Amish, che manda i propri giovani a sperimentare la vita esterna volontariamente, prima di rinunciarvi per rimanere nella comunità. Qui questo tipo di opzione non è contemplata.

Fa tenerezza vedere come ci può essere inconsapevolezza in cose che noi diamo per scontate, come non fosse necessario fare un percorso di apprendimento, quando invece c’è. Quando la protagonista mangia un panino e si rende conto che c’è dentro del prosciutto, corre fuori dal locale pronta a vomitare, perché le hanno sempre detto che l’avrebbe fatta stare male. Ovviamente non succede. Lei però è talmente culturalmente condizionata, e così ignorante del mondo esterno, che non sa che è un’imposizione esterna. Ed è sbalorditivo osservarlo per chi quelle cose le dà per naturali. Io non ho letto il libro da cui questa miniserie è tratta, però, in un parallelismo, questa scena mi ha fatto pensare al libro Educated di Tara Westover, dove pure in virtù di principi religiosi si vive una vita al margine, schermata dalla realtà ordinaria delle persone circostanti. Si vede l’abuso che perpetra il mantenere le persone volontariamente all’oscuro. Si riflette molto piuttosto sull’utilità, sulla necessità di essere diversi, cosa che questa giovane donna vede di se stessa, su come la possibilità di esserlo sia uno dei fondamenti dell’essere liberi: due termini (diversa, libera) che ricorrono sulla bocca della giovane ebrea. 

Si mostra efficacemente che l’oppressione delle donne, che qui è messa in scena, è un danno per tutti, non solo per le donne stesse, qui limitate al loro ruolo di mogli e madri con il compito di “ridare la vita a sei milioni di vittime”, perseguitate dalla memoria dell’Olocausto, evocato anche dall’ambientazione berliniana. Però, pur essendo evidentemente Esty l’eroina della storia, la protagonista centrale, c’è molto tatto nel trattare anche i comprimari. In particolare il marito, viene visto lui stesso come una brava persona che cerca di essere al suo meglio, e di trattare con amore la donna della sua vita, per quello che gli è stato insegnato. Spezza il cuore almeno quanto l’infelice situazione della protagonista.

È una storia molto femminile, comunque. Non ricordo di aver mai visto, cosa strana a pensarci bene, una storia di vaginismo in televisione (forse in Masters of Sex?), o quantomeno una storia così approfondita su questo tema. Forse sarà capitato in modo tangenziale, ma non in modo così significativo come avviene qui nella terza puntata. E l’ho trovato affascinante, perché sicuramente, soprattutto lì dove non c’è la possibilità di affrontarlo apertamente, è stato un problema coperto dal silenzio per molte donne nella storia. 

Un articolo sulla rivista ebraica Forward (qui), scritto da Frieda Vizel, che critica in modo molto negativo ma interessante la rappresentazione, definisce uno stupro la prima volta che Yanky penetra Etsy. Non condivido questa lettura. Non credo che né legalmente né moralmente possa definirsi tale, nel senso che c’è a tutti gli effetti consenso. Anzi, lei insiste proprio che lui lo faccia di fronte allo scrupolo di lui. È evidente che per lei è una esperienza atroce e dolorosa, una violenza che lei prima di ogni cosa impone a se stessa. Se proprio stupro vogliamo definirlo è uno stupro culturale, che impone questo tipo di comportamento. E il fatto che Yanky se lo sia solo goduto, apparentemente disinteressato all’esperienza della moglie che gli era prima sotto e poi a fianco, lo rende nel contesto della scena solo umano. Anche la presunta eccessiva facilità, rimproverata dalla Vizel, con cui la protagonista avrebbe superato tutto, quando in seguito fa sesso, trovo non sia stato inverosimile,  perché il senso è proprio quello: il rapporto fisico è una cosa bella e naturale se lo vuoi e lo desideri, non se ti viene importo per regola come qualcosa a cui devi sottometterti a comando.

Sono poi illuminanti, come chiave di lettura della serie, le parole dell’autrice del libro, in un’interista al New York Times, che richiamano una tematica affrontata anche da The Handmaid’s Tale, ovvero sul ruolo delle donne nell’oppressione delle altre donne. Dice (nella mia traduzione):


Ricordo di essere rimasta sorpresa quando sono andata al Sarah Lawrence [college], e ho seguito un corso di filosofia femminista in cui tutti mi dicevano: "Hai lasciato il patriarcato! Ho pensato: "Beh, se ho lasciato il patriarcato, dove erano tutti gli uomini in questo patriarcato? Perché erano sempre piegati sui libri mentre le persone che mi opprimevano erano donne? Perché le persone che mi facevano più male erano mia zia, mia suocera, le insegnanti, l'assistente di mikvah, l'insegnante di Kallah e la terapista sessuale? Perché sono sempre state le donne che mi hanno ferita e tradita? Avevo così poca interazione con gli uomini, e quel poco che ne avevo me li aveva fatti vedere come molto passivi e bloccati.

Credo che questo traspaia dalla narrazione, anche se probabilmente non è oggetto di specifica riflessione.

In un certo senso il finale rimane irrisolto, capiamo il tipo di scelta che fa la protagonista, ma non abbiamo una risoluzione esplicitamente dichiarata rispetto tutto quello che le accadrà. E questo l’ho trovato molto vero, molto bello, molto europeo. La produzione è tedesca.