venerdì 27 marzo 2020

LIVING WITH YOURSELF: gravedole ma superficiale


In Living with Yourself (Netflix), Miles (Paul Rudd) è un uomo maturo insoddisfatto di se stesso e della vita: è un copywriter in una agenzia pubblicitaria, ma ormai ha perso lo stimolo creativo di un tempo, e sebbene innamorato della moglie Kate (Aisling Bea), un’architetto d’interni, il rapporto è ormai piuttosto statico, annoiato. Non riescono ad avere figli e lui non si decide mai ad andare alla clinica di fertilità dove lei ormai da tempo lo spinge a recarsi.  Un collega gli segnala una spa che gli ha cambiato la vita, un centro per migliorare le stesso. Vi si reca e presto si scopre il fattaccio: lo hanno clonato in modo tale da creare una perfetta copia di se stesso solo geneticamente migliorata, ma qualcosa è andato storto, e adesso ci sono due versioni di sé, quella vecchia e quella nuova.

La premessa di questo dramedy fantascientifico, spassosa ma allo stesso tempo con una potenziale gravitas esistenziale non indifferente, non riesce a realizzare il proprio potenziale. La commedia e la tragedia del trovarsi faccia a faccia e del confrontarsi non solo con se stessi, ma con una versione migliore di se stessi, con il sé che si sarebbe voluto ma non si è riusciti ad essere, avrebbe potuto essere migliore di così.

Counterpart con questo stesso tema è riuscito a dire dolorose e delicate verità in modo molto più brillante. Qui si echeggia Maniac, nel desiderio di una “soluzione facile” al miglioramento di se stessi, e non si riesce né propriamente a far ridere, né a riflettere più di tanto su un altro sé, se non molto tiepidamente, e più che altro sulla logistica di convivere nella stessa realtà. The Good Place  nel meditare su come essere persone migliori, ha pescato filosoficamente più a fondo senza mettere in piazza la modifica posticcia di qualche gene.  

Paul Rudd è molto convincente nel recitare con se stesso  - un’impresa non certo facile – e la trama fila via spedita e lineare. Non ci sono esuberi narrativi di cui si sarebbe fatto a meno. La conclusione pure è piuttosto appagante e lascia spazio a una seconda stagione. Solo, questa creazione di Timothy Greenberg ha poca sostanza.

Miles si rende improvvisamente conto di comportamenti che metteva in atto che erano negativi, e sviluppa un nuovo apprezzamento per la vita e i rapporti che aveva, riscopre le passioni passate (ad esempio scrivere teatro) È anche critico del suo sé migliorato, ha occasione di riflettere sul tipo di uomo che è stato nel suo matrimonio, ma fuori da queste osservazioni abbastanza superficiali non ci sono grandi epifanie, pregnanti rivelazioni. Questa è la più grande pecca di uno show che è stato una visione gradevole, ma che dubito continuerei.

mercoledì 18 marzo 2020

THE MANDALORIAN: "Star Wars" allarga il franchise


Ammetto che la sola vera ragione per guardare The Mandalorian per me è l’adorabile coccolosissimo personaggio che ha finito per essere conosciuto come Baby Yoda, in realtà ufficialmente “the child”, il bambino – o la bambina, di per sé. Sono stata attenta al pronome, e la serie per alcune puntate si è mantenuta sul neutro “it”, cosa che mi ha fatto spesare potesse essere una femmina, usando però in seguito “he” cosa che quindi fa ritenere che sia un maschio. Già è prevista una pletora di giocattoli e gadget con il tenero personaggio e già li voglio, segno che hanno saputo fare il loro gioco molto bene, tanto più considerato anche che sono una spettatrice che ha quasi l’età di Baby Yoda, ovvero 50 anni; immaginarsi il successo con i più giovani. 

Afferente al franchise di Star Wars, e in effetti conosciuta anche come Star Wars: The Mandalorian, questa creazione di Jon Favreau per la neonata Disney+ (in Italia a partire dal 24 marzo 2020) è ambientata cinque anni dopo le vicende de Il Ritorno dello Jedi e 25 anni prima de Il Risveglio della Forza, leggo online per quelli per cui questi riferimenti hanno un senso. Non per me, ammetto, che ho visto Guerre Stellari quando è uscito, e questo è quanto. Sicuramente a conoscere la mitologia della saga, ci si gode tutto di più, ma posso confermare, da ignorante, che si riesce a seguire tutto benissimo anche ignorandola.

Protagonista è un cacciatore di taglie mandaloriano, chiamato Mando (Pedro Pascal), ovvero un appartenente a un popolo guerriero in cui da piccolo è stato adottato dopo aver perso i propri genitori. Secondo il loro credo, devono indossare sempre, e togliere davanti a nessuno, un elmo che nasconde il loro volto (durate la prima stagione noi stessi lo vediamo una sola volta), perché “this is the way” (“questa è la via” letteralmente, o “questo è il modo”, non ho idea al momento del mio scrivere di come verrà tradotto), come recita il loro motto. Con le ricompense che guadagna cerca di forgiare una nuova armatura.

Uno dei primi incarichi che Mando riceve dal Cliente (Werner Herzog) è proprio quella di portargli quello che si scopre essere il Bambino, questa creatura verde con grandi occhi e orecchie che emette suoni strani e che tanti scambiano per un animaletto domestico, con tanto di futuristica culletta volante, apparentemente inerme, ma già in grado di usare la Forza che gli permette di avere notevoli poteri. Nel timore che il piccolo possa fare una brutta fine, contro le regole, il Mandaloriano lo prende e protegge portandolo con sé. Ne diventa così una sorta di padre affidatario. L’obiettivo è quello di riportarlo alla sua gente.

Ricchissimo di una mitologia che fa evidentemente riferimento a un canone già molto ampio e definito, questo space western non può contare su chissà che dialoghi o approfondimenti psicologici, ma su tanta azione e avventura. C’è il fondo metaforico di bene e male su cui regge l’impalcatura, c’è un rinnovo della tradizione dello stoico eroe solitario, qui umanizzato e addolcito da una volontaria paternità (presumibilmente un tema già caro in altri "capitoli" delle vicende), il codice d’onore di una cultura di appartenenza, i parallelismi fra la vita del protagonista e del suo protetto, lealtà e sacrificio, guerra…le storie sono di una semplicità disarmante, e diverse puntate, fatte di sparatorie, agguati e scontri, non elicitano chissà quali riflessioni. Forse sono troppo poco imbevuta delle finezze della storia madre per vederle io qui. Né la narrazione, né l’aspetto visuale mi incoraggiano a rivisitare la serie oltre la prima stagione, che è comunque spensieratamente gradevole se accedo alla pre-adolescente che è in me. Sul successo di pubblico non ho dubbi, in ogni caso.  

Affascinanti i titoli di coda, che riprendono le vicende della puntata e le ripropongono in modalità fumetto.

lunedì 9 marzo 2020

SEX EDUCATION (2.05): punti di scarso piacere


Amo Sex Education, e penso che abbia confezionato una magnifica seconda stagione, come ho avuto modo di scrivere nel mio post in proposito. Purtroppo però non sono mancati gli scivoloni. Penso a una storia del quinto episodio (2.05), scritto da Alice Seabright, piena di errori su tutta la linea. Jean (Gillian Anderson) tiene a casa sua un seminario rivolto ad un gruppo di donne sui “punti di piacere all’interno della vagina”.

Punto primo, mi rendo conto che nell’usare un modellino in plastica delle pudenda femminili (come da immagine che è un fotogramma della puntata),  si usa quello che si trova sul mercato, ma nell’indicare il clitoride, che qui sembrava una specie di chiodino e che per ragioni umoristiche si commenta non essere estraibile nella realtà, si poteva magari cogliere l’occasione proprio per ricordare come se ne conosca poco la forma, tanto che molti non lo sanno riconoscere. Se le scuole francesi dalle elementari alle superiori possono avere primo clitoride 3D open-source al mondo, anatomicamente corretto, utilizzato per l'educazione sessuale nelle scuole (si legga qui sul Guardian in proposito), sicuramente potrà permetterselo anche la produzione della serie.

Punto secondo, se si parla di punti di piacere all’interno della vagina, non si può sicuramente partire dal clitoride, che non fa parte della vagina, ma semmai della vulva. Ora, anche qui, sono consapevole che nel linguaggio si usi regolarmente ‘vagina’ per intendere ‘vulva’, ma sono altrettanto consapevole che il fatto che farlo regolarmente non lo rende corretto. Non solo, culturalmente è molto criticata questa riduzione che è storicamente vista come una visione patriarcale intesa a dare valore solo al piacere maschile e non a quello femminile (che può esserci anche senza il coinvolgimento della vagina). Non serve avere chissà quali approfondite conoscenze femministe o di critica freudiana o chi sa che cosa. Sono le basi, proprio. E qui proprio non ci sono. Un delitto in una stagione che mi sembra abbia cercato di dare un peso maggiore alla parte femminile della sessualità.

Punto terzo. Il personaggio in questione è una sessuologa professionista che trova ragionevole lasciare il gruppo a cui sta facendo lezione per una litigata a latere con il compagno che sta installando in cucina delle mensole. Sebbene sia chiaro l’intendo umoristico, è stato fuori luogo e professionalmente svalutante per il personaggio. È stato imbarazzante, ma per le ragioni sbagliate.

Punto quarto. Si sta parlando di piacere femminile e di scoperta dell’anatomia femminile. Quando Jean rientra dal suo alterco con il compagno e riprende la lezione, subito prima di staccare su un’altra scena e situazione, invita la compagnia muliebre a tirare fuori degli specchietti. Uno evidentemente si immagina che, secondo quanto si faceva già negli anni ’70 se non prima, si guarderanno poi le proprie parti intime. Tutto  bene. Ma allora perché quando la moglie del preside, che poco prima aveva manifestato la preoccupazione del fatto di essere molto arrugginita, per così dire, si sente l’esigenza di dire quasi sottovoce  “Venga a trovarmi dopo, ho una cosa che potrebbe aiutarla”? Quella cosa che poteva aiutarla, lo vediamo in seguito quando questa lo usa, è un semplicissimo vibratore. Vuol dire che per tutte le altre che erano lì quell’oggetto non era contemplato? Ma andiamo! Va bene che per una ragione di costi non poteva magari regalarne uno a destra a manca, ma in un corso del genere esce una domanda di questo tipo e lei non coglie la palla al balzo per parlarne a tutte? Ma che corso è? Di questi tempi è già tanto che non sia una marca di vibratori a sponsorizzarglielo.   

Punto quinto. G. No, così, giusto per battuta. Almeno quello ci rimane. Non ho altre obiezioni. Le quattro sopra direi che sono più che sufficienti. E con qualcun altro si poteva anche soprassedere, con questa serie proprio no.  Non sono stati punti di piacere, posso dirlo.

lunedì 2 marzo 2020

SEX EDUCATION: la seconda stagione

Ha convinto al pari della prima stagione la seconda tranche di Sex Education (Netflix), capace di essere piena di verve e umorismo, ma contemporaneamente di riuscire a trattare tematiche molto serie e rilevanti.

Si riprende con il protagonista adolescente Otis (Asa Butterfield) che finalmente ha superato la propria incapacità a masturbarsi. Sebbene venga rassicurato che è normale e sano farlo, ora ha l’impressione che il suo corpo abbia preso possesso di lui e si rende conto non solo che ha molto da imparare, ma che sebbene abbia tanta esperienza teorica ne ha poca di pratica, e questo è un nuovo terreno di esplorazione per lui. Convinto di essere bravissimo nei ditalini (2.02) alla sua ragazza Ola (Patricia Allison), rimane presto deluso nello scoprire di non esserlo. Qui, e cosa importante proprio attraverso questo personaggio che parecchio ne sa, ma anche attraverso altri (in 2.06 con il tema delle docce anali, ad esempio), si insegna a mio avviso una delle lezioni più importanti di tutte: nessuno “nasce imparato” come si suol dire, e anche nel sesso, come in altri aspetti della vita, c’è un percorso di apprendimento.

Si è parlato della necessità di ascoltare il proprio partner (2.02); si è mostrato che sono tematiche che interessano tutti a tutte le età, con la moglie del preside, Maureen (Samantha Spiro), timorosa di manifestare la propria insoddisfazione; si è fatto vedere che ci si può pensare in un modo per poi scoprire che la propria identità sessuale è diversa da quella che si immaginava, con Ola che si rende conto di essere pansessuale (2.05); si rassicura sul fatto che il sesso è solo una parte della vita e che per qualcuno può non essere importante, dando visibilità e sollievo a un personaggio asessuale (2.04); si è dato più peso rispetto alla prima stagione alla sessualità femminile, accennando anche a situazioni come vaginismo e perimenopausa (2.08); non si è avuto timore di dire, cosa che dovrebbe essere scontata ma non lo è, nella esigenza di rendere educative e scientifiche le conversazioni, che una componente importante è il piacere… A fronte di vergogna e cattiva comprensione, la madre di Otis che è sessuologa, Jean (Gillian Anderson), che si trova a lavorare come consulente per la scuola del figlio, vuole offrire fiducia, dialogo e verità. E astutamente la serie si “autodenuncia” portando alla luce la non eticità di quello che il protagonista adolescente ha fatto finora, ovvero fare consulenza a pagamento ai compagni.   

Nonostante qualche scivolone (a stretto giro pubblicherò un post apposito su questo), una grande forza della serie sta nel riuscire a fare davvero educazione sessuale. Magari riferire informazioni puramente mediche, come il fatto che la clamidia si trasmette attraverso lo scambio di fluidi sessuali (2.01), è anche sufficientemente semplice, e la brillantezza nel trasmetterlo è stata nel fatto di riuscire a renderlo umoristico, con tutta la scuola presa dall’isteria in proposito.

Ma si è anche stati davvero eccellenti con informazioni decisamente più umanamente complesse, con risvolti psicologici che richiedono sicuramente più finezza intellettuale.  A questo proposito non posso non applaudire la vicenda che ha coinvolto la dolce Aimee Gibbs (Amiee Lou Wood). Prende l’autobus (2.03) e uno dei passeggeri si masturba eiaculando sui suoi jeans. Lei prende la cosa alla leggera, apparentemente più seccata di aver rovinato uno dei migliori capi di abbigliamento che ha, che altro. Maeve (Emma Mackey) però la convince a sporgere denuncia. Nei giorni successivi la ragazza ha il terrore di prendere l’autobus. Si fa chilometri a piedi pur di non rimettersi nella stessa situazione e comincia a vedere il molestatore in ogni dove, mettendola in crisi nei suoi rapporti personali con l’altro sesso. L’intelligenza e la forza di questa storia stanno nel mettere in scena una situazione in fondo minore – non c’è stata propriamente un’aggressione, uno stupro o chissà che altro – e di mostrare come possa impattare fortemente in negativo la vita di una donna. La storia è diventata ancora più potente, e con echi più vasti, facendola diventare un’occasione di solidarietà femminile. Un gruppetto di ragazze viene messo in punizione e quello che devono fare per uscirne è fare una presentazione su quello che le lega come donne (2.07). Non c’è molto, scoprono, ma per tutte loro ci sono state attenzioni sessuali non richieste e sgradite: una è stata palpeggiata, un’altra seguita, un’altra ancora esposta alla visione delle parti intime di uno che frequentava la piscina dove aveva dovuto rinunciare ad andare, un’altra è stata molestata verbalmente…Se, per sostenere la compagna, decidono tutte insieme di salire sull’autobus e farle passare ogni timore, si denuncia il fatto che due terzi delle minorenni si trovano a dover gestire situazioni similari.

Non ho problemi particolari ad ammettere che #metoo, io stessa ho vissuto prima della maggiore età più di uno degli esempi qui descritti. In particolare mi sono travata proprio in una circostanza che presenta dei parallelismi con quella di Aimee, sebbene fosse in parte diversa e sebbene io fossi considerevolmente più giovane di lei. Forse anche per questo mi ci sono fortemente identificata: ho sperimentato la paura di trovarmi alla fermata dell’autobus, l’idea che poteva essere chiunque ad aggredirmi, la sensazione di non essere mai al sicuro…proprio come è stata descritta qui. Io quei paralizzanti timori me li sono portati dietro per anni e mi hanno condizionata. Sono, in effetti, esperienze comuni, ma non so se mi sia capitato altre volte di riconoscermi così autenticamente in una storia come in questo caso e vederlo rappresentato così mi è sembrato qualcosa di grande, di rilevante, di necessario. E non è stato pesante, ci si è anche riso su.     
      
Ci sono stati altri begli intrecci di plot con spessore: quello dell’amore contrastato fra Otis e Maeve, con il difficile rapporto di lei con la madre. E uno degli aspetti più mirabili nella costruzione di Otis si è avuto esplicitato dalle parole della compagna Ola: cerca così fortemente di comportarsi bene che finisce involontariamente a ottenere l’effetto opposto. Si è ragionato sulla mascolinità (con il preside Groff e il padre di Otis) e sull’omofobia interiorizzata verso se stessi attraverso la storia di Adam (Connor Swindells) e il suo rapporto con Eric (Nguti Gatwa), coinvolto in un bel triangolo con il nuovo arrivato Rahim (Sami Outalbali). La pressione, anche involontaria, dei sogni e delle aspettative dei genitori verso i figli è stata ben incarnata dalla storia di autolesionismo di Jackson Marchetti (Kedar Williams-Stirling), e si è costruita una bella amicizia fra lui e Viv (Chinenye Ezeudu).

Si è detto molto insomma, con uno stile fresco e accattivante. Già non si vede l’ora della terza confermata stagione.

lunedì 24 febbraio 2020

THE CROWN: la terza stagione


La terza stagione di The Crown si concentra sugli anni della Corona britannica fra il 1964 e il 1977.  Forse complice il fatto che dall’uscita della precedente sono passati molti mesi, ma il completo rinnovo del cast dei protagonisti, per invecchiarlo, è avvenuto in modo naturalissimo e privo di sforzo. Non solo il casting è stato quanto mai azzeccato e ci siano state molte dimostrazioni di bravura da parte di tutti, con interprestazioni molto sottili, è perfino incredibile quanto sembrino di fatto le stesse persone che abbiamo seguito in passato.

Nella prima puntata (3.01) si riflette da subito sull’invecchiamento: la regina guarda il nuovo francobollo con la sua effige, a confronto con quella passata. È una sovrana più matura questa, non più disorientata ma ormai sicura del suo ruolo, consapevole dell’inevitabilità di certi cambiamenti. Olivia Colman che la interpreta ora (premio Oscar per La Favorita) è estremamente espressiva e anche meglio della sua predecessora riesce a trasmettere i mutevoli sentimenti che ribollono sotto la superficie del suo volto. Churchill muore, c’è un nuovo primo ministro, Harold Wilson (Jason Watkins, A Very English Scandal), con cui all’inizio c’è un atteggiamento di sospetto, poi sviluppatosi in stima reciproca. Il filtro dell’arte, di cui i reali non si intendono, ma di cui si preparano a presentare una mostra di capolavori appartenenti alla Casa Reale, dà una preziosa opportunità di lavorare in termini metaforici, anche in modo esplicito nella diegesi quando lo storico dell’arte curatore dell’esposizione dei capolavori si rivela essere da anni una spira segreta del KGB. Sotto una tela a volte si manifesta un precedente dipinto, un “pentimento”: qui si manifesta anche nei rapporti umani. La tensione fra ciò che si fa ed è pubblico e ciò che si vorrebbe fare ed è privato rimane uno dei capisaldi della narrazione.   

Magistrale in “Margaretologia” (3.02) il modo in cui è stato costruito un confronto, anche fra passato e presente, fra la Regina e la sorella, in parallelismi e dicotomie. Si sono esplorate personalità, responsabilità, sorti. Tanto è noiosa e affidabile Elisabeth, quanto è brillante e scapestrata Margaret (ora Helena Boham Carter). La prima avrebbe fatto a meno di regnare, la seconda avrebbe agognato farlo, ma il destino ha voluto diversamente. Nella puntata Margaret, partecipa, al posto della sorella, a una cena con il presidente americano Johnson, ed è un enorme successo, nonostante non si attenga al protocollo, ma anzi proprio per quello. L’evento sociale mascherava un importante e delicato obiettivo diplomatico, andato in questo modo a buon fine: il Regno Unito riesce così ad ottenere indispensabile sostegno economico dagli USA. Margaret vorrebbe un ruolo ufficiale maggiore, che le regole non le consentono. L’ingiustizia e il risentimento e l’invidia che nasce dalla situazione, il senso del potere e il peso dell’indole personale nella vita vengono esplorati con sceneggiatura e regia in sintonia e in sincrono perfetto, l’eco l’uno dell’altra. 

Non c’è membro della famiglia reale che non debba fare i conti con quello che la Storia ha imposto che fossero e lo scarto con le proprie aspirazioni. Elisabetta II si concede un viaggio in Francia e Stati Uniti per esaminare dei cavalli da corsa e per una breve parentesi assapora quella che poteva essere la vita che avrebbe voluto (“Colpo di Stato”, 3.05). In un altro momento si interroga sulla propria capacità di provare emozioni che razionalmente ritiene di dover provare: quando il crollo di una miniera ad “Aberfan” (3.03), nel Galles, uccide quasi 150 persone, la maggior parte dei quali bambini, la regina si rifiuta di presenziare alle esequie, mandando il marito. Accortasi dell’errore vi si reca per una visita, ma niente elicita la reazione che lei stessa si aspetta da sé: “Hai pianto?” chiede al marito, cercando forse una risposta comportamentale giusta a lei che si sente inadeguata.

Ha senso il suo ruolo? Alla fine lei è quella che, a detta della sorella (3.10), deve nascondere le crepe, per evitare che tutto crolli. Ma hanno senso in generale i loro ruoli come reali? Il principe Filippo (un impeccabile Tobias Menzies, Outlander), in una puntata in cui si riavvicina alla madre che lui voleva tenere lontana dai riflettori per paura di sfigurare (“Birbantello”, 3.04),  con un documentario cerca di dimostrare l’impegno e la rilevanza della casa reale, ottenendo l’effetto opposto. Matura una profonda crisi personale in occasione dell’allunaggio. Disprezza il religioso che gli offre un momento di riflessione spirituale insieme ad altri uomini di fede e che riconosce che nel guardare le imprese degli astronauti la gente ha avuto dalla televisione un “senso di unione, di comunità, di stupore, di meraviglia” che un tempo aveva dalla chiesa. Philip osteggia la loro riflessività; l’azione è per lui il senso della vita, il compiere imprese come quella di questi pionieri, le gesta eroiche: quando incontra però gli astronauti in un’udienza privata ne è deluso, è disilluso dalla prosaicità delle loro attività e dell’assenza di una risposta, di una tensione verso qualcosa di altro, di alto. E riconsidera la propria posizione. 

La solitudine del principe Carlo (Josh O’Connor), spedito in Galles tre mesi per imparare la lingua (“Tywysog Cymru”, 3.06), e osteggiato, mette in evidenza come il suo dovere è reprimere chi è. Si riconosce nel popolo gallese. “Nessuno vuole sentire la tua voce”, lo apostrofa senza sentimentalismi la madre. È qualcuno che è indispensabile e inutile allo stesso tempo, libero e prigioniero. (1.08) La stessa scelta di una ragazza, Camilla (Emerald Fennell), come gli onori della cronaca già ci hanno reso noto nel tempo, non è una scelta che possa essere lasciata solo alla propria volontà.

Scrive bene Alan Sepinwall su Rolling Stone quando riflette sul fatto che questa serie, anche più di altri racconti sull’aristocrazia britannica, corre il rischio perpetuo di sembrare un’apologia auto-indulgente di gente che di fatto è nata in circostanze splendide e non avrebbe nulla di cui lamentarsi. Peter Morgan però, l’ideatore, riesce nella difficile impresa di articolare in modo chiaro i fardelli della Corona, sia per chi la indossa che per le persone che le sono vicine, e di mostrare che forse il gioco non vale la candela, forse i soldi e i castelli di lusso non sono uno scambio equo di fronte quello a cui si rinuncia.

L’attualità ci propone la scelta di allontanamento del Principe Harry e della consorte Meghan Markle dalla vita pubblica della famiglia reale e, con quell’eco nella mente, queste storie di finzione risultano quanto mai attuali, e permettono di far capire come parlare di questi argomenti e di certe scelte non sia poi solo frivolo gossip, ma abbia un valore per la risonanza su quello che significano dal punto di vista politico e personale, sulla filosofia e la concezione della vita che incarnano.

Proprio a voler trovare un difetto nella serie si è forse perfino troppo espliciti nelle tematiche affrontate, ma non stona. Che ruolo abbiamo nella vita, che segno lasciamo, come siamo pubblicamente e come privatamente, sono pensieri, a diversi livelli, che toccano tutti. E la sontuosa terza stagione, cinematograficamente anche ricca di inquadrature eleganti, è stata decisamente appagante.  

venerdì 14 febbraio 2020

MODERN LOVE: una serie asciutta e delicata

Ha il sapore di una raccolta di racconti Modern Love, la serie antologica che ha debuttato su Amazon lo scorso ottobre basata su una rubrica settimanale del New York Times (qui) diventata anche un podcast. A dispetto della bella sigla di apertura che zigzaga su romantici momenti di varie coppie, qui il senso dell’Amore Moderno suggerito dal titolo non è esclusivamente, anche se lo è prevalentemente, di tipo sentimental-relazionale.

Maggie (Cristin Milioti, A to Z), una critica newyorkese, frequenta molti uomini, ma a giudicare se sono adatti a no a lei c’è il portiere del complesso dove vive, Guzmin (Laurentiu Possa) – 1.01; una giornalista (Catherine Keener, Forever), raccontando la propria storia al suo intervistato, Joshua (Dev Patel, The Newsroom), gli fa rendere conto di non farsi sfuggire la donna che ama sul serio – 1.02; Lexi (Anne Hathaway, Il Diavolo veste Prada, Interstellar) sabota involontariamente ogni relazione e ogni posto di lavoro che ha, a causa del disturbo bipolare di cui soffre – 1.03; Sarah (Tina Fey, 30 Rock) e Dennis (John Slattery, Mad Men) sono una coppia con il matrimonio in crisi che cerca di ritrovare la connessione persa – 1.04 – in una puntata scritta e diretta da Sharon Horgan (Catastrophe); al loro primo appuntamento, Yasmine (Sofia Boutella) e Rob (John Gallagher Jr, The Newsroom) finiscono all’ospedale – 1.05; Maddy (Julia Garner, Maniac) vede nel suo capo al lavoro, Peter (Shea Whigham, Homecoming),  una figura paterna – 1.06 (qui la regia è di Emmy Rossum di Shameless); una coppia gay, Tobin (Andrew Scott) e Andy (Brandon Kyle Goodman),  intende adottare il bebè di una senzatetto incinta – 1.07 (questa storia era tratta da uno scritto di Dan Savage); Margot (Jane Alexander, Tell Me You Love Me) e Kenji (James Saito) sono coppia di anziani che si innamorano facendo jogging – 1.08.

L’ultima puntata ha una coda in cui tutti i personaggi delle puntate vengono ripresi, cosa che in sé mi ha fatto molto piacere, ma è apparsa un po’ posticcia, appiccicata. Più senso avrebbe avuto se nelle varie puntate ci fossero state comparse degli altri protagonisti, magari fugaci e tangenziali nel mostrare comunque un mondo variegato e interconnesso, ma così non è stato per cui mostrarlo così solo alla fine non è stata una scelta retorica troppo felice. Ma è la sola vera critica negativa che mi sento di rivolgere.

C’è molta delicatezza in queste storie per la gran parte scritte e dirette da John Carney, e molto realismo nel mostrare l’amore nella sua ineffabilità, e nelle sue difficoltà anche. Non sono commedie romantiche di facili sentimenti, e nemmeno si mostra un amore fatto di magici trasporti e perfezioni estatiche che, se ci sono, sono piuttosto attimi fuggevoli, ma è un’esplorazione onesta di un sentimento che porta anche delusione e amarezza, insicurezza e rimpianti. È spesso commovente, ma non sciropposo, né costruito a tavolino fuori dal nulla. Dal momento che si tratta di vignette autoconclusive, si gioca bene con il tempo, che passa veloce. La narrazione è asciutta. Elegante. 

martedì 11 febbraio 2020

KATY KEENE: una favoletta stucchevole


Nello spin-off di Riverdale intitolato Katy Keene, il cui pilot ha debuttato lo scorso 6 febbraio sull’americana CW, Katy (Lucy Hale, Pretty Little Liars, Life Sentence), basata sull’omonimo personaggio dei fumetti Archie Comics, è una aspirante stilista che di notte confeziona i propri abiti, con una inclinazione verso il rosso, con la vecchia macchina da cucire ereditata dalla madre, e di giorno lavora come assistente in un grande magazzino di lusso di New York, Lacy’s, dove ambisce a diventare personal shopper dei ricchi e famosi. Ha un fidanzato, KO Kelly (Zane Holtz), che lavora come buttafuori in un locale e mira a diventare pugile, e vive con due suoi amici: Jorge (Jonny Beauchamp), che sogna una carriera a Broadway e lavora come drag queen con il nome di Ginger Lopez; e Josie (Ashleigh Murray, Riverdale), fresca della città, che intende sfondare come cantante dopo l’esperienza liceale con le Pussycats ed altre successive. Fra le sue amiche più care conta anche l’esperta di social media Pepper Smith (Julia Chan).   

Sviluppata da Roberto Agiurre-Sacasa e Michael Grassi, la serie è senza ritegno e senza vergogna una favola per ragazzine (la prima puntata è pure intitolata “C’era una volta a New York”), con le protagoniste che lavorano sodo per i propri sogni, ma ottengono tutto con una facilità sorprendente: Josie appena arrivata, improvvisa qualcosa a Washington Square insieme a una donna conosciuta lì sul momento e le viene potenzialmente offerto da un discografico super-carino e super-potente il contratto di una vita, anche se poi le cose non vanno come spera. Katy deve far colpo su un principe che spende molto denaro da Lacy’s, per non deludere la sua esigentissima principale, e salva la situazione con la ragazza di lui diventando la preferita del reale, nonostante l’invidia di una collega. Solo il povero Jorge viene ritenuto “troppo gay” in un’audizione per “Mannequin” a cui si è presentato. E dal canto suo KO è, dal pilot, poco più di un accessorio da sbaciucchiare per Katy che altro. La prima scena in cui appare, in mutande, è la definizione del fan service.  

Si sono osservate molte potenziali influenze: Riverdale, Sex and the City, Il Diavolo Veste Prada, Saranno Famosi, Felicity, The Bold Type, Rent, Valley of the dolls…C’è un’estetica retrò, visibile già dalle primissime immagini, oltre che da certi outfit, ma si è chiaramente ancorati al presente anche con riferimenti culturali pop vari. Ci sono colori saturi.  La romanticizzazione è smaccata e gloriosamente stucchevole, ma volutamente tale. Ci sono scene da cartolina, attenzione alla moda, intramezzi musical – è definito un musical dramedy -  e gli intenti e le emozioni dei personaggi sono tutti molto marcarti. Dal pilot ci vedo un potenziale successo, specie fra i giovanissimi, ma io passo.

mercoledì 5 febbraio 2020

DICKINSON: un'anacronistica poetica follia


Il più delle volte la Emily di Dickinson, la rivisitazione in chiave moderno-adolescenziale della vita della ben nota poetessa, sembra la rappresentazione di una ragazzetta viziata americana moderna e nulla di più. Voglio dire, ci vuole qualcosa di più di esclamare un “let’s get this party commenced” (1.03) invece di un “let’s get this party started” – ovvero usare un verbo più obsoleto per esprimere “che la festa abbia inizio” - per trasportarci in un’epoca passata.

Mi rendo conto ovviamente che è parte dell’obiettivo: mostrare l’attualità dell’esperienza dell’autrice alle generazioni contemporanee, andando al cuore della sua essenza. Mi chiedo però perché Alena Smith (The Affair), l’ideatrice, non abbia pensato a un qualche escamotage per rendere credibile la commistione passato-presente invece di stravolgere la realtà dell’epoca: che so, prendere una giovinetta odierna che sta studiando letteratura e farle fare dei voli di fantasia immaginandosi come l’eroina della penna. Almeno si evitava la sensazione di ragazzine d'oggi che si mettono in costume per gioco. Magari sono io che ho idee più restrittive rispetto a quello che la realtà era a quel tempo, ma la mia impressione è che si mostri il comportamento di quelle pulzelle come all’epoca sarebbe stato quello di donne di bordello, non di giovani di buona famiglia, come si suppone siano quelle rappresentate. Proprio come la mentalità su queste cose sia cambiata nel tempo, e quali fattori hanno contribuito al cambiamento, e come studiarlo ci possa aiutare nell’oggi, ha un ruolo filosofico-politico significativo. Con questo genere di approccio, simili riflessioni vengono cancellate, ed è un delitto, la più grave mancanza di questa serie, che per il resto è accuratamente ricercata e cosciente della realtà.

Siamo in Massachusetts, nel 19° secolo. Emily (Heilee Stenfeld) è una teen-ager – questo stesso termine sarebbe inappropriato all’epoca, ma vista la poetica dell’ideatrice un anacronismo da parte mia ci sta -, ed è una ribelle che aspira a fare la poetessa. Ha molto talento, ma è osteggiata dal padre Edward (Toby Huss) che ritiene che le donne non debbano scrivere, ma dedicarsi solo ad attività domestiche, alle quali la madre Emily (Jane Krakowski) la sottomette. La loro è una famiglia distinta, conosciuta in città da generazioni, e l’essere pubblicata porterebbe disonore, nella prospettiva del genitore, tanto più che ha ambizioni politiche. Ha una sorella più giovane, Lavinia (Anna Barishnikov), che ha testa solo per i ragazzi, ed un fratello più grande, Austin (Adrian Enscoe) che è fidanzato con Sue (Ella Hunt), un’orfana piena di debiti, che è la migliore amica di Emily. Di più, fra Emily e Sue c’è un rapporto saffico. A corteggiare Emily c’è un compagno di scuola che la apprezza moltissimo, George (Samuel Farnsworth), ma lei lo disdegna mostrando invece apprezzamento per un segretario del padre, Ben (Matt Lauria, Parenthood).

Con puntate ispirate ogni volta a dei versi di una lirica, che fungono anche da titolo, e che appaiono periodicamente sullo schermo come fuggevoli scritte dorate, i temi che si affrontano sono rilevanti allora come ora: la propria vocazione, come sviluppare e far sentire la propria voce e il proprio autentico io, la poesia, il ruolo nella società e il giudizio della società, l’essere donna e la femminilità, l’essere soli vs. sposarsi, la sessualità, l’ambientalismo, la morte… Quest’ultima è rappresentata come un personaggio a tutti gli effetti, in carne e ossa (Wiz Khalifa), in momenti fortemente visionari, come quello affascinante della season finale (1.10) in cui la protagonista immagina il proprio funerale e in cui compare un altro di questi ricorrenti personaggi di fantasia, l’Ape (Jason Mantzoukas), delle dimensioni di un umano adulto.

Si nota un certo taglio umoristico, su cui volutamente si preme l’acceleratore. La madre restrittiva che imporne rigide regole alle figlie viene fatta esprimere con un tono iperbolico quasi da sit-com nel raccomandarsi alle figlie di “pulire costantemente” casa mentre lei non c’è. Non è un caso, credo che ad interpretare Henry David Thoreau, che Emily va a trovare sperando di ingaggiarlo come sostenitore a favore della sua causa a che non venga abbattuto l’albero preferito della sua tenuta per farvi passare una ferrovia (1.02), sia stato assunto un comico, John Mulaney. La storia, quella vera, ci racconta di un uomo solitario e frugale sulla carta, ma che poi nella realtà si faceva ampiamente mantenere dalle donne di famiglia. Qui hanno toni esplicitamente comici la madre che passa col cesto a ritirargli la biancheria da lavare e la sorella che passa a portargli i suoi dolcetti. Lo stesso hanno fatto con Louisa May Alcott (interpretata da Zosia Mamet di Girls), invitata a un pranzo di Natale (1.08), fresca della sua prima pubblicazione, ritratta come una romanziera unicamente interessata ai soldi, e pronta a tavola a discutere possibili idee letterarie fra cui quella di Piccole Donne che la renderà famosa, e quella che sarà il Moby Dick di Melville, che lei prontamente respinge come noiosa. L’irrisione giocosa qui è indubbia, ma nel complesso il tono della serie sembra indeciso, sbagliato. Forse semplicemente non convince me. Almeno non del tutto, perché contemporaneamente, con la sua verve, è molto gustosa.

Non sono sicura di condividere moralmente, per così dire, l’esperimento di narrazione biografica, ma sono disposta a raccoglierlo come una poetica follia. In questa prospettiva, non poso negare che sia riuscita.  Non sorprende che sia fra le serie più richieste della neonata AppleTV+, quando era una delle debuttanti da cui ci sia aspettava di meno.

martedì 28 gennaio 2020

RAMY (1.02): realistico, sottile, complesso


Ho trovato  affascinante quello che la puntata “Princess Diana” (1.02) di  Ramy (ne ho parlato qui), scritta da Leah Nanako Winkler, e diretta da Christopher Storer, è riuscita a trasmettere.

La premessa è abbastanza semplice: Ramy (Ramy Youssef) perde il proprio impiego e i genitori invitano a cena lo zio Naseem (Laith Nakli) perché il giovane prenda in considerazione di lavorare per lui. Quello che è affascinante è il modo realistico, sottile e complesso in cui riescono a costruire attraverso la figura dello zio, non solo la sua persona ma una serie di relazioni umane, e a farlo diventare il catalizzatore di un evento significativo. 

Questo zio è razzista, antisemita, omofobo e misogino e i figli non mancano di farlo notare ai genitori, che però insistono per l’incontro e perché siano tutti presenti. Si ritrae bene il disagio di tutta la famiglia di fronte alle dichiarazioni del parente, da far accapponare la pelle, e ci si ritrova facilmente in quell’imbarazzo di dover aver a che fare con una persona di cui si trova aberrante il pensiero, ma che per convenienza, per affetto, per rispetto e per dovere non si vogliono contrastare apertamente, pur ritenendole inaccettabili, le cose che dice.

Prima di ogni cosa la serie riesce sia a mostrare il fastidio e la sopportazione, sia a ridere delle posizioni discriminatorie e delle sue assurdità. Quando la sorella di Ramy, Dena (May Calamawy) viene criticata per il suo comportamento, lei coglie la palla al balzo e usa la misoginia a suo favore, dando la colpa al ciclo e ottiene, in virtù dello stato fragile in cui si trova per questa situazione, di uscire, cosa che i genitori non volevano che facesse. Si ride della sua abilità, e la ben calibrata recitazione fa sì che si noti lo scacco in cui i genitori sono stati messi, consapevoli delle assurdità retrograde di Naseem, ma nella posizione di non poterlo contestare. 

Si riesce attivamente a ridere delle dichiarazioni antisemite e misogine, cosa rischiosa da riuscire a fare senza risultare a propria volta antisemiti e misogini. Ma se si irride la mentalità del personaggio, si riesce contemporaneamente a non degradare lui. Mentre escono in macchina insieme, lo zio impone al nipote di accostare la macchina per accorre in aiuto di una donna che è in pericolo di essere aggredita dal fidanzato con cui stava litigando, e c’è una zuffa. La ragazza va via con il suo uomo ugualmente, ma loro hanno scongiurato il peggio e comunque hanno fatto un’azione nobile. Il motivo che ha spinto Naseem ad andare in soccorso della donna è comunque di un sessismo molto usuale (quante volte l’ho sentito io stessa nella vita) ovvero che le donne vanno protette non perché non ci si fida di loro, ma perché non ci si fida degli uomini. In questo modo si umanizza un personaggio che si vede come cerchi di fare la cosa giusta, pur nei limiti del proprio bigottismo e di come, di fatto, lui con le sue idee discriminatorie e la sua attenzione ai soldi si sia dato da fare a favore di un altro essere umano, anche rischiando in prima persona, più di quanto non avrebbe fatto Ramy, che è ostile alla discriminazioni e si vede animato di passione, ma non si sarebbe fermato. Vuole fare un’attività che abbia un valore per lui, non solo lavorare per guadagnare. Nella zuffa, in cui era stato coinvolto anche lui, perde una scarpa. Quando la regia gli fa guardare al termine di tutto il suo piede col solo calzino, c’è condensata tutta la ragione che lo fa accettare di andare a lavorare con lo zio a dispetto della sua ignoranza e dei suoi pregiudizi. Capisce che ha da imparare da lui. Che ci sono cose a cui tiene, che c’è comunque un certo idealismo in lui.

Tutta la puntata riflette sull’etica del lavoro - la passione è per i bianchi, gli ricorda il padre, loro lavorano e lavorano duramente - e sulla mascolinità, su che cosa consista essere un vero uomo - e fra le connessioni fra i due aspetti della vita. E interessanti sono sia le diverse aspettative generazionali sia quelle sociali: come ad esempio goda di considerazione un uomo con soldi che però ha delle idee fortemente insultanti nei confronti di suoi simili, e al contempo un ragazzetto di nobili principi, ma senza un’occupazione, non venga visto come un uomo la cui mascolinità sia apprezzabile. È un’osservazione pregnante rispetto alla realtà proprio nell’accostamento, e contemporaneamente appunto si spinge a far riflettere Ramy sull’importanza del guadagnare e di avere denaro proprio, e a non svilire del tutto l’umanità di chi mostra poca considerazione per gli altri. 

Le persone, le relazioni, le situazioni, vengono davvero mostrate con notevoli chiaroscuri, e con un realismo anche sgradevole, ma decisamente umano. 

lunedì 20 gennaio 2020

Termina MR ROBOT: addio, amico


In che modo possiamo cambiare il mondo? Essendoci, essendo presenti e facendo del nostro meglio. Questo sembra il messaggio ultimo dell’intera serie di Mr Robot che torna nella quarta stagione alla tematica principe già introdotta nella prima.

Ho scritto un saggio per “Osservatorio TV” del 2018 su questa serie, concentrandomi sulle prime tre stagioni e su come sia stata una metanoia che ha fatto ampio uso dell’agnizione, cosa che ritorna anche in questo ultimo segmento, e su come abbia usato un’originalissima estetica visuale con un framing che potenzia spazio negativo e shortsighting. Se il secondo e il terzo arco però sono stati in calo rispetto all’esordio, non questo quarto, che ci ha riportato agli antichi splendori narrativi, sia nella trama orizzontale che nell’approfondimento verticale di ciascun episodio singolo: non sono quelle che si chiamano puntate autoconclusive, ma hanno una forte identità singola piuttosto pregnante, non si confondono l’una nell’altra. 

Si è esordito con due morti, una delle quali del protagonista, “temporanea”, con un cameo dell’ideatore Sam Esmail che dice “Goodbye friend”; c’è stata una puntata praticamente senza dialogo (4.05), un episodio di rivelazione di che cosa sia davvero accaduto nell’infanzia di Elliot (4.07), un catartico abbraccio (4.08) fra il protagonista e Mr Robot (Christian Slater), l’intensa memorabile scena in 4.11 (qui) fra Elliot e Whiterose (BD Wong), la realtà alternativa del sottofinale e la rivelazione in chiusura di chi è veramente Eliot, al tempo stesso sensata e anticlimatica. Più intima anche, come si è sentito giusto che fosse. SPOILER: in realtà l’Elliot che abbiamo conosciuto non è altro che un’altra personalità che ha preso in ostaggio il vero Elliot, uno che noi non abbiamo mai conosciuto e che si trova alla fine in un letto d’ospedale, con la sorella Darlene (Carly Chaikin) a prendersene cura.  Anche se tutto quello che si è verificato è accaduto veramente, ci tiene a sottolineare lei.

I titoli delle puntate, sempre attinenti al mondo dei computer, in questa stagione hanno preso il nome dei codici di errore del protocollo di rete http.  

Si è parlato di cambiare il mondo, ma anche di problemi psichiatrici, solitudine, potere, ricchezza, equità, rivoluzione, abuso su minore, amore, amicizia, famiglia, felicità, opportunità, tecnologia, virtuale e reale… una serie che non è diventata una must a caso.

Addio, amico. 

sabato 18 gennaio 2020

HIS DARK MATERIALS: una serie senza "daimon"


Tratto dal’omonima trilogia di Philip Pullman, in His Dark MaterialsQueste Oscure Materie (su Sky Atlantic, in Italia) siamo in una realtà parallela in cui ogni essere umano è accompagnato da un “daemon – daimon”, l’anima della persona che assume fattezze di animale e che non le si allontana fisicamente mai di molto. Se qualcosa succede all’una si riflette sull’altra, e viceversa. In ogni caso, finché una persona non diventa adulta, il suo daemon può cambiare fattezze.

Protagonista è una ragazzina, Lyra Belacqua (Dafne Keen), sempre credutasi orfana, cresciuta nel prestigioso Jordan College di Oxford – e il suo daimon si chiama Pantalaimon, “Pan”. Si ritiene che la sua vita sia legata a un’antica profezia: è destinata a liberare l’umanità dal potere repressivo del Magisterium, la più alta autorità religiosa del suo mondo – questa è un’informazione che leggo su IMDB, nella serie in sé si è molto più vaghi. Qualsiasi scoperta che abbia un'attinenza con le dottrine della Chiesa deve essere annunciata attraverso questo potente organo clericale, che è anche censore, per evitare che si sviluppino eresie. Lyra è l’unica persona in grado di leggere senza dei libri che aiutano a decifrarlo un prezioso strumento chiamato aletiometro, un misuratore di verità. Lyra vorrebbe unirsi a quello che pensa essere suo zio, il brillante studioso ed esploratore Asriel (James McAvoy), ma finisce per andare lei stessa in un viaggio avventuroso alla ricerca, insieme al popolo dei gyziani, di bambini, fra cui il suo più caro amico Roger (Lewin Lloyd), rapiti dai temibili “ingoiatori”, e poi alla scoperta del misterioso fenomeno della Polvere. Nella sua vita entra presto Mrs Coulter (Ruth Wilson, The Affair), una donna molto potente, le cui intenzioni non sono troppo chiare. Alla ragazzina si affianca anche un avventuriero, Lee Scoresby (Lin-Manuel Miranda).

Nonostante una trama e una mitologia molto ben definita e intrigante, la serie è un polpettone lento e pesante. Le prime due puntate intrigano, poi si affloscia, e si riprende un po’ con la sesta puntata. Sebbene non manchino continui eventi, non c’è verve, manca il dinamismo. Scene lunghe per dire nulla, per cercare di creare una suspense che non c’è. E ci sono stati momenti, specie in una sottotrama,  in cui sembrava di essere capitati in una puntata di A Discovery of Witches. Lo stesso destino di Lyra non è mai chiarito. Si capisce che ha un qualche ruolo da svolgere, ma è tutto così inconsistente e vago che non si sa perché dovrebbe importarci.

Non ho letto i libri, ed evidentemente la storia sulla carta stampata aveva un fascino che qui semplicemente sfugge. Sembra una buona idea sprecata da una cattiva costruzione narrativa. Tutti fanno un lavoro più che dignitoso,  ma il look è spento, sa già di vecchio, nonostante effetti speciali buoni e credibili. Dovrebbe essere una fantasia epica con mondi paralleli, streghe e orsi guerrieri. Non dico che condivido la posizione dello Spectator che arriva a scrivere che sembra una produzione scolastica realizzata con un alto budget – il più alto mai speso dalla BBC per una produzione, riportano – ma quando leggo che la giudicano goffa e deludentemente piatta con posso che concordare.

Poco vale che l’autore che ha adattato la saga per lo schermo, Jack Thorne, veda un parallelismo fra il Magisterium e il governo britannico e fra Lyra e Greta Thunberg, quando non si è nemmeno riusciti a trasmettere le basi del sottotesto intellettuale che rendeva ricchi i romanzi. Se c’è un elemento che mi è chiaro dal successo dei libri è che sono intrisi di considerazioni morali e teologiche, che ci si interroga sulla natura dell’anima, sul valore della religione organizzata e dell’autorità, sull’ambiguità della verità anche. Tutto questo nella diegesi televisiva è completamente obliterato. Se si è fortunati, verso la fine se ne può intravedere qualche spiraglio, ma proprio aiutati da tanta, tanta buona volontà.  Chi ha seguito la prima stagione – ce ne sarà anche una confermata seconda - capirà al volo perché mi esprimo così, ma è come se la serie stessa avesse un suo  daimon, e avessero fatto l’esperimento di taglierglielo via.

sabato 11 gennaio 2020

ZOEY'S EXTRAORDINARY PLAYLIST: l'erede di "Crazy ex-girlfriend"


Nella nuova serie della NBC Zoey’s Extraordinary Playlist – ha debuttato negli USA il 7 gennaio – Zoey (Jane Levy, Suburgatory) è una codificatrice, la migliore, a sentire la sua boss, Joan (Lauren Graham, Gilmore Gilrs, Parenthood), per una azienda di San Francisco che si occupa di app e smart device, la SPRQ Point. Il padre Mitch (Peter Gallagher, The OC) soffre di paralisi sopranucleare progressiva, una rara malattia neurologica degenerativa che lo lascia immobile e incapace di parlare o nutrirsi da solo – a prendersene cura sono la madre Maggie (Mary Steenburgen) e il fratello David (Andrew Leeds).

Zoey, visto il padre, per scrupolo decide di andare a fare una risonanza magnetica. Mentre la sta facendo, c’è un terremoto e accade il fattaccio: stava ascoltando una playlist di musica e in qualche modo questo evento le ha fatto sviluppare un superpotere, ovvero quello di percepire pensieri ed emozioni delle persone che le sono vicine, ma sottoforma di canzoni e numeri musicali – o in alternativa sta diventando matta, come confessa intimorita al vicino di casa, Mo (Alex Newell), un DJ gender-ambiguo (l’attore, sulla base del suo profilo su Wikipedia, si identifica come un uomo gay non cisgender, e mi pare di capire che il personaggio rifletta questo – spero che il mio usare il maschile sia appropriato).

Ecco allora che sul lavoro percepisce che l’uomo per cui ha una cotta, Simon (John Clarence Stewart), sta passando un periodo veramente infelice, nonostante l’apparenza contraria, o che il suo collega e miglior amico Max (Skylar Astin, Crazy Ex-Girlfriend) si è innamorato lei, o ancora che quello che le dichiara sostegno in realtà è un rivale interessato solo a posizione e soldi…non una situazione facile da navigare.

La serie raccoglie indubbiamente il testimone da Crazy Ex-Girlfriend, da cui eredita anche l’attore Skylar Astin (che ha interpretato Greg nell’ultima stagione), con un pizzico di The Unbreakable Kimmy Schmidt, soprattutto per il rapporto Zoey-Mo che richiama quello Kimmy-Titus, ed echi di Ally Mcbeal. Il senso ultimo del musical come genere, ovvero quello di portare alla luce sentimenti molto profondi troppo forti perché si possano esprimere solo a parole, viene qui fatto emergere dall’escamotage del superpotere. L’espediente dell’incidente di laboratorio, stile Uomo Ragno, non trasporta però il personaggio nel campo dei supereroi tradizionalmente intesi, ma è inteso al limite come controbilanciamento dell’handicap del padre e come commento alle difficoltà comunicative nelle emozioni e come riflessione sulle ciò che proviamo e maschere che indossiamo, fra lo iato perciò nell’esperienza umana fra essere e mostrare, fra provare e trasmettere.

Il punto debole mi è parso di primo acchito la rappresentazione della patologia paterna, presa un po’ allegramente, mi pare, un po’ troppo pretestuosa con il genitore ridotto ad un bambolotto funzionale alla storia. E il disagio di uno dei colleghi con le donne, pronto a fare commenti sessisti poi smontati dagli altri, non mi è sembrato del tutto a fuoco. Penso ci sia la nobile intenzione di denunciarli, ma che vada rifinito.

Il fatto che le canzoni siano mostrate non interamente, ma in piccoli stralci e che siano genericamente ben note, diversamente da quelle della serie di Rachel Bloom dove erano originali, funziona. In questa creazione di Austin Winsberg potenziale interessante c’è e una certa gradevole leggerezza nell’approccio agli argomenti pure, ci sono dinamismo, vivacità e cuore, senza essere troppo zuccherini, per cui c’è tutto il necessario, o quanto meno a sufficienza, da stare a vedere dove ci conduce.