lunedì 10 ottobre 2011

LA MALA EDUCAXXXION: donne che parlano di sesso


In La Mala EducaXXXion (la7d – canale 29 del telecomando-, martedì, ore 23.10), titolo che gioca evidentemente con il titolo di un film di Almodovar, come è facile intuire dalle tre ics, è una trasmissione in cui si parla di sesso, e specificatamente si tratta di un talk show al femminile in cui 40 donne, sotto la direzione dell’ex-iena Elena Di Cioccio, e 4 uomini, parlano in modo libero rispetto al tema di volta in volta scelto. Viene ripetuto più volte, nel corso delle serate ideate da Chiara Salvo e Katiuscia Salerno, che in video non ci sono dottori, esperti o sessuologi, e che non si cerca di capire come il sesso lo si dovrebbe fare, ma ci si racconta come di fatto lo si fa, condividendo con franchezza le proprie esperienze e inesperienze, in modo esplicito, confessando tecniche così come imbarazzi e ingenuità, senza che venga dato alcun tipo di giudizio e senza entrare in conflitto. Il primo argomento in un ciclo di 6 (o sono 8? Ho fonti contrastanti), è stato la fellatio, il secondo sarà la masturbazione, e altri argomenti in puntate a venire, saranno il cunnilingus,  i preliminari, le trasgressioni e il sesso come modo per dare solidità a un rapporto. La prospettiva è eterosessuale. 
La puntata, se la prima del 4 ottobre la possiamo prendere come modello, esordisce con la padrona di casa che recita una citazione letteraria: all’esordio “Le particelle elementari” di Houellebecq. Poi le donne invitate cominciano a raccontare di sé. In un secondo momento  entrano i 4 uomini che fino ad allora erano rimasti in disparte, e nella seconda parte del programma si entra più nel vivo del tema parlando anche di tecniche. Qui e lì il programma è punteggiato da qualche video-intervista con persone famose che aggiungono anche la loro prospettiva e costituiscono uno spunto in più per la riflessione. La discussione continua in internet, sul sito del programma, dove oltre a poter rivedere degli spezzoni (ed eventualmente la puntata intera attraverso il servizio di la7.tv) si possono lasciare commenti e osservazioni.
Il punto di forza di questa arena verbale, e quello che me la ha fatta apprezzare, è quello dell’intimità, e non nel senso che si parla di argomenti intimi, per qualcuno forse anche tabù, cosa pure vera, ma il fatto che la sensazione che viene trasmessa è quella di una condivisione autenticamente interiore. Nella prima puntata si è anche riso e sorriso molto, specie all’inizio, quando le prima a parlare raccontavano della loro reazione all’exploit finale, inteso in senso molto fisico, dei loro esperimenti di fellatio. Fra loro, e con lo spettatore, si è creata una cerca complicità che rimane la nota distintiva del talk-show. Si trattano gli argomenti seriamente, ma senza medicalizzare e imporre così una professionalità che tiene imbrigliate le reazioni emotive. Qui c’è spazio per quel pizzico di malizia che si avrebbe parlando di queste cose nella vita di tutti i giorni, e sempre mantenendo un atteggiamento rispettoso. Mai è stato volgare, ma pruriginoso e dolce. E costruttivo nella misura in cui lo è sempre il confronto con l’esperienza e la saggezza di vita di altri. Si è parlato come si sarebbe fatto fra amiche prima e fra amici poi.
Il campione di donne scelto copre varie fasce di età – la più giovane ha 19 anni, ma si entra bene negli “anta” - e questo è importante non solo perché è un argomento che attiene a presone effettivamente di età diverse, ma perché la prospettiva con l’età cambia, e qui se ne tiene conto. Anche se non viene esplicitato, diverso è anche il contesto da cui vengono queste donne. Una, ad esempio, era velata e le si è chiesto il motivo per cui lo fosse: ha risposto che era mussulmana e che per parlare di questi temi preferiva in parte celare la propria identità (le si vedevano solo gli occhi).  
Proprio recentemente in un saggio dal titolo “Sexual Outlaw”, contenuto nella raccolta Best Sex Writing 2010, ho letto che l’autrice Betty Dodson rifletteva: “Ho cominciato a capire il concetto che tutte le forme di sesso sono uno scambio di potere, sia che sia conscio o non conscio. Mi focalizzavo  esclusivamente sullo scambio di piacere nel sesso. Non avevo mai considerato il sesso in termini di potere”. Per questa autrice, la rivelazione è arrivata incontrando un gruppo di lesbiche che praticavano sesso sado-masochistico, ma ha presto applicato quest’idea al sesso in tutte le sue forme. Ho subito notato che il programma si è espresso sì in termini di piacere, individuale e dell’altro, ma più volte anche in termini di potere, ed è stato un taglio che ho trovato pregnante.
In un’intervista sul blog di Davide Maggio da Di Cioccio cita come modello di ispirazione Pasolini: “ricordi Comizi d’amore di Pasolini? Pierpaolo girava per tutta l’Italia e chiedeva nei posti più disparati e nelle più disparate condizioni sociali di parlare di sesso. Erano anche altri anni, ma il senso è ancora questo: raccontare la propria esperienza, non le esperienze dei massimi sistemi lette o apprese per sentito dire”.

venerdì 7 ottobre 2011

DUE UOMINI E MEZZO: benvenuto Ashton Kutcher



Due uomini e mezzo avrà pensato: che cosa c’è di meglio di Ashton Kutcher? Ashton Kutcher nudo. E così non ha perso tempo e lo ha fatto vedere in tutta la sua adamitica bellezza nel suo arrivo nel ruolo di Walden Schmidt (9.01), in sostituzione del dipartito Charlie (Charlie Sheen). Beh, proprio vedere no, ma vedere con l’immaginazione sì, dando qualche piccolo suggerimento qui e là. Suggerimenti graditi.  

La prima puntata della nuova stagione è cominciata con il funerale di Charlie, e diciamo pure che con tutto quello che è emerso di Charlie Sheen in contesto extra-diegetico, è stato davvero difficile non leggere un forte sottotesto nell’elogio funebre, per cui le risate sono state fatte anche un po’ a denti stretti.

Poi Alan (Jon Cryer) si è trovato nella situazione di dover vendere la casa, che non poteva più mantenere, e questa è stata l’occasione per la fugace apparizione di due guest star: John Stamos prima e “Dharma & Greg” (Jenna Elfman e Thomas Gibson) poi - che chicca! Ma alla fine è apparso lui, Waden, con il cuore spezzato, la vita in pezzi e la necessità di trovarsi un posto dove stare: esilarante. Ah, e ho detto che ad un certo punto era nudo? Esilarante (oltre che qualcos’altro) anche quello.  

 Charlie è stato cenere.   

giovedì 6 ottobre 2011

DIRTY SOAP: un reality con le star delle soap


Dirty Soap, in onda dallo scorso 25 settembre sull’americana E! per sei puntate, è un reality che ha come protagonisti alcuni attori di soap opera che per gli appassionati del genere non hanno bisogno di presentazioni: Kelly Monaco, che lavora da 13 anni in General Hospital nel ruolo di Sam, ma che è anche vincitrice della prima edizione di Ballando con le Stelle americana, nonché ex playmate di Playboy (qui trovate il suo scatto come Miss Aprile 1997); Kirsten Storms (Maxie, General Hospital, ex DAYS), una delle migliori amiche, oltre che collega di Kelly; Nadia Bjorlin (Chloe, Days of Our Lives) e Brandon Beemer (Owen, Beautiful, ex-DAYS), che fanno coppia nella vita; Farah Fath (Gigi, One Life To Live, ex-DAYS) e il suo compagno John-Paul Lavoisier, chiamato “JP” nel reality (Rex, One Life To Live); Galen Gering (Rafe, Days of Our Lives, ex-Passions) e sua moglie Jenna Gering, una ex-attrice, sebbene in questo caso non di soap, e ora mamma a tempo pieno.
Co-prodotto da Kelly Ripa (ex-Hayley Vaughan Santos in All My Children e co-presentatrice del Live with Regis and Kelly) e dal marito e sua metà anche nella soap di cui facevano parte Mark Consuelos (ex-Mateo Santos), Dirty Soap sbircia dietro le quinte delle vite di questi giovani, avvenenti attori: sul set, nei camerini, nelle apparizioni dei fan club, alle feste, nella vita quotidiana... All’esordio Kelly si è appena separata dopo 18 anni dall’uomo che amava, e Kirsten l’aiuta a non buttarsi giù e a liberarsi dei fantasmi del passato; Nadia è pronta a girare la sua ultima l’ultima puntata sul set della soap in cui ha trascorso, per più di un decennio, tutta la sua vita adulta e Brandon le è vicino. Farah si ritrasferisce a Los Angeles, seguita (o no?) con riluttanza da JP che vorrebbe rimanere a New York, ma vede con ansia la prospettiva di re-incontrare Kirsten. Sebbene fossero migliori amiche, hanno rotto e non si parlano da due anni. Jenna si fa prendere dall’ansia all’idea che Galen per una scena al lavoro debba baciare qualcun altro che non sia lei. Con la seconda puntata si parla di famiglia (il fratello di Kirsten, la madre di Nadia, quella di JP…) e l’impressione è di andare ancora più a fondo nelle loro vite.
Kelly Monaco lo ha voluto definire una sorta di docureality, nel tentativo di darci legittimità. In un momento in cui il genere soap opera sembra spacciato e ai suoi ultimi rantoli, Dirty Soap vuole anche essere una forma di promozione delle soap stesse. Di certo i fan se lo divoreranno, anche perché possono sbirciare un pochino di più di quanto non sono abituati nel dietro le quinte e nelle vite degli attori che seguono, e magari vedere “sullo sfondo” cose come  Bradford Anderson (Spinelli, GH) che si prepara per una scena o Ronn Moss (Ridge, B&B) che si diverte a una festa.
Come programma a sé ha quel misto di gossip, amicizie, scontri, drammi e spiegazioni e semi-interviste guardando la telecamera che inframmezzano le riprese a cui ci ha abituato il genere reality. Alcune situazioni sono sembrate un po’ montate: davvero Jenna reagisce così al fatto che il marito deve baciare un'altra? Non era un’attrice anche lei? Non è una vita che il marito fa quel lavoro? Che cos’ha di diverso questa scena da rendere Jenna insicura? Certo è esemplificativa di una “questione tipo” per chi lavora in questo settore, altrimenti non si spiega nella circostanza specifica. Peccato solo che in corrispondenza degli stacchi pubblicitari ci siano anticipazioni di scene a venire che in pratica ti rovinano tutta la sorpresa. Alla fine quando vedi veramente il momento, ti pare di saperlo a memoria. Magari lo show è un po’ trash, e ti ritrovi a fare commenti altamente culturali come “che teneri Nadia e Brandon” (1.01) o “certo che la madre di Nadia è proprio dura con Brandon” (1.02), ma scivola via che nemmeno te ne accorgi e, appunto, se fossero sconosciuti non importerebbe un fico secco, ma a essere fan non si resiste. E il programma lo sa bene, e infatti si è notato prestato particolare attenzione proprio ai fan, in diverse occasioni.
Sotto, la sigla.

mercoledì 5 ottobre 2011

CHARLIE'S ANGELS: l'originale, al confronto, era alta televisione





Matt Roush di TV Guide ha sintetizzato al meglio l’esperienza della visione del remake di Charlie’s Angels: “È come un programma del USA Network dopo una lobotomia. Per elaborare: Bleah. (...) Non solo è un’ idea pigra, è eseguita in modo atroce, recitata in modo patetico e concepita in modo cinico”.

Dopo che Gloria, uno degli “angeli” di Charlie, muore in un’esplosione, le altre due del trio, Abby (Rachael Taylor, Grey’s Anatomy), una ex-ladra, e Kate (Annie Ilonzeh, General Hospital), una ex-poliziotta, decidono di investigare e nonostante qualche scontro iniziale trovano l’aiuto di Eve (Minka Kelly di Friday Night Lights, Parenthood), pilota in corse d’auto e amica d’infanzia di Gloria. Quattro scazzottate, un’esplosione, un tuffo in mare sotto le raffiche di un mitra (o almeno un’arma che a me è parsa un mitra) e una tortura dopo l’inizio, la puntata è finita e loro catturano e assicurano alla giustizia il gran cattivo del giorno; Eve viene convinta da  Bosley (Ramon Rodriguez), un piacente giovane esperto di tecnologia, a lavorare anche lei per il misterioso Charlie - la cui voce in originale doveva essere quella di Robert Wagner, ma alla fine questi per altri impegni non ha potuto ed è stato sostituito con Victor Garber (Alias) - e il trio è ricostituito.

Sopra una colonna che è partita con S&M di Rihanna passando per On the Floor di J Lo, si è tontonato con: “non sembrate poliziotti”, “non lo siamo, siamo angeli”; siete “angeli di giustizia, non di vendetta”; siamo “angeli, non sante”, siete state chiamate angeli perché intervenite “quando meno te lo aspetti e quando più  ne hai bisogno”, perle di dialogo che volevano essere sicure, nel caso in cui avessimo problemi di memoria a breve termine, che stavamo guardando gli “angeli di Charlie”. E il camioncino con scritto sopra “Cloud Nine” (Nuvola Nove)? Questo è quello che in americano si chiama overkill, esagerare. Forse  Alfred Gough e Miles Millar, che hanno sviluppato la sere per la ABC sulla base di quella degli anni ’70 ideata da Ivan Goff e Ben Roberts, volevano ricordarlo a se stessi, visto che a momenti il telefilm, dai gadget, sembrava più Mission: Impossible che altro.

Non butto al macero proprio tutto: l’ambientazione di Miami è bella; l’idea di inserire in qualche momento un riquadro dentro l’inquadratura con la stessa immagine, quasi ci fosse una cornice, non mi è dispiaciuta; il colpo di scena dell’aereo che non era veramente in volo (1.01) l’ho vissuto come tale; e ho notato le “pari opportunità” nella tortura. Di solito quando si torturano donne non si tralascia mai un attacco di tipo sessuale di qualche tipo. Qui no. Le scene di azione in generale mi sono sembrate molto "maschili".

Non pensavo che lo avrei mai detto, ma l’originale in confronto era alta televisione.

martedì 4 ottobre 2011

THE PLAYBOY CLUB: prima cancellazione dlla stagione


La NBC ha annunciato oggi la cancellazione di The Playboy Club, che è così il primo programma della nuova stagione a subire questa sorte.  

2 BROKE GIRLS: due ragazze squattrinate


Qualcuno le ha definite le possibili Laverne & Shirley degli anni 2000 e ha evocato la classica Alice. La bruna Max (Kat Dennings) e la bionda Caroline (Beth Behrs) sono 2 broke girls (dal 19 settembre sulla CBS), “due ragazze squattrinate”, che lavorano in una tavola calda insieme a Oleg (Jonathan Kite), un cuoco di origine russa che cerca di far colpo sulle ragazze, e Earl Garrett Morris), l’anziano cassiere, alle dipendenze del signor Han Lee (Matthew Moy), un coreano che per sembrare più americano usa come primo nome Bryce, in modo tale che alla fine suona Bryce Lee (simile a Bruce Lee, insomma).
Max ha fatto la cameriera praticamente tutta la vita, e ha pure un secondo lavoro come baby-sitter presso una ricca famiglia, Caroline è un ex-miliardaria finita sul lastrico dopo l’arresto del padre e il congelamento di tutti i beni di famiglia che si presenta al colloquio di lavoro con un abito di Chanel bianco, ma è costretta a dormire in metropolitana perché tutti i cosiddetti amici si sono rifiutati di offrirle aiuto. Le due si incontrano sul  posto di lavoro e diventano amiche. Max molla il ragazzo che la tradisce e invita Caroline a trasferirsi da lei. Insieme hanno un sogno: aprire una pasticceria in cui vendere cupcakes, muffin insomma. Nell’ideale porcellino mettono via una piccola cifra ogni settimana per mettere in piedi il progetto che necessita di una base di partenza di 250.000 dollari - e alla fine della puntata appare il prezzo di quanto hanno raggiunto. La storia delle sit-com, ha ben ricordato Pomatters, ha visto solidi successi nascere dall’entrata in un bar/ristorante/café di una persona con la vita in frantumi (Cin cin, Friends).
Co-ideata da Whitney Cummings (Whitney) e Michael Patrick King (Sex and the City), questa sit-com dalla fin troppo udibile laugh track (la traccia di risate pre-registrate insomma), ha qualche battuta davvero ben riuscita, ma alla fine non convince completamente perché è troppo caricata, soprattutto in una delle vene umoristiche che sembra voler cavalcare, quella della differenza fra ricchi e poveri. Il potenziale c’è anche. Tutto sta a vedere come verrà sviluppato.


Più di qualcuno ha trovato le rappresentazioni etniche ai limiti del razzismo. Come spiega Wide Lantern, il copione originario prevedeva ad esempio che Bryce non riuscisse a pronunciare bene il suo nome e alla fine si dicesse Rice Lee (con riferimento al riso). Alcune organizzazioni, come Racebending.com (che ha una recensione della serie qui), MANAA e altre, hanno incontrato i rappresentati della CBS Diversity e hanno chiesto che lo script venisse modificato, cosa che è avvenuta, in parte, con l’eliminazione di altre battute considerate offensive. Qualcosa è rimasto, così come l’accento coreano, che nella pronuncia di Moy ondeggia fra coreano e cinese, dicono (mi fido sulla parola).

lunedì 3 ottobre 2011

TERRA NOVA: con potenziale, ma mediocre


Co-prodotto da Spielberg, e ideato da Kelly Marcel e Craig Silverstein, debutta in Italia su Fox il 4 ottobre, in quasi-contemporanea con gli USA (dove è partito lo scorso 26 settembre), Terra Nova. Siamo all’alba del ventiduesimo secolo, anno 2149 per l’esattezza, la Terra è tutta giallina perché malata e sul punto di un collasso ambientalistico, gli esseri umani faticano a respirare e devono girare con tecnologiche mascherine che filtrano l’aria, un’arancia è un bene prezioso e se una coppia decide di avere più di due figli rischia grosso perché “Una famiglia è quattro persone” e “la sovrappopolazione equivale all’estinzione”   (come recitano dei cartelli video in città). La speranza è 85 milioni di anni nel passato, all’epoca dei dinosauri, in una colonia nota come Terra Nova (le location sono filmate in Australia) raggiungibile attraverso un portale dopo uno specifico reclutamento: da lì è possibile sperare di costruire un futuro migliore.
Superando qualche intoppo iniziale, a Terra Nova arriva la famiglia Shannon: il padre Jim (Jason O’Mara), un ex poliziotto che viene presto assunto alla sicurezza dal capo locale, il comandante Nathaniel Taylor (Stephen Lang, Avatar), la madre Elisabeth (l’attrice inglese Shelley Conn), un medico, e i loro tre figli: Josh (Landon Liboiron), dispiaciuto di lasciare nel futuro la sua ragazza, ma che fa presto amicizia con Skye (Allison Miller, Kings) una giovane lì da anni che ha perso i genitori, e un altro gruppo di ragazzi con cui presto si mette nei guai; Maddy (Naomi Scott), una quindicenne che sa un sacco di cose di storia, geografia e scienze; e Zoe (Alana Mansour) una bimba di cinque anni che si diverte a dare da mangiare ai dinosauri erbivori, e che è la figlia in più che secondo le regole non sarebbe mai dovuta nascere. I pericoli non mancano: minacciosi dinosauri che mangiano gli esseri umani e usano la coda come fosse una frusta, chiamati Slasher in originale, e i Sixers, un gruppo ribelle che si è staccato dalla colonia, guidato da Mira (Christine Adams), così chiamato perché è nato dalle persone del sesto pellegrinaggio  verso Terra Nova – quello degli Shannon è il decimo.
Il futuro distopico messo in scena da questa serie non conquista completamente, ma nemmeno delude completamente. Dopo un inizio un po’ melodrammatico, ma non in modo eccessivo, la serie come sensazione generale ha ricordato un po’ Lost, per la giungla, per le fazioni rivali, per il senso del tempo, perfino per l’inquadratura di Jim che finito a terra nel suo arrivo nel passato guarda in aria fra i rami degli alberi verso il sole, cosa che spero fosse intesa come citazione di qualche tipo. La storia si vede che è costruita in modo solido, con la mitologia ben delineata in anticipo e anche un pizzico di  gergo, un po’ alla maniera di “Star Trek”, come tanto piace agli amanti della fantascienza – conoscere un linguaggio è conoscere un mondo. Come percezione, per il tipo di immagini, mi ha richiamato un po’ anche McGyver, pur essendo narrativamente molto distante, e c’è qualche eco di Battlestar Galactica, di The Walking Dead, di Enterprise, di Caprica, di Blade Runner e naturalmente di Jurassic Park. Gli effetti speciali sono riusciti, il più delle volte. Parole chiave e temi portanti sono “famiglia” e “nuovo inizio”, il senso del ricominciare e della frontiera.
 Ad un certo punto viene detto “chi controlla il passato, controlla il futuro”, ma che volesse essere un cenno alla famosa citazione di Orwell “chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato” non è così sicuro. Il dialogo, deludente, è privo di risonanza in generale. Tutto è molto carico, ma privo di sottigliezze, e manca il più minimo senso di meraviglia, autentica meraviglia, per la bellezza naturalistica che era la Terra. Si fermano anche a dire che è  bella, in un paio di momenti (e con la luna alla fine), ma non sembrano crederci veramente. E quello e il senso di scoperta, in una simile situazione, non dovevano mancare. Alla fantascienza migliore di solito si accompagna anche a una critica etico-sociale e magari una proposta alternativa. Qui non c’è. La coscienza ecologica della famiglia che ha visto il proprio pianeta agonizzante sembra più superficiale che il risveglio intellettuale ed emotivo di una generazione che lo necessita per la propria sopravvivenza. E la Cina attuale ha misure più drastiche contro la sovrappopolazione dell’immaginata Terra del 2149.  Dirlo di un pilot, che è quasi sempre un abbozzo, e soprattutto di uno epico e ambizioso come questo, è presuntuoso, ma l’aggettivo mediocre si attanaglia bene a questa serie che dimostra di non arrivare al potenziale presente nella premessa.  
 Sotto, un promo italiano della serie.

venerdì 30 settembre 2011

UNFORGETTABLE: non direi proprio


In Unforgettable (Indimenticabile), in onda dal 20 settembre sulla CBS, Poppy Montgomery (Without a Trace) interpreta Carrie Wells, una ex-detective della polizia che, a causa di una condizione medica nota come ipertimesia, ha una memoria davvero prodigiosa. Sfruttando questa sua capacità guadagna quel che può col gioco d’azzardo e per il resto lavora come volontaria in una casa di riposo dove si trova anche sua madre, che soffre di Alzheimer. Ad interpretare la madre è l’attrice Marilu Henner, che soffre di questo disturbo nella vita reale e che funge da consulente per la serie.
Un giorno, una vicina di casa di Carrie viene uccisa e lei aiuta nelle investigazioni il detective Al Burns (Dylan Walsh, Nip/Tuck), il poliziotto che segue le indagini e con cui ha avuto una storia, e l’intera squadra affidata al caso, Mike (Michael Gaston), Roe (Kevin Rankin) e Nina (Daya Vaydia). Attraverso epifanie in forma di flashback riesce a ricostruire gli indizi necessari a risolvere l’omicidio, ma allo stesso tempo riemergono per lei ricordi del caso che le ha fatto lasciare la polizia.
Ideato da Ed Redlich e John Bellucci sulla base di un racconto di J. Robert Lennon intitolato “The Rememberer”, è il classico telefilm pseudo-procedurale insulso e inutile, uguale a tremila altri, che è capace di durare cinque-sei stagioni. Mal fatto, noioso e completamente dimenticabile.

mercoledì 28 settembre 2011

THE X FACTOR americano: una copia di "American Idol"


La versione made in USA di The X-Factor, che ha debuttato lo scorso 21 settembre sull’americana Fox, anche se nella musica e nella sigla è uguale alla nostra, per ora sembra più una fotocopia di American Idol che non la versione italiana dello stesso talent: le grandi folle di fan e aspiranti star riprese in alte panoramiche (20.000 persone solo a Los Angeles), il palco rialzato di fronte ai 4 giudici illuminati con dietro il pubblico al buio, “la palette” stessa dei giudici: Simon Cowell e Paula Abdul che vengono entrambi dall’esperienza di Idol,  L.A. Reid e Nicole Scherzinger (l’ex leader delle Pussycat Dolls) nel ruolo che di là avevano Randy Jackson e Kara DioGuardi - anche fisicamente in fondo li ricordano. A passare per caso di lì senza guardare con attenzione, i programmi si sarebbero potuti davvero confondere.
I giudici sono stati presentati all’esordio  in modo epico, al rallenty con un incedere diretto e deciso verso le telecamere. Sono loro gli eroi. Il Ryan Seacrest della situazione, ma più defilato e per ora con meno interazione con i familiari,  è qui Steve Jones, ex-modello divenuto conduttore di successo in Inghilterra, ma virtualmente sconosciuto negli USA se non per le sue storie con Pamela Anderson ed Hyden Panettiere (così si dice). C’è una certa sobrietà per altro, niente opinionisti, coreografi o quant’altro a diluire e “talk-izzare” il programma come avviene in Italia. Gara pura.    
Le audizioni, questa vota fatte davanti a un pubblico, e montate in flash veloci, salvo qualche storia particolare, sono state un mix di talenti e di dilettanti allo sbaraglio. Si è cominciato con una grintosa tredicenne che ha cantato “Mercy”, Rachel Crow, che ha decisamente passato il turno, e si è cercato di essere rispettosi nei confronti di due senior (70 e 83 anni) che non ci si capacita possano aver avuto un passato come intrattenitori. La fascia di età a cui è aperto il concorso insomma è molto più ampia che non in American Idol. C’è stata l’abissale caduta di stile del concorrente che si è mostrato in tenuta full monty, con la Abdul che ha lasciato il palco per andare letteralmente a vomitare, e la risalita in vetta dell’ex tossico pulito da 70 giorni, Chris Rene, spazzino e padre di famiglia, che ha proposto un pezzo suo per testo e musica e ha conquistato tutti e commosso.
È già emersa fortemente una nota tipica della cultura americana e dell’etica nell’affrontare in queste cose: “have fun”, divertiti. E allo stesso tempo la promessa a lavorare sodo. Hanno cominciato a volare scintille di contrasto fra Cowell e Reid – probabilmente servirà loro bene in seguito. L’energia c’era, se non l’originalità. Quella aspettiamo di vederla quando le squadre sono fatte e la gara si divide nelle quattro categorie di maschi, femmine, cantanti over-30 e gruppi vocali. Allora forse sì, non sarà più American Idol. Al vincitore spetta un contratto discografico di 5 milioni di dollari e uno spot pubblicitario con la Pepsi (il cui logo è stato in gran preminenza durante tutta la serata).

lunedì 26 settembre 2011

THE PLAYBOY CLUB: privo di ispirazione


È completamente privo di ispirazione The Playboy Club, la serie sulle conigliette di Playboy ambientata nella Chicago dei primi anni ‘60, che ha debuttato sulla NBC lo scorso 19 settembre. Nel pilot vengono mostrate un po’ le ragazze – Maureen (Amber Heard), Janie (Jenna Dewan), Alice (Leah Renee), Brenda (Naturi Naughton) e la coniglietta-madre Carol-Lynne (Laura Benanti) – anche se non vengono nemmeno messe a fuoco a sufficienza da distinguerle troppo bene le une dalle altre, ad eccezione di bunny Maureen. Nell’insipida prima puntata Maureen viene aggredita da un avventore che vuole provarci, si difende, interviene un altro degli uomini che hanno la chiave del club, il piacente avvocato Nick Dalton (Eddie Cibrian, Sunset Beach, CSI Miami), che la difende. Ci scappa il morto, che purtroppo per lei era un boss della mala – la sua dipartita, lo concedo, è stata originale, lo stiletto di uno dei tacchi di lei gli si è infilato dritto dritto nella carotide. Il resto della scena non ha avuto senso: perché mai, visto che il suo scopo era quello di amoreggiare con la ragazza, avrebbe dovuto continuare ad aggredirla una volta che è entrato un altro uomo? Non mi ha convinto, come molto del resto di questa serie che vorrebbe emulare Mad Men, ma non ci arriva vicino nemmeno per sbaglio, e dove il povero Nick Dalton è già avvilito in partenza dalla critica come un’imitazione mal riuscita di un Don Draper di serie B. La serie è priva di immaginazione, ha un  dialogo piatto e non coinvolge.
Tim Goodman sull’Hollywood Reporter ha messo il dito sulla prima evidente piaga, il fatto che lo show mina alla base quello che strombazza di voler fare, ovvero di voler mostrare il club come un luogo di empowerment femminile. Ora, che lo sia è discutibile – Slate suggerisce di rileggersi un illuminante classico articolo di  Gloria Steinem in proposito, “I was a Playboy Bunny” -, ma non credo che sia necessariamente falso. Certo, dal programma non si evince di sicuro. La prospettiva femminile praticamente non c’è. All’esordio e in chiusura c’è un voice over di Hugh Hefner. Nell’incipit dice che ha ideato un luogo dove tutto era perfetto, la vita era magica e le fantasie diventavano realtà per tutti quelli che attraversavano la porta d’ingresso. Ehm… per gli uomini forse, dubito per quelle che ci lavoravano. E in seguito viene ripreso il concetto dicendo che era il solo posto al mondo dove poter essere chi si voleva essere. Se sei pagato per essere la fantasia di qualcun altro, non direi che puoi essere quello che vuoi. Ad un certo punto della storia, Nick mantiene l’espressione imperturbabile di sempre, ma la Maureen di cui sopra ha la faccia lunga perché ha appunto appena ucciso un uomo e con l’aiuto di Dalton ha fatto un salsicciotto avvolto in catene del cadavere e lo ha buttato in acqua. Una collega le chiede se stia bene. Lei risponde in un qualche modo vagamente evasivo e di tutta risposta la collega le chiede se vuole che le passi un Tampax. Perché chiaramente una donna crede che i soli problemi di un’altra donna siano legati al ciclo mestruale. Questa scena, se ce ne fosse stato bisogno, ha completamente seppellito la serie per me.
Un altro grande problema di questo telefilm ideato da Chad Hodge (Tru Calling) è che in teoria le conigliette dovrebbero rappresentare una fantasia maschile appagata, in qualche maniera, ma da qui non si direbbe. Per prima cosa, non ci sono sessualità e sensualità. La serie non solo non mostra nulla, cosa che può anche ben essere una scelta estetica legata anche all’epoca messa in scena,  ma nemmeno ammicca. Se dovessi basarmi sui primi 45 minuti direi che queste conigliette non fanno altro che servire ai tavoli, cantare e vendere sigarette. Che cos’è che le rende speciali? Che cosa fa sì che siano una specie di sogno desiderabile? Non solo non c’è prospettiva femminile, non c’è nemmeno prospettiva maschile in questo senso. In che cosa consiste quel quid che le rende un modo a parte? Personalmente non ho mai avuto simpatia per l’immagine di quello che rappresenta la coniglietta di Playboy. Trovo deliziosamente seducente, anche nella sua vaga innocenza, il look con le morbide codine pelose tonde e il cerchietto con le orecchie che mi fanno molta simpatia, ma l’idea che ho è quella di ragazze giovani, belle, formose e disponibili che come solo altro requisito devono non dico essere (non credo che lo siano necessariamente), ma sicuramente sembrare oche. Da un punto di vista intellettuale, una bunny me la figuro insomma come una sorta di anti-geisha. Questa è la mia idea, che magari è uno stereotipo falso – l’articolo della Steinem ad esempio, in parte lo conferma, in parte lo smentisce. Se non corrisponde alla realtà, vorrei sapere: qual è invece l’ideale incarnato dalle conigliette? Se invece corrisponde alla  realtà, vorrei sapere: che cos’è che cercano gli uomini in una donna di questo tipo, che tipo di desiderio appaga? In che cosa consiste appunto la fantasia? La serie non solo non risponde alle domande, nemmeno se le pone. Manca eccitazione.
Perfino l’idea che queste ragazze costituiscono una sfida ai mores sessuali dell’epoca e magari aiutano a rivoluzionarli manca completamente. Niente è problematicizzato, e non intendo lo star lì con aria metidabonda a riflettere sulle questioni della vita, ma lasciar intendere che c’è qualcosa dietro alla facciata. Ho contato tre volte - ma magari sono meno o più, non ci metto la mano sul fuoco – in cui viene menzionato il fatto che le ragazze devono sorridere. Un sorriso: bastava una cosa come questa, che ci fosse una delle bunny che non avesse voglia di sorridere e che in qualche modo facesse capire che le toccava farlo lo stesso, che il suo mondo non era tutto una favola, che il fatto di guadagnare tanti soldi aveva un prezzo. Non c’è alcuna emozione, alcun coinvolgimento invece.
E non parliamo nemmeno dell’epoca messa in scena, rappresentata in modo completamente inverosimile: Brenda è una coniglietta nera, la sola nell’ambiente, che ha meno problemi nei rapporti coi bianchi di quanto probabilmente non ne avrebbe nel 2011. Aspira al paginone centrale di Playboy e, indicando le sue generose tette, dichiara che contro di quelle non si discrimina. Magari. Temo proprio che la realtà fosse ben diversa. All’epoca in cui è ambientato il telefilm non sono passati nemmeno 10 anni dalla sentenza Brown v. Board of Education e del superamento della vincolatività di Plessy v. Ferguson, ovvero dalla fine ufficiale della segregazione razziale. E Dalton a un certo punto fa una battuta a senso omoerotico verso un altro del club. Direi che non era proprio un’epoca in cui fosse così liberi in questo senso. Il qualche caso direi che non lo si è ora, figurarsi negli anni ’60. The Playboy Club insomma non ha nemmeno i requisiti minimi indispensabili per essere vagamente accettabile.         

venerdì 23 settembre 2011

THE CUBE: un gioco di abilità fisiche


Per una volta non è trash il nuovo programma condotto da Teo Mammucari, e già questa è stata una sorpresa, e cosa abbastanza poco frequente, parteciparvi non richiede saperi particolari, ma abilità fisiche. In “The Cube” (Italia1, mercoledì, prima serata) i concorrenti giocano all’interno di un cubo di resina acrilica trasparente di 4x4x4 metri. Ci sono sette sfide e 9 vite per portarle a termine (ogni volta che non si supera la prova se ne perde una), e due possibili aiuti, “semplificare” o la possibilità di fare un test della prova che aspetta, tutto per vincere prima 1000 euro, poi 2000, poi 5000 fino a un possibile montepremi di 100.000 euro.

Il game show si basa su prove apparentemente elementari: prendere contemporaneamente due palline che cadono dal soffitto, lanciare delle palline all’interno di un bersaglio mobile, tenere in equilibrio una pallina mentre su una superficie percorrendo un percorso, raccogliere 25 sfere in 15 secondi e metterle in un contenitore, appoggiare un piccolo cubo sul pavimento lì dove è stato visto per ultimo in una serie di proiezioni… superarle però non è affatto semplice. “In bocca al cubo” ha augurato a un concorrente il padrone di casa nella prima puntata; “in cubo alla balena” ha risposto questi. Ci si può ritirare per non perdere il vinto, e a consigliare su che cosa è meglio ci sono familiari e amici presenti.

Ideato in Inghilterra da Adam Adler, è stato sviluppato per la versione italiana da Fatma Ruffini, ma in realtà - immagino per sfruttare la struttura scenografica già esistente – non è girato in Italia, ma a Londra dove a diventare protagonisti sono nostri connazionali ormai emigrati, cosa che già solo per questo assume un taglio originale. È sicuramente più divertente da fare che da guardare e se non c’è già la versione a videogioco, sicuramente dovrebbe esserci. Per lo spettatore ad aumentare la tensione sono il sapiente uso dell’attesa e del rallenty. La prossima settimana c’è la quarta e per ora ultima puntata.

giovedì 22 settembre 2011

UP ALL NIGHT: in piedi tutta la notte


I Brinkley hanno appena avuto una adorabile bambina. Reagan (Christina Applegate, Samantha Chi?) deve tornare al suo lavoro di produttrice di un talk show del daytime intitolato “Ava”, La sua assenza per maternità si è fatta sentire e la protagonista del programma, Ava appunto (Maya Rudolph)  - che è intesa come una sorta di versione al femminile di Jack Donaghy di 30 Rock -, la reclama. Il marito Chris (Will Arnett, Arrested Development) ha rinunciato al lavoro di avvocato per stare a casa a prendersi cura della bimba. Lavoro in casa o fuori in ogni caso, per entrambi c’è una certezza: nei mesi a venire è molto probabile che debbano stare Up All Night, in pieni tutta la notte, come recita il titolo della sit-com che ha debuttato lo scorso 14 settembre sulla NBC.
La premessa è sufficientemente realistica, ma poi le situazioni risultano poco credibili: Chris che deve telefonare alla moglie in panico perché non trova il formaggio al supermercato, entrambi che si prendono una colossale sbronza per passare a serata dell’anniversario a cantare al karaoke fino a tarda notte per fare come facevano prima dell’arrivo della bimba… E la parte relativa al lavoro di lei è inguardabile (una dieta di purificazione che va storta non è materiale da pilot, ma da crisi di idee alla  sesta stagione).
Che Reagan si sia immaginata che Matt Lauer – il noto giornalista conduttore del programma mattutino “The Today Show” – le parlasse dal televisore è stato anche divertente, e ho molto apprezzato il piccolo inside joke per cui Lauer nell’annunciare una notizia, prima che la neo-mamma cominciasse ad allucinare che si rivolgeva a lei, parla di una certa dottoressa Spivey. Emily Spivey (Parks and Recreation) è infatti l’ideatrice della serie. Gli interpreti sono bravi e c’è qualche momento dolce, forse come dramedy avrebbe anche funzionato, ma come sit-com questa nascita è stata davvero deludente.