lunedì 6 settembre 2021

THE CHAIR: per un paradigma di sviluppo umano

Sono tutte persone che stanno metaforicamente annegando e devono arrabattarsi per stare a galla, i personaggi di The Chair – La direttrice (Netflix), la commedia in sei dinamiche puntate di mezz’ora circa ideata da Amanda Peet (Togetherness), anche produttrice esecutiva insieme a David Benioff e D.B. Weiss (Game of Thrones), e Annie Julia Wyman, una laureata di Stanford con PhD in inglese ad Harvard che come accademica ha un grande interesse per la comicità, sulla quale lavora in prospettiva di una teorizzazione trans-storica (profilo LinkedIn; bio sul sito di Harvard).

Ji-Yoon Kim (Sandra Oh, Grey’s Anatomy) è la prima donna, peraltro di origine coreana, a diventare direttrice (chair, in originale) di un dipartimento di lingua e letteratura inglese in un’università, il fittizio Pembroke College, che sta perdendo rapidamente iscritti. Avere quel ruolo è per lei il sogno di una vita che si realizza, ma si trova subito a dover affrontare situazioni spinose. Il preside Paul Larson (David Morse) la informa che, dato che i fondi sono scarsi, deve mandare in pensione alcuni professori che, pur bravi, non attirano studenti. L’anziana studiosa di Chaucer, Joan Hambling (Holland Taylor), che riceve innumerevoli recensioni negative, è stata relegata in uno scantinato; le classi del professore di letteratura americana Elliot Rentz (Bob Balaban) sono così scarne che Ji-Yoon, per non ferire il suo ego, unisce le sue lezioni a quelle dell’emergente, grintosa, richiestissima collega Yazmin McKay (Nana Mensah), che aspira a diventare di ruolo e di cui lui però non condivide il metodo didattico. E poi c’è Bill Dobson (Jay Duplass), ammirato professore di modernismo che, vedovo da circa un anno, perde un po’ la rotta ora che la figlia parte per il college e lui rimane solo: Ji-Yoon gli vuole bene. Sul fronte di casa, la direttrice è separata dopo che il compagno si è trasferito per lavoro e l’ha lasciata per un’altra. È madre adottiva della bimba ispanica Ju-Hee (Everly Carganilla), detta Ju-Ju, a cui ogni tanto finisce per fare da baby-sitter il vecchio padre che le parla in coreano, Habi (Ji-Yong Lee).

Non c’è un momento di pausa in questa produzione che, scrive bene The Atlantic (qui), segue la struttura della piramide di Freytag: nello spazio di circa tre ore affronta con leggerezza bene molte questioni significative, anche se ritengo fallisca nella sua argomentazione principale.

Un punto forte della serie è che si vede che chi scrive ha una effettiva competenza letteraria che va al di là della citazione erudita. Troppo spesso certe professioni si pensa che possa farle chiunque perché il senso comune fa ritenere intuitivo un certo genere di sapere. In chiusura si fa una dichiarazione d’amore per le lettere: una storia è uno stato di possibilità, una conversazione, un’occasione per appropriarsi di un punto di vista diverso dal proprio. Dal primo all’ultimo, i personaggi sono convinti di svolgere un compito sociale rilevante insegnando lettere. Quando la scuola decide di assumere David Duchovny (The X-Files), nel ruolo di sé stesso, per sostituire Bill, in modo da attirare nuovi iscritti grazie alla sua fama, Ji-Yoon si mostra indispettita del fatto che, come syllabus questi vuole rispolverare la dissertazione di dottorato mai finita scritta decenni prima. Ma gli studi sono andati avanti. Gli snocciola (1.05) che nel frattempo ci sono stati teoria degli affetti, ecocriticismo, informatica umanistica, nuovo materialismo, storia del libro, studi di genere e teoria critica della razza…Quello che la serie fa qui è mostrare con consapevolezza che, forse dall’esterno appariranno statici, ma anche in questi studi ci sono ricerca e novità di rilievo per il pensiero. E in tutto il percorso diegetico – e in che modo necessiterebbe uno specifico approfondimento – ci si tiene in costante equilibrio nella necessità di dar valore allo stesso tempo alle radici passate e alle innovazioni di concetti e prospettive e metodologie. Mai l’ho visto fare come qui. Anche perché l’unica serie che io ricordi che si è avvicinata a queste tematiche è la troppo-presto-cancellata The Education of Max Bickford.

Un ulteriore punto di forza è la multiculturalità. Madre di origine coreana e figlia ispanica sembrano avere di fatto poco in comune, eppure le tradizioni di ciascuna convivono e si intersecano in modo pregnante. La piccola Ju-Ju viene accompagnata ad una cerimonia Doljabi, dove una bimba di un anno deve scegliere fra diversi oggetti, che rappresentano quello che le riserva il futuro. Ci sono uno stetoscopio (sarà medico), una matita (insegnante), un pennello (artista), una pallina (sportiva), una banconota (ricca), e una lunga corda (avrà lunga vita). Poi però in casa contemporaneamente si prepara per essere ambasciatrice culturale per la sua classe del messicano Dia de los muertos, e per Bill che la segue in queste tradizioni culturali hanno un impatto umano che va al di là dell’aspetto folkloristico. Per la piccola unirle è naturale e in chiusura - ATTENZIONE SPOILER – la vediamo capire un’osservazione fatta in coreano dal nonno, quando quest’ultimo era convinto che lei non lo intendesse.

Dove ritengo che l’intenzione degli autori fallisca è nella gestione della propria storia principale. Bill, durante una lezione seguitissima, videoregistrata coi cellulari, nel fare considerazioni sul potere e il fascismo, in modo satirico fa il saluto nazista. La reazione degli studenti rispetto a quel gesto innesca un focoso dibattito sulla libertà di espressione e sull’importanza del dissenso e culmina con la sospensione e successiva richiesta di licenziamento dell’insegnante.

Ora, la questione di Hitler mi è parsa pretestuosa. Questo non perché un evento del genere non possa verificarsi  - anzi, posso dire senza timore di smentite che una cosa del genere si è verificata nel mio liceo, con intenzioni molto meno sacastiche da parte dell’insegnante di quanto non si sia verificato qui e con una gestione dell’accaduto molto differente. Questo nemmeno perché non meriti di venire messa in discussione l’opportunità in toto di un simile gesto, anche se con un intento di certo non di supporto dell’ideologia che rappresenta. Però qui sta il punto, se dico che la questione è stata pretestuosa è perché, sebbene la lettura che ne è stata fatta sia stata pronazista, allo spettatore è evidente senza alcunissima ombra di dubbio che non era minimamente intesa in quel modo, ma era di critica e di smacco. Forse non era appropriata comunque, e questo meritava di essere discusso – ovvero quali siano i limiti dell’espressione del pensiero e in che modo specifici registri di espressione possano colorare una stessa locuzione con un significato piuttosto che con un altro – ma non si sono di fatto messi in contrapposizione due modi di pensare diversi.

Il professore e gli studenti la pensano allo stesso modo qui rispetto al nazismo, ma il professore lo ha comunicato in un modo che non è stato decodificato come era inteso. E qui sta per me il fallimento, che è un fallimento pedagogico. Questo quei professori dovevano insegnare. La serie sottoscrive l’idea per cui l’educazione (e tanto più quella universitaria) non è solo passiva assimilazione di contenuti, ma è una formazione a un metodo e un allenamento a recepire fatti e traduzioni culturali in modo attivo e critico, tenendo conto delle complessità. Qui c’è un atteggiamento di un ragionevole dissenso verso un contenuto tossico, ma contemporaneamente appunto pretestuoso, perché incapace di legare quel gesto al significato che aveva nel contesto con cui è stato utilizzato. Se fosse stato un gesto fatto sul serio sarebbe stato diverso ma così si mostra solo un corpo studenti privo degli strumenti necessari per leggere appropriatamente un elemento del discorso. Potevano osteggiarlo ugualmente appunto, nella sua opportunità – i riferimenti al nazismo sono purtroppo sufficientemente ubiquitari da rendere rilevanti simili disquisizioni. Così gli autori hanno solo trovato una facile scappatoia per creare un contrasto senza compromettere un co-protagonista dandogli un modo di pensare scomodo (che poteva essere un tema anche meno problematico di questo). Per aver costruito gran parte della sua narrazione intorno a questo nucleo, si sono curate troppo poco le argomentazioni. Un piano di speculazione importante poteva essere dato dalla dissonanza fra quello che è e quello che sembra, e sul ruolo dell’apparire in un certo modo, tanto più in una società visuale come la nostra – tangenzialmente infatti questi temi sono emersi. Insomma, l’agone intellettuale ingaggiato doveva essere combattuto su un piano diverso.

Ci sono in nuce variegate riflessioni sul ruolo delle donne e delle minoranze etniche, su come è cambiato nel tempo, in un ambiente tradizionalmente dominato da uomini bianchi restii al cambiamento, in modo minore anche sull’ageismo – Joan, declinata prevalentemente in modo comico, ne è un esempio; si desume dalle poche parole della moglie del rettore; Yaz, in modo molto interessante, rimarca a Ji-Yoon che si comporta nel suo ruolo come se finalmente le concedessero di averlo, non come se lo meritasse. Emerge anche la flessibilità del mondo accademico americano, comparata al nostro.

La protagonista principale ama insegnare, ma quello che deve imparare a navigare sono le richieste burocratiche, le pubbliche relazioni, le pressioni di budget e di gestione del personale… Sono questioni che non ha il lusso di poter ignorare, ma alla fine in ogni caso quello che si può evidenziare – e si rileva nella protesta di Bill nei confronti del tentativo di influenzare la scelta della bimba di un anno nella cerimonia doljabi come dalle parole di Ji-Yoon che lo difende dinanzi alla commissione disciplinare – è che la serie crede in quello che Martha Nussbaum, nel suo “Not For Profit” chiama un paradigma di sviluppo umano contrapposto ad un paradigma orientato alla crescita economica, un’argomentazione non da poco per una serie frizzante di circa tre ore totali che spero rinnovino per una seconda stagione.     

venerdì 27 agosto 2021

THE WHITE LOTUS: satira dolorosa e umoristica

Ideato, sceneggiato e diretto in modo brillante e avvincente da Mike White (Enlightened), The White Lotus (HBO Max, e dal 30 agosto 2021 su Sky Atlantic per l’Italia) è un dramma comico-satirico ambientato in un resort di lusso alle Hawaii. Gli ospiti della struttura vanno lì in vacanza, ma non riescono a prendersi una pausa dai propri problemi, anzi questi vengono intensificati dalla reciproca prossimità, con una progressiva escalation esplodono, e si creano pesanti frizioni con il personale che gestisce l’albergo, mettendo in luce come le diverse posizioni di privilegio (economico, sociale, razziale, di gender) impattano la vita di ciascuno. Già dal pilot, dai primi minuti, sappiamo che ci scapperà il morto, perché la salma di un cadavere viene imbarcata sull’aereo di ritorno, ma solo alla fine (1.06) scopriamo chi è la vittima, in quella che è una serie antologica già rinnovata per una seconda stagione.

Armond (Murray Bartlett, Looking), direttore del resort il Loto Bianco (the White Lotus), è un uomo gay sempre con il sorriso sulle labbra con passati problemi di dipendenza da droghe e alcol, sobrio da 5 anni, che insegna a una neoarrivata che mostrare sé stessi è scoraggiato per i dipendenti. Loro praticano quello che lui chiama “kabuchi tropicale”, ovvero indossano perennemente delle maschere, con il solo obiettivo di trattare gli ospiti come bambini, coccolati e fatti sempre sentire speciali. Presto la sua facciata crollerà, sotto forti e ripetuti attacchi.

Ci sono tre gruppi di persone che arrivano in questo piccolo angolo di paradiso. Nicole (Connie Britton, Nashville, Friday Night Lights, American Horror Story) e Mark (Steve Zahn, Treme) Mossbacher sono una coppia un po’ in crisi. Lei è la manager finanziaria, molto performante e controllante, di un motore di ricerca, lui è il marito che è in ansia perché teme di avere il cancro ai testicoli. Con loro ci sono il figlio Quinn (Fred Hechinger), interessato più al telefonino e ai videogiochi che a qualunque tipo di attività e socializzazione, ostracizzato dalla sorella Olivia (Sidney Sweeney, The Handmaid’s Tale) che si è portata in vacanza una cara amica del college, Paula (Brittany O’Grady, Little Voice). Quest’ultima viene presto attratta da Kai (Kekoa Scott Kekumano), che fa parte dello staff del resort.

Shane (Jake Lacey, Ms America, Fosse/Verdon) e Rachel (Alexandra Daddario, True Detective) Patton sono due novelli sposi in luna di miele. Lui è un odioso bullo, cocco di mamma Kitty (Molly Shannon), che scontento perché gli è stata assegnata una suite diversa da quella prenotata, diventa una spina del fianco della direzione. Rachel lo ha sposato senza conoscerlo bene come credeva e si accorge presto di aver fatto un errore e di esser per lui solo una moglie trofeo. Lui in realtà non la ascolta. È una giornalista free-lance, ma con poco talento e prospettive, ed è indecisa su quale sia la decisione migliore da prendere per il proprio futuro.

Tanya (Jennifer Coolidge, Two Broke Girls) è una donna matura, piena di dolori fisici ed emozionali, sull’orlo del tracollo, che è venuta a disperdere in mare le ceneri della madre scomparsa. Trova il sostegno della responsabile della spa dell’albergo, l’empatica, disponibile Belinda (Natasha Rothwell, Insecure), a cui propone anche di avviare un’attività in proprio, e in seguito lega con un uomo con problemi di salute, Greg (Jon Cries).  

Se la premessa può suonare un po’ Fantasilandia, già le immagini della sigla d’apertura, una carta da partati in cui i disegni di paradiso terrestre sanguinano, si decompongono, o diventano comunque “disturbanti”, fanno capire che non assisteremo a uno spensierato idillio. Gli opening credits si chiudono con il logo del Loto bianco (e il fatto che White sia anche il cognome dell’autore è un bel tocco): è un fiore che è simbolo di rinascita, ma non solo, si mostra bello ma affonda le proprie radici nel fango (Salon). Tra l’altro, nella diegesi, per bocca di Armond si cita anche la lirica “I mangiatori di loto”, “che parla di andare alla deriva nella vita e di non integrarsi realmente alle cose e di volersi nascondere dalla realtà della vita" (Salon). L’apparenza di lusso e perfezione perciò è una copertina che nasconde ben altro.  

La costruzione dei singoli personaggi e di che cosa li motiva, e dei rapporti fra loro, è forte e ben delineata. Armond e Tanya in particolare, nella loro spirale, lui tragica, lei in positivo, sempre sull’orlo del crollo definitivo, sono ineccepibili. Le dinamiche si creano in un crescendo via via più intenso e riescono a mostrare le vulnerabilità di ciascuno. Belinda raccoglie le paure e i dolori di Tanya, che le si aggrappa in modo disperato, nel tentativo di colmare il proprio vuoto; si crea apparentemente un rapporto intenso, ma alla fine Tanya è troppo autocentrata e incapace di comprendere il male che provoca a Belinda, che ne esce distrutta. Shane è il bambino ricco e viziato che fa i capricci se non ottiene tutto quello che vuole e Armond è il sottoposto costretto a fare i salti mortali per accontentarlo fino ad arrivare all’esasperazione.

Paula e Rachel osservano una realtà che non approvano, ma alla fine non riescono a disvincolarsi da essa: per paura, per comodità, per mancanza di alternative. Quinn è forse l’unico che, costretto ad una vita altra, riesce ad apprezzarla e a sceglierla. In Pop Culture Happy Hour (qui) si è fatta l’osservazione di come guardando i personaggi all’interno del proprio gruppo si vede che hanno problemi come tutti e sono magari brave persone, ma nel rapporto verso l’esterno si vedono i loro punti deboli e come perpetuino certe dinamiche negative, anche solo per “associazione”. Rachel non è una cattiva persona e non si comporterebbe mai nel modo disgustoso in cui fa suo marito nei confronti del personale, ma per associazione anche lei si rende complice di quel comportamento nel momento in cui, pur non mettendolo in atto in prima persona, ne ottiene i vantaggi collegati. Il tema del colonialismo riemerge più volte, in particolare attraverso Olivia, disturbata dallo spettacolo di nativi hawaiiani ridotti a dare spettacolo per un gruppo di bianchi, responsabili di averli derubati delle proprie terre.

Lo humor è sempre presente, sottile, cringe. La visione è sempre godibilissima. La fine anteposta, in cui sappiamo che c’è un cadavere, ormai uno stratagemma narrativo abusato, fa sì che ci aspettiamo che qualcuno muoia, e si ipotizza chi in corso di via, ma non è mai quello il vero motore. Alla fine in fondo quell’aspetto è anche anticlimatico. L’ipnotizzante musica, a partire da quella della sigla, ci trasmette un costante senso di vaga minaccia. L’autore ha dichiarato (Los Angeles Times) che voleva un genere di musica che facesse sentire allo spettatore l’ansia di un possibile imminente sacrificio umano, come se si fosse in una sorta di Hitchcock hawaiiano. La colonna sonora creata da Tapie de Veer “presenta flauti discordanti e percussioni in costante accelerazione stratificate con grida animalesche e intensi gemiti”; ha “anche usato uno strumento sudamericano chiamato charango (simile a un ukulele); una dozzina di tamburi di diverse culture (per lo più tamburi fatti a mano in legno e pelle animale); una varietà di shaker naturali; e un po' di piano malinconico”. È inquietante, e ben si alterna a momenti vocal in hawaniiano che danno un’identità musicale molto ben definita e memorabile.

La serie è anche ricca di numerose citazioni librearie: da Nietsche, a Freud, a “L’Amica Geniale” di Elena Ferrante, a “Blink” di Malcom Gladwell, nelle mani di Shane, e altri ancora.

Bellezza di superficie e una disillusa, feroce, dolorosa e umoristica realtà al di sotto. 

martedì 17 agosto 2021

THE NEVERS: uno steampunk whedoniano

Che cosa significa essere una donna? Essere zittita se vuoi usare la tua voce, magari per sempre se quello che canti dà speranza alle altre. Essere vilipesa e vista come un pericolo se mostri talento, estro, doti particolari. Essere allontanata ed emarginata se sei diversa. La sola via d’uscita è unirsi alle altre, è contare sulla sorellanza.

Sembra questo il messaggio di fondo di The Nevers (HBO, Sky Atlantic), ambientato nella Londra vittoriana. Joss Whedon è diventato Joss Whedon per una ragione: si sarà anche giustamente trasformato in un paria per i comportamenti abusanti di cui è stato accusato, ma non c’è dubbio che sappia fare il suo mestiere. In questa produzione si sente il suo stile e il suo gusto, e quello del suo team (Jane Espenson in primis), compresa la sua inclinazione a ibridare i generi e a costruire arguti repartee. Questa non è la più riuscita delle sue opere, ma questa creazione steampunk è solida a sufficienza, con pennellate che rimandano alla settimana stagione di Buffy (con le “potenziali”) e magari echi di Dollhouse e Firefly. Percepire lui dietro a tutti per molti sarà una nota dolente, ma non per me, che non ho difficoltà in questa istanza a separare opera e autore.  

A causa di un evento sovrannaturale di una nave spaziale aliena che rilascia delle spore, alcune persone, donne soprattutto ma non solo, ricevono doti particolari, chiamate “turn” in originale, “svolte”. Sono i “Toccati”, visti dal governo britannico e dalla popolazione ordinaria come un pericolo. Amalia True (Laura Donnelly, Outlander), una giovane vedova che ha delle premonizioni a flash su eventi futuri, prende sotto la sua ala protettrice le sue simili in un orfanatrofio, di proprietà di Lavinia Bidlow (Olivia Williams, Counterpart), una ricca ereditiera confinata sulla sedia a rotelle. Accanto ad Amalia, che ha periodica necessità delle cure del dottor Horatio Cousens (Zackary Momh) che ha il potere della guarigione, c’è la sua migliore amica Penance Adair (Ann Skelly), prodigiosa inventrice che precorre il suo tempo. Da lei è attratto Augustus “Augie” (Tom Riley), fratello minore di Lavinia, anche lui con un potere che tiene segreto, quello di possedere la mente degli uccelli. Altre dotate di “svolte” sono la matura Lucy (Elizabeth Berrington), che distrugge le cose al toccarle; Myrtle (Viola Prettejohn), che parla infinite lingue mescolandole; Primrose (Anna Devlin), alta più di tre metri; Harriet (Kiran Sonia Sawar), che con un soffio tramuta tutto in vetro; Désireé (Ella Smith), prostituta che riesce a far confessare a chiunque quello che chiede; l’angelica Mary (Eleanor Tomlinson, Poldark), che con la sua voce riesce a cantare una melodia che quelli come lei riescono a sentire… Di quest’ultima è innamorato Frank Mundi (Ben Chaplin), l’ispettore di Scotland Yard, che cerca in particolare di catturare Maladie/Sarah (Amy Mandon) che, squilibrata e piena di dolore, è a capo di un gruppo di ribelli, fra cui Annie (Rochelle Neil) che produce e lancia fuoco dalle mani. Nelle loro vicende rimane coivolto anche Nimble Jack (Vinnie Heaven), ladro transessuale che riesce a produrre degli scudi “volanti”.      

A capo del potere tradizionale che non vede di buon occhio i cambiamenti c’è Lord Gilbert Massen (Pip Torrens, The Crown, Poldark), che incarna il passato, l’Impero, il patriarcato; il dottor Edmund Hague (Denis O’Hare, True Blood, American Horror Story) è un chirurgo che fa esperimenti sui “toccati” per capirne le “svolte”; Hugo Swann (James Norton) è un aristocratico pansessuale che impiega le doti di questi esseri speciali nel suo privato club sessuale; il “Re Mendicante” (Nick Frost) è un leader dei criminali londinesi; i “puristi”, che si identificano con un fazzoletto rosa annodato intorno al braccio, pure, sono un movimento di persone ostili.

La prima stagione è stata suddivisa in due parti, e a chiusura della prima vendono date alcune essenziali spiegazioni su come tutto questo ha avuto origine. In “True” (1.06) infatti la narrazione si sposta in un futuro remoto in cui un’unità di soldati della Coalizione di Difesa Planetaria (PDC) cercano di difendere un Galanthi da un’altra fazione chiamata FreeLife Army. I Galanthi sono una razza aliena in grado di attraversare portali spazio-temporali che cercano di aiutare gli umani a salvare una terra sull’orlo dell’annientamento ecologico. A emergere è il personaggio di Stripe (Claudia Back). Qui il fulcro della mitologia di base, che dall’elenco di personaggi sopramenzionati è evidente essere molto ricca e dettagliata, è definito con chiarezza, e chiude la parentesi whedoniana.

Che sia un’allegoria antropologico-politica è perfino scontato da dire. Quella che è riuscita è la commistione passato-presente-futuro in modo che commenta la realtà su più livelli temporali. E l’asse di scontro principale è fra tradizione e progresso. Lord Masse e Amalia hanno un diverbio in cui lui sostiene che il caos non è cambiamento, che nel mondo c’è un’armonia che vale la pena preservare, e che gridare per avere riconoscimento non rende la gente degna di ottenerlo. Lei ribatte acutamente che l’armonia, per come la capisce lei, è formata da voci differenti che cantano note differenti, al che lui rincalza ammettendo che è vero, ma che una è sempre sopra all’altra (1.01). In seguito (1.05), l’aristocratico osserva che una cosa che minaccia l’ordine naturale, per quando carina possa essere, è per definizione mostruosa, mentre il Re Mendicante sostiene che in realtà non c’è niente di naturale nell’ordine. Quello che è il motore di fondo ideologico qui sembra perciò essere proprio la lotta e l’equilibrio fra rivoluzione e restaurazione, fra passato e futuro, in ogni possibile declinazione, come si incontrano e scontrano. 

Si è in bilico fa momenti di lotta fisica e momenti più meditati e delicati, ma nel personaggio centrale della tosta True c’è matura disillusione, ma anche consapevolezza dell’importanza di combattere per quello in cui si crede. E senso di solidarietà, particolarmente solido nell’amicizia fra lei e Penance, che ancora le vicende.

Dal settimo episodio la serie va in mano alla showrunner britannica Philippa Goslett, di cui al mio scrivere ancora si devono vedere le creazioni (previste per il 2022), e si può solo aspettare per capire che cosa il programma diventerà.

sabato 7 agosto 2021

SERVANT: dall'atmosfera creepy

In Servant (su Apple TV+, già dal novembre 2019), i Turner, Dorothy (Lauren Ambrose, Six Feet Under), giornalista televisiva di successo, e Sean (Toby Kebbell), cuoco-fotografo culinario che si definisce un bon vivant professionale, una coppia di Philadelphia, hanno perso un bambino di tredici settimane, Jericho (Mason e Julius Belford). La madre ha rimosso l’evento e per aiutarla a ritornare gradualmente alla realtà dopo il crollo psicologico le hanno affidato, come oggetto terapeutico transitorio, una bambola che lei tratta come un bambino vero, tanto che finisce per assumere una tata a tempo pieno, Leanne (Nell Tiger Free, Game of Thrones), che si trasferisce a casa loro per prendersi cura di lui. La ragazza, che viene da un paesino rurale del Wisconsin, è molto timida, riservata e religiosa, non batte ciglio e si prende cura dell’oggetto come se fosse un bambino vero. Lo diventa, e questo spaventa e insospettisce Sean, che comincia a indagare su chi sia questa ragazza, e Julian (Rupert Grint, il Ron di Harry Potter), fratello minore di Dorothy.

Con già una seconda stagione a disposizione, ideata da Tony Basgallop che è sceneggiatore di tutte le puntate del primo arco, e con M. Night Shayamalan (Il Sesto Senso), che fa anche un breve cameo nel ruolo di un fattorino della pizza ed è regista di alcune puntate, fra i produttori esecutivi, la serie si muove sul terreno dell’inquietante. Il fulcro è il lutto e la depressione post-partum. Tagli obliqui, inquadrature di primissimo piano e a grandangolo, palette grigia, ritmo da perenne suspense, ansia sottesa, insistenza sui dettagli di cibo che viene eviscerato per le preparazioni del giorno e attenzione al senso del sapore. Anche se lo chiamano horror non mi sento di definirlo tale, perché non c’è nulla che faccia paura, ma è creepy al punto giusto, con un tocco di sovrannaturale.  

Lauren Ambrose mostra una Dorothy volutamente troppo gioiosamente carica e allegra e per questo sempre in qualche modo stonata rispetto all’ambiente e alla situazione. Sean per qualche ragione si trova sempre schegge di legno in qualche parte del corpo e ha perso il senso del gusto e dell’olfatto (e non c’entra il COVID). La glaciale Leanne è in bilico fra l’innocenza, l’ossessione religiosa (prega inginocchiata davanti al letto ogni sera, si fustiga la schiena e realizza crocifissi di stoppie). Percepisci che l’equilibrio mentale è andato perduto e c’è un senso perenne di minaccia, ma la lancetta si sposta costantemente fra la madre Dorothy e la tata Leanne, senza essere mai certi su chi è più instabile e per questo potenzialmente pericoloso. Julian è il mondo esterno che entra nella claustrofobia di quella casa e non sa bene come intervenire. Sean pure rimane di fatto fondamentalmente inerme, più focalizzato sulle proprie creazioni culinarie che autenticamente responsivo.

Le 10 puntate della prima stagione vanno da qualche parte nel senso che si arriva, almeno in parte, a spiegare perché Jericho è morto; intriga ma non trascina. Pur essendoci qualche colpo di scena, c’è un certo senso di staticità, di reiterazione di schemi fissi, che non ammette nemmeno troppa vera umanità nei personaggi, ingabbiati in un dolore che soffoca, si direbbe, anche la narrazione: si suonano le stesse note ancora e ancora, senza che appaia di fatto ripetitivo, ma piuttosto psicologicamente anestetizzante, paralizzato.  Uno show non imperdibile, ma da godersi più che altro per l’atmosfera che crea.

giovedì 29 luglio 2021

LITTLE FIRES EVERYWHERE: razzismo e arte

Little Fires Everywhere (Amazon Prime) incorpora la propria poetica nella diegesi con una riflessione dall’evidente valore metatestuale all’inizio della sesta puntata. In una lezione universitaria di arte, e in particolare di fotografia, ci si interroga: “Che cos’è la bellezza? Come la si riconosce? La troviamo nello straordinario? Nella quotidianità? O in das Umheimlich? Il perturbante”. Si continua spiegando che Freud definiva quest’ultimo come quella sorta di spaventoso che risale a ciò che ci è noto da tempo, a ciò che ci è familiare, e che in quel semestre l’intenzione è di guardare a ciò che è usuale e casalingo e a come diventi perturbante, repellente o anche terrificante, fuori ma anche dentro se stessi. La serie fa questo, guarda a quelle parti di noi che abbiamo paura di guardare, ed in particolare, ma non solo, lo fa guardando e mettendo sotto i riflettori il tema del razzismo, quello strisciante e mascherato, sistemico e pervasivo.

Si esordisce con l’incendio che dà il titolo alla miniserie: tanti piccoli fuochi sono stati all’origine di quel disastro. Si va indietro per capire come si è arrivati a quel punto. Siamo a Shaker Heights, un quartiere realmente esistente a Cleveland, in Ohio. Mia Warren (Kerry Washingon, Scandal) è una fotografa che gira il Paese in compagnia della figlia Pearl (Lexie Underwood), non fermandosi mai troppo a lungo in un luogo, e lavorando come cameriera part-time per sbarcare il lunario. Va a vivere in affitto nella dependance di una ricca famiglia, formata da Elena Richardson (Reese Witherspoon, Little Fires Everywhere), reporter part-time, sposata con Bill (Joshua Jackson, The Affair), un avvocato dal quale ha avuto quattro figli: Lexie (Jade Pettyjohn), studentessa modello; Izzy (Megan Stott), pecora nera della famiglia; Trip (Jordan Elsass, Superman & Lois), molto popolare; e Moody (Gavin Lewis), più timido e riservato. Fra Mia ed Elena non corre buon sangue, ma la figlia di Mia trova appoggio e conforto in Elena, e viceversa le figlie di Elena in Mia. Quando Mia decide di aiutare Bebe (Huang Lu), una collega immigrata irregolare, a riprendersi la figlia Mei-Ling data in adozione ad un’amica di Elena, Linda (Rosemarie DeWitt), e nell’interazione fra le due famiglie, emergono segreti tenuti a lungo custoditi.

Liz Tigelaar, che trasporta su schermo l’omonimo libro di Celeste Ng, che ho letto e che ritengo reso con acume, è molto misurata, a carburazione lenta, ma ricca di eventi. Meno viscerale di quanto non sia l’arte fotografica usata nelle diegesi di cui è autrice una delle due protagoniste principali, nondimeno riesce ad essere chirurgica nello sviscerare gli stati d’animo e le motivazioni delle due donne che si contendono la scena. E le due attrici, in forma smagliante, riescono a rendere credibili le rispettive vulnerabilità e il rapporto di schiumoso astio a stento trattenuto fra le due.  

Allo stesso tempo, se proprio una critica negativa devo muovere, non va molto per il sottile, vuole proprio essere sicura che attribuiamo a razzismo interiorizzato e inconsapevole atteggiamenti che, a mio vedere, in qualche caso erano altro. O attribuisce a ipocrisia comportamenti che forse sono biasimevoli nella loro cecità, ma sono comunque messi in atto in buona fede. Forse sono io che, ingenuamente, non lo vedo per il razzismo che effettivamente è, anche se è razzismo ben coperto da una patina di gentilezza. In ogni caso, anche lì dove io vi davo un’altra spiegazione, se non altro ha mostrato come sia facile anche interpretarli come tali lì dove colora davvero tutto. E ha saputo ben mostrare come il privilegio facilmente dà delle opportunità che ad altri semplicemente non sono a disposizione e come essere bianchi rientra fra questi provilegi. Una donna povera di origine cinese finisce per perdere la propria bambina che viene data in adozione – non può permettersi di darle da mangiare. La proprietaria di un negozio non le presta nemmeno una cifra irrisoria per sfamarla. Quello stesso ammontare è abbuonato senza problemi a Izzy una ragazzina bianca che non ha i soldi per pagare il biglietto dell’autobus. Lei avrà anche problemi suoi in quanto lesbica e gender nonconforming, ma nella scala sociale rimane comunque in una situazione di vantaggio.

Cambiare come guardiamo le cose cambia le cose, propone una narrazione diversa, trasformativa: questo in una cornice che esplora temi come l’identità, i segreti, la maternità, i rapporti madre-figlia, l’arte. 

lunedì 19 luglio 2021

SCHMIGADOON!: un ironico "Brigadoon" moderno

Quando avevo letto che era in previsione una comedy intitolata Schmigadoon! (AppleTV+), ho pensato che non avrei potuto assolutamente perdermi una serie con un titolo così divertente e perfetto. Si capisce all’istante che è una parodia - in inglese il prefisso “schm” è un prestito yiddish che segnala in qualche modo una presa in giro - di Brigadoon un romantico musical del 1947 di Vincente Minellli, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale, che amavo da ragazzina (anche se ora ammetto di non ricordarlo molto). E poi, con quel cast! Anche solo la presenza di Alan Cumming (The Good Wife), che qui interpreta il sindaco Menlove (nomen omen) mi sarebbe stato sufficiente, ma qui c’è imbarazzo di abbondanza di nomi noti e amati, alcuni con un invidiabile pedigree di teatro musicale: Fred Armisen (il Reverendo Layton); Kristin Chenowith (la signora Layton); Jaime Camil (Doc Lopez); Jane Krakowski (la contessa); Martin Short (il leprecauno)…  

Lì dove ci sono grandi aspettative, c’è sempre il rischio che vengano deluse. Posso dire che dalle prime due puntate che ho visto, di sei previste, non delude.

Josh (Keegan Michael-Key) e Melissa (Cecily Strong), due medici newyorkesi, sono una coppia in crisi che decide di prendersi una vacanza col proposito di rinvigorire il loro rapporto. Durante una camminata si perdono. Arrivano a un ponte che attraversano e sono subito nella cittadina stile anni-40-50 di Schmigadoon, dai colori brillanti ed ipersaturi (pensate a Pushing Daisies), vegetazione visibilmente finta e scenografie in 2D. Gli abitanti a ogni piè sospinto si lanciano a cantare e ballare, come frequente modo di comunicare, anche quando Josh e Mel supplicano loro di non farlo, di fermarsi, visto che non sono amanti del genere musical - lui in particolare, che ad un certo punto dichiara che è come se The Walking Dead fosse anche Glee (1.02). Non solo. Presto si rendono anche conto che sono bloccati lì. Potranno andarsene solo quando troveranno il “vero amore”. E, qualunque cosa questo sia, chiaramente in questo momento non lo sono l’uno per l’altra. Danny (Aaron Tveit, BrainDead), addetto al locale lunapark, comincia subito a fare il cascamorto con Melissa, così come la giovanissima Betsy (Dove Cameron) fa le fusa a Josh.

La creazione di Cinco Paul e Ken Daurio si muove su più piani, perché si tratta di un musical a tutti gli effetti, celebrativo e amante del genere, ma contemporaneamente si deridono certi cliché. I protagonisti principali sono esasperati dal continuo irrompere della musica durante le loro conversazioni, così come potrebbe accadere a noi se succedesse una cosa del genere da un momento all’altro sul serio nella vita. Sono nel musical, ma c’è allo stesso tempo consapevolezza che nella vita reale questo non si verificherebbe, un po’ come accade in Zoey’s Extraordinary Playlist o nella puntata “One more with feeling” di Buffy the Vampire Slayer.

Gran parte dell’ironia viene però dalla scollatura fra i mores dell’epoca in cui il film da cui si trae ispirazione è stato filmato, e in cui è “immersa” questa realtà, e quelli attuali. I rapporti fra i sessi in particolare e la vita in generale sono molto cambiati nel tempo, più di quanto a volte non ci si renda conto, e il costante rimarcarlo viene fatto con intelligenza e ironia, facendoci notare proprio quanto distanti da noi sono i valori messi scena all’epoca. Contemporaneamente però qui è un luogo in cui si va in cerca dell’amore e si suppone che un nucleo fondamentale sia valido ora come allora, nelle intenzioni degli autori, vista la premessa. L’uso marcato, ma in qualche caso estremamente sottile, del doppio senso fa sì che certi scambi che diventano maliziosi con pochissimo.

Si ride forse meno di quanto non accadesse in un Galavant, ma c’è la stessa autoconsapevolezza socio-antropologica di un Crazy Ex-Girlfriend, forse in qualche modo al contrario, nel senso che quest’ultima usava i testi delle canzoni per esprimere concetti progressisti; qui i testi delle canzoni, così come le situazioni, sono fortemente ancorati alla tradizione – in modo voluto, tale da evidenziare anche posizioni potenzialmente problematiche per la sensibilità contemporanea - e sono i personaggi che sono le leve che scardinano costantemente, e proprio verbalmente nella diegesi, questa inappropriatezza per il mondo corrente, così come noi la noteremmo e commenteremmo nel vederla in una rappresentazione del passato: che sia rimarcare che fare un’asta sul cestino da pic-nic di una ragazza equivale a metterla a disposizione del maggior offerente al mercato, o chiedere al sindaco “Sei Gay?” e sentirsi rispondere “cerco di esserlo” (gay/gaio)… Schemi relazionali che un tempo si davano per scontati ora ci fanno accapponare la pelle, e Schmigadoon! ci ricorda quanto rendendolo divertente.  Si nota da subito il color-blind casting della produzione, un elemento che ne tradisce la contemporaneità, e si accoglie come davvero brillante il fatto che siano Josh e Melissa stessi a rilevarlo, con un commento che diventa osservazione metatestuale ingranata nel testo.

Attendo con impazienza il rilascio delle prossime puntate. Fra i produttori esecutivi spicca Lorne Michaels (Saturday Night Live) e la regia di tutte le puntate è di Barry Sonnenfeld

martedì 13 luglio 2021

LA BARRIERA: una distopia al gusto di telenovela

Siamo a Madrid, anno 2045, in un ipotetico futuro prossimo distopico dopo la fine di una terza guerra mondiale, quando la città è divisa in due settori a causa di un virus, il Noravirus, che ha decimato la popolazione – nel settore uno vivono i privilegiati, nel settore 2 tutti gli altri. A dividerli c’è La Barriera (Netflix) che dà il nome alla serie, “La Valla” in originale spagnolo, e si può passare da una parte all’altra solo in possesso di specifici documenti di permesso e se non si mostrano sintomi influenzali. Ci sono quarantene, coprifuoco, visite mediche obbligatorie, scarsità di risorse, iperburocrazia, propaganda da schermi televisivi giganti in città che ripetono come tutto venga fatto per la sicurezza dei cittadini, violenze, ispezioni e intimidazione, e uno stato di polizia con controlli di guardie armate ogni piè sospinto e delatori vicini al regime. Niente mascherine però, salvo un accenno nelle ultime puntate. Poco telegenico.   

Hugo Mujica (Unax Ugalde), rimasto vedovo, arriva in città dalle Asturie, accompagnato dal fratello Álex (Manu Fullola) e con a seguito la figlioletta Marta (Laura Quirós) di 10 anni, per andare a vivere dalla suocera Emilia (Ángela Molina), che gestisce un negozio di prodotti vari ed è costantemente sorvegliata da Begoña (Ángela Vega), una vicina ficcanaso che fa da spia alle autorità. Gli sottraggono la bambina, messa in un ospedale segreto dove fanno esperimenti sui piccoli il cui sangue ha il potere di portare alla realizzazione di un vaccino. Inizialmente, per riaverla, gli dicono che deve trovarsi un lavoro, e fingendosi sposato con la cognata Julia (Olivia Molina, figlia anche nella vita di quella che le fa da madre nella finzione), che è la sorella gemella di sua moglie e si fa passare per lei, viene assunto, sotto la guida della governante Rosa (Elena Seijo), a casa del ministro della salute Luis (Abel Folk). Ex innamorato di Emilia, è ora sposato con Alma (Eleonora Wexler), che tradisce il marito con il colonnello Jiménez (Manu Fullola) e che è dietro agli esperimenti sui bambini rapiti. Oltre al piccolo Sergio (Iván Chavero), che hanno preso con sé, hanno due figli aulti, lo svogliato Iván (Nicolás Illoro) che ha una storia con una cameriera di casa, Manuela (Yaima Raimos), e Daniela (Belén Écija), che cerca di aiutare la gente del settore due e fa presto amicizia con Alex, che presto si mette nei guai, finendo anche nelle mani del militare del regime Fernando (Óscar del la Fuente), così come già il fidanzato di Julia, Carlos (Juan Blanco) era capitato sotto le mani del colonnello Jimenéz.     

Ideata da Daniel Écija (Vis a vis) la serie è per molti versi quanto mai attuale per la tematica, cosa anche un po’ inquietante se si considera che è stata realizzata pre-pandemia (ha debuttato agli inizi del 2020 in madrepatria e alla fine dello stesso anno internazionalmente). Delude, nonostante abbia un buon ritmo e intreccio, perché avrebbe potuto facilmente avere un respiro più ampio e una capacità narrativa più incisiva di denuncia dei regimi dittatoriali e di riflessione politico-sociale, alla The Handmaid’s Tale o The Man in the High Castle, che a tratti richiama nella visione. Non riesce però a sganciarsi da stilemi da telenovela, dove i collaboratori del regime non sono di più di una vicina di casa impicciona che tormenta con le sue costanti comparsate, dove un ministro dello Stato corre ogni volta che l’amore di gioventù schiocca le dita, dove a creare terrore non è un sistema tentacolare che deruba le persone della propria libertà e si prende gioco dei loro diritti, ma è la troppo ambiziosa cattiva della situazione, quella Alma senza scrupoli che è disposta a rapire e sacrificare le vite di bambini innocenti, dove ti torturano magari anche, ma poi stai bene due giorni dopo, e dove comunque le situazioni sono al limite della credibilità.   

È una visione che non annoia, ma senza gran spessore. 

sabato 3 luglio 2021

ZOEY'S EXTRAORDINARY PLAYLIST: la seconda stagione

Approvo la scelta di Zoey’s Extraordinary Playlist (Lo straordinario mondo di Zoey, su RaiPlay), che vive in un mondo parzialmente fantastico, di ignorare il COVID-19 nella sua seconda stagione (di cui ora in Italia sono disponibili i primi 6 episodi). E la loro decisione di usare meno persone nei numeri musicali non l’ho notata nemmeno sapendolo, segno che hanno fatto proprio un buon lavoro.

Dopo la precedente devastante season finale, terminata con la morte del padre della protagonista, il prosieguo in questa stagione è stato inevitabilmente quello dell’elaborazione del lutto, per la protagonista in primis, ma per tutti i personaggi, con la madre Maggie (Nary Steenburgen) che non è pronta alle avance di altri uomini o prova a distrarsi con il gioco d’azzardo, con il fratello David (Andrew Leeds) che è tentato di lasciare la professione di avvocato che non lo appaga e si mette a suonare con la band nel garage dei vicini di casa… Non ha sguazzato nel dolore però, si è piuttosto concentrata su come superiamo i momenti tragici, su come andiamo avanti. Jane Levy, che interpreta Zoey, trasmette una naturale verve gioiosa, anche se è convincente anche in momenti bui ed è davvero trascinante. Per questo, nonostante si siano affrontati temi molto tosti – la storia più disperata l’ho trovata in fondo quella della depressione post-partum della cognata Emily (Alice Lee), forse liquidata un po’ troppo in fretta – c’è comunque una sensazione vitale di fondo, oltre alla tinta da commedia che dopo l’uscita dal cast di Lauren Graham (Joan, che si trasferisce a Singapore), dovuta in parte alla pandemia in parte a sui impegni precedenti, è stata anche ben sostenuta dal boss di lei, Danny Michael Davis (Noah Wiseberg), CEO della SPQR Point.

L’esuberante personalità di Mo (Ale Newell), uno dei migliori personaggi gender nonconforming che si siano mai visti, è rimasto una colonna centrale; e si è avuta l’apertura del locale MaxiMo con Max (Skylar Astin). Le secondarie vicende personali di Leif (Michael Thomas Grant) e Tobin (Kapil Talwalkar) sono state un riempitivo che non è mai pesato. La storia di razzismo sistemico che coinvolgeva Simon (John Clarence Stewart) ha mostrato sensibilità alle tematiche d’attualità anche quando sono scomode da guardare. Questo fa l’autore Austin Winsberg: lancia molti stimoli, e fa slalom con gentilezza e levità fra diversi di questi. Non sempre c’è grande approfondimento magari, ma la formula funziona e arriva al cuore. Sulla strada tracciata da Crazy Ex-Girlfriend, con la dimensione musical come elemento di spessore. Qui che le canzoni non sono originali, ad eccezione di quella volutamente cringy dell’episodio del compleanno di Zoey (2.08), apprezzo che non sempre la titolare della serie di fatto le conosca già, quando le sente.

Si è giocato di più con il “potere” dell’eroina di riuscire a sentire le autentiche emozioni degli altri – in una puntata (2.09) tutte i brani risultano rimescolati e lei non riesce subito ad individuare chi le sta inviando una richiesta d’aiuto. Finisce anche per sentirsi intrappolata per il modo in cui questa sua empatia musicale condiziona la sua vita, ma è sensato che non cerchino di spiegarlo troppo per lasciare al tutto un aspetto “magico”: questa non è una storia di supereroi. L’aspetto più appagante è stato il ruolo che ha avuto nella vita sentimentale della nostra programmatrice favorita, divisa fra Max e Simon. Da ricordare sono sicuramente la prima volta fra lei e Max (2.02), ma anche la chiusura di quest’arco (2.13). In fondo ce lo sia aspettava – visto il passato infatti, questo giro era necessario un piccolo lieto fine - anche se ce l’hanno fatta penare fino all’ultimo.

Il colpo di sena finale però, che si stava capendo in corso di via è arrivato proprio all’ultimo momento e non solo funziona come cliffhanger, ma simpaticamente chiude così come gli spettatori sanno bene esordisce ogni apertura di puntata quando appare il titolo, con il personaggio (e in questo caso i personaggi), che pronunciano una parolaccia che viene “beeppata” e così censurata e sostituita dalla firma musicale della serie. 

Salvo salvataggi in extremis da parte di qualcuno, la serie non è stata rinnovata per una terza stagione dalla NBC che la manda in onda: BEEP! 

venerdì 25 giugno 2021

THE GOOD FIGHT - 5.01 - precedentemente, nel 2020

The Good Fight (da adesso sull’americana Paramount+) è tornata con la quinta stagione, e… che inizio! Solo Robert e Michelle King potevano scrivere un’intera puntata di “Previously on”  - proprio il titolo della 5.01 – e terminare con la sigla d’apertura che ha sostituito la furia distruggi-tutto delle precedenti a cui eravamo abituati, in fondo uno sfogo di tutta la rabbia anti-Trump, per sostituirla con gattini, porcellini, pulicini, cagnetti, e agnellini… tenerezza.

È stata un riassunto del 2020, e non poteva essere più denso: pandemia e Jay (Nyambi Nyambi) con il COVID-lungo (fatemi sperare per un momento che troveranno spazio per parlare anche di questo); George Floyd; il secondo emendamento; ZOOM; il white guilt; la morte di RBG, il riot di inizi gennaio alla Casa Bianca…e cenni alla formazione giuridica, all’apprezzamento professionale, al valore dei capelli nella cultura nera, al senso della politica…The Good Fight ha sempre tanta di quella carne al fuoco da togliere il fiato. “Talk. Understand. Unite.” Parla. Comprendi. Unisci.” Questa la strada da percorrere?

Perdiamo Lucca (Cush Jumbo) e Adrian (Delroy Lindo): la pandemia con la conseguente accorciata quarta stagione non ha permesso di raccontarne l’uscita come intendevano, ma sono riusciti a renderlo entusiasmante ugualmente con questa loro apparizione di cortesia ora, a risolvere le questioni sospese. Marissa (Sarah Steele) dà una svolta alla sua vita. Diane (Christine Baranski) e Liz (Audra McDonald) saranno al timone, e si attendono nuove entrate. So già che non rimarrò delusa.

Mi sono divertita a vedere Karl Marx, Malcom X, Gesù e Frederick Douglass discutere con Jay – chi altri infila personaggi simili nelle sue storie? Il riferimento a una pubblicità in Soul Train risalente agli anni ’70 non sono stata in grado di coglierlo se non lo avessero specificatamente menzionato, ma ammetto che la critica televisiva che è in me si è commossa quando ha visto Diane e Adrian avvicinarsi alle porte all’ascensore che si è spalancato sul vuoto del pozzo in cui quasi hanno rischiato di cadere, un evidentissimo riferimento a uno dei momenti iconici del piccolo schermo, l’uscita di scena di Rosalind (Diana Muldaur) da L.A. LAW – Avvocati a Los Angeles morta proprio così (qui).   

Come sempre questa serie mi lascia carica e so che non mancheranno gli stimoli legati all’attualità e alle questioni politico-sociali più discusse del momento. Non vedo l’ora.  

venerdì 18 giugno 2021

PRIX ITALIA 2021: “It’s a sin” vince - evviva, ma...

It’s a sin ha vinto il Prix Italia 2021. L’ho saputo dalla pagina Instagram dell’autore stesso, Russell T. Davies, da cui ho preso l’immagine di cui sopra. Sono molto contenta ed è supermeritato. Salvo sorprese, penso che sia probabile che finirà per essere il programma migliore dell’anno, per me.

Solo, mi rammarico del fatto che Prix Italia finisce per premiare programmi che poi, tristemente, il grande pubblico nemmeno ha mai sentito nominare. E questo almeno è andato in onda (su Starz).

Nel 2013 hanno premiato Äkta människor. Io ci ho scritto un saggio (qui). Anche in quel caso penso fosse meritato, ma in Italia non mi risulta che sia mai andato in onda. È assurdo. Penso che premiare qualcosa con l’etichetta “Italia” che nessuno poi in Italia fuori dai festival ha modo di vedere sia scandaloso.

Io parlo spesso di programmi che nessuno ha modo di vedere, se non facendo a volte salti mortali, e mi si potrebbe rivolgere la stessa critica. Credo che sia legittimo per chi si occupa di un settore farlo a tutto tondo. Non avrebbe senso diversamente, tanto più nel mondo globalizzato di ora. Cercate voci nuove e diverse è anche il ruolo di un critico. “Se leggi solo i libri che tutti gli altri stanno leggendo, puoi solo pensare quello che tutti gli altri stanno pensando” è una citazione attribuita a Murakami. Penso possa valere anche per il piccolo schermo.

Quello che intendo è che si dovrebbero instaurare dei meccanismi virtuosi per cui quello che è giudicato il meglio possa primo essere fruibile da chiunque voglia avervi accesso, e secondo sia idealmente promosso a un pubblico più ampio, ma non mi pare che chi ha potere in tal senso faccia granché. 

sabato 12 giugno 2021

GENERA+ION: gli adolescenti della Generazione Z

Generation (dell’americana HBO Max), reso graficamente come “Genera+ion” racconta di un gruppo di liceali alla scoperta della sessualità e della vita. La serie ha fatto parlare di sé perché è stata ideata da una ragazza ora diciannovenne, ma sedicenne quando ha iniziato il progetto, Zelda Barnz, insieme a uno dei suoi due padri, Daniel Barz. L’altro suo padre pure è parte del team come produttore esecutivo, così come lo è Lena Dunham (Girls), che a sceneggiato la quinta puntata. E sebbene il titolo si intenda come gruppo di persone nate anagraficamente nello stesso periodo, in questo caso la cosiddetta Generazione Z, con il “più” ad indicare una consapevolezza LGBTQ+ (gruppo a cui appartiene la maggior parte dei personaggi), vuole avere anche il senso di “creazione”.

Siamo nel sud della California. Chester (Justice Smith) è un ragazzo gay molto disinibito, ma anche molto solo, che vive con sua “nonna” (in italiano nell’originale), e finisce per innamorarsi del nuovo consulente scolastico, Sam (Nathan Stewart-Jarrett) dal quale viene spedito per reiterate violazioni del codice d’abbigliamento scolastico. Greta (Haley Sanchez) è una ragazza Latinx che gode un momento di libertà ora che la madre è stata deportata e vive con la zia Ana (Nava Mau), ma sa che non durerà, e non riesce a concedersi di poter avere una storia con la ragazza da cui è attratta, Riley (Chase Sui Wonders), appassionata di fotografia. Nathan (Uly Schlesinger) è bisessuale, ma quando la sorella gemella Naomi (Chloe East) scopre che se la fa con il suo ragazzo, viene presto a scoprirlo anche la madre Megan (Martha Plimpton). Arianna (Nathanya Alexander), sebbene etero, si permette battute dagli altri considerate omofobe in virtù del fatto che ha due padri gay (J. August Richards e John Ross Bowie). Delilah (Lukita Maxwell), che non si era resa conto di essere incinta, partorisce nel bagno di un centro commerciale, ma non si sente di dirlo ai suoi, e d’accordo con il ragazzo che l’ha messa incinta, J (Sandy Mae Diaz), decide di dare la  neonata in adozione.  

Nel pilot e in alcune altre puntate, ma non sempre e oculatamente (sarebbe diventato troppo pesante), le stesse situazioni vengono riprese guardando allo stesso momento da più punti di vista. Ci sono i classici tropi dei teen drama di generazioni precedenti. Una differenza significativa è che i ragazzi sono iperconnessi: la tecnologia, cellulari e social in particolare, sono onnipresenti. Sebbene questo sia realisticamente rappresentato, non è grande spunto di riflessione, pare. Un teen contemporaneo che come tale potrebbe venir richiamato è Euphoria, ma se quello è artisticamente più riuscito, è anche più disperato, liminale e lisergico. I personaggi qui meglio messi a fuoco sono Chester e Greta, decisamente più tridimensionali. E il rapporto di Chester con Sam, è stato veramente ben costruito, anche se la gestione da parte di quest’ultimo dell’intera faccenda mi ha lasciato qualche perplessità.

Uno degli aspetti che mi ha colpita di più, e che non riesco a decifrare quanto sia voluto e quanto sia un difetto, è il fatto che si sbanda continuamente fra una cosa che si vuole dire, e il fatto di dirla in modo eccessivo, esagerato, come se non si avesse il controllo di quell’idea. Credo che sia vero dell’adolescenza. Si testano in qualche maniera i propri limiti, e si approcciano certe idee di cui non sempre si ha la maturità di gestire in modo appropriato. La storia di Delilah che partorisce, che ci accompagna nel teaser prima dei titoli di testa, spezzettata per tutta la stagione, è proprio emblematica di questa caratteristica. Tuttavia, appunto, non riesco a capire in che termini propriamente interpretarla. Mi spiego meglio calandola in un paio di situazioni specifiche.

È più che evidente che si è molto consapevoli di questioni progressiste sociali e di equità, tuttavia il modo in cui vengono usate darebbe ragione a coloro che ritengono certe battaglie senza senso, solo performative, un modo di atteggiarsi ma di fatto ridicole. Porto qualche esempio. Durante una lezione di matematica (1.01), Delilah si lamenta con il professore che, all’interno del problema da risolvere, si divide la classe in maschi e femmine, perpetrando l’idea della binarietà della sessualità che la studentessa oppone. Il professore le risponde nei termini di orientamento sessuale (“facciamo finta che tutti gli studenti in questa classe fittizia siano etero”), piuttosto che di gender, cosa che non sfugge alla ragazza che lo rimarca (“penso che la parola che intendesse usare fosse cisgender”). Se da un lato, si simpatizza con la preoccupazione della studentessa, perché certi stereotipi e certe idee a volte passano più in modo trasversale che in modo diretto, contemporaneamente sembra completamente ridicolo e pretestuoso, una fesseria, quando quello che lì si deve fare è imparare la matematica. Si ci può stare che una ragazza molto zelante si comporti così, sembra che qualche volta lo faccia anche la serie. Arianna cade in questo più volte: al supermercato, dice all’addetto alla sicurezza che sta cercando di spiegarle una cosa, di smetterla di fare mansplaining, cosa che di fatto non stava facendo. Quando prende un gran numero di bicchieri da un’attività commerciale dicendo che non intende pagarli e scappa via gridando “Reparations” (Riparazioni) – ovvero il risarcimento pecuniario che alcuni ritengono si debba ai neri contemporanei per il fatto che i propri avi sono vissuti in una situazione di schiavitù - di certo non fa una bella figura, o bene alla causa.

Si vede perciò grande consapevolezza di determinate questioni, ma vengono usate in modo tale da avere l’effetto contrario. Forse bisogna constatare che è il modo in cui vengono usate da tanti ragazzi. Forse non è un limite della sceneggiatura, ma un limite della società, se così vogliamo dire, che viene riflettuta da questo tipo di rappresentazione. È questo che non riesco a stabilire, se sia una cosa una cosa o l’altra.

Esamino un altro piano in cui lo vedo verificarsi. La serie è sboccata, ma mentre in alcune situazioni ci sta completamente ed era anche appropriato all’età dei personaggi, in altre sono rimasta molto perplessa. Concretamente, quando ragazzi partono per andare in gita a San Francisco (1.06) e devono salire sul pulmino, qualcuno suggerisce di battezzare con un nome l’autobus su cui viaggeranno. Qualcuno suggerisce “bussy”, partendo dalla radice “bus” (autobus), ma che in slang gay indica l’ano di un uomo (in italiano lo tradurrei “pulm-ano”, per quando questa in italiano non sia una effettiva parola, diversamente da “bussy”). I ragazzi lo usano più volte in più frasi, in modo divertito, con gli adulti uno che sorride accettandolo come la ragazzata che è, l’altra senza avere idea del significato. Ci stava completamente, è stato sia divertente, sia realistico. Quando invece Megan (1.08) chiama i figli perché ha visto un bacio a tre di Nathan filmato da Naomi, la ragazza dice al fratello un equivalente di “sta cercando di fotterci entrambi”. Quello che io qui ho tradotto come “fotterci” perché non sarei in grado tradurlo con una sola parola, nell’originale era “fisting” (la penetrazione con il pugno). L’ho trovato un po’ forte e stonato, detto da un’adolescente etero rispetto alla propria madre. Magari mi sbaglio, magari è una cosa che un adolescente direbbe, ma a me è sembrato fuori luogo.

In fondo, come dicevo quando ho introdotto questa mia osservazione, lo si vede proprio anche da Delilah che decide di dare in adozione la bimba che appena partorito. Non sapeva di essere incinta, e deve far cercare su Google alle amiche come procedere per partorire, o come lasciarla perché venga data in adozione (con anche un momento di gruppo molto toccante, sul dunque), ma poi quando decide di farlo, esprime un lungo elenco di desideri e aspettative di giustizia sociale in cui vorrebbe che sua figlia fosse cresciuta. Da un lato si è infantili e inconsapevoli, dall’altro molto maturi e fin troppo coscienti. Suppongo sia in effetti una definizione di adolescenza e quindi promuovo questo progetto che continuerò a seguire se verrà rinnovato per una seconda stagione.

mercoledì 2 giugno 2021

INDUSTRY: neolaureati al lavoro nell'alta finanza

Sesso, droga e iperlavoro, non necessariamente in quest’ordine, sono gli elementi fondanti di Industry (HBO, BBC2), su un gruppo di neolaureati che cominciano un periodo di prova presso un’importante banca londinese, la Pierpoint & Co.: alla fine del ciclo (e della stagione televisiva) verranno valutati per capire chi di loro vale la pena assumere. Giovani donne e uomini che si mettono alla prova e scoprono chi sono in un mondo del lavoro ulttracompetitivo. Il pilot trasmette proprio quella tensione performativa e quell’ansia da prestazione che vivono i protagonisti, uno dei quali per questa ragione fa una brutta fine. Il titolo è comunque generico perché, sebbene qui si sia nel mondo dell’alta economia e finanza, è applicabile anche ad altri settori: quello che è sotto i riflettori sono le mircopolicy di certi ambienti (cfr l’intervista con gli autori in TV’s Top5).

Harper (Myha’la Herrold) è un’americana che ha mentito sulle proprie credenziali per essere lì, ma supera la paura di venire scoperta quando Eric (Ken Leung, Lost), suo mentore, la prende sotto la sua ala. Yasmin (Marisa Abela), che ha genitori di origina libanese e parla fluentemente anche arabo e spagnolo, viene da una famiglia economicamente e socialmente privilegiata, e vive con il fidanzato con il quale c’è un rapporto un po’ fiacco. Robert (Harry Lawtey) è un laureato a Oxford proveniente dalla classe operaia che è desideroso di apprendere i costumi del nuovo ambiente in cui ora si trova a navigare e presto comincia a provare attrazione per Yasmin e a flirtare con lei. Augustus "Gus" (David Jonsson), un gay nero britannico laureato in studi classici a Eton e Oxford, che condivide un alloggio con Robert, sa di valere. Hari, un laureato della scuola pubblica, figlio di immigrati di lingua urdu, è tesissimo e ansioso: finisce per dormire nella toilette perché non ha nemmeno il tempo di tornare a casa. A supervisonarli ci sono numerosi dipendenti senior della banca, ma in particolare creano un rapporto con Daria (Freya Mavor). Sara Dhadwal (Priyanga Burford) è la presidente della banca.

Mickey Down e Konrad Kay, che hanno una formazione nel mondo dell’alta finanza e hanno ideato la serie, hanno reso quel mondo in modo realistico, riuscendo a rendere appetibili e comprensibili situazioni economiche complicate: anche quando non capisci, riesci a comunque a comprendere che cosa sta accadendo. Hanno attivato anche l’interesse di Lena Dunham (Girls), che ha diretto il pilot, e si sente come possa essere vicino alla sua sensibilità, specie nelle relazioni personali. Anche nella descrizione degli atti sessuali la serie è molto esplicita, anche se non l’ho mai percepita come volgare.

Come si possa essere molto bravi e molto inesperti viene reso alla perfezione qui: è uno dei punti di forza del programma, che nel finale decolla proprio, mostrandosi più di mero escapismo. Poco dopo la metà della stagione, Eric chiude la porta della sala riunioni, dove le chiede di andare per parlarle in privato, e fa una ramanzina ad Harper. ATTENZIONE SPOILER. Su quel chiudere quella porta si costruiscono successivi ben calibrati colpi di scena, fino alla detonazione finale. La regia è stata sottile a sufficienza da far notare che la porta veniva chiusa – io so di aver percepito che mi sarei sentita a disagio, per il fatto che veniva chiusa a chiave, se fosse capitato a me nella vita vera -, ma non così tanto lì per lì, da far capire che poteva essere un potenziale problema. Quando Harper chiede di aprire la porta, lui lo fa subito senza problemi. Questo mi aveva rilassata, e mi sono detta che forse ero io che avevo percepito una situazione “di potenziale pericolo”.  

Appena Harper nella puntata successiva (1.06) lo menziona a Daria, lei sottolinea come sia un comportamento inadeguato, e Eric viene licenziato, e ad Harper viene chiesto di firmare una sorta di NDA. In chiusura però Harper viene messa davanti a una scelta: dire che è stata forzata da Daria a fare quella dichiarazione, e così reintegrare Eric, oppure lasciare che le cose stiano come stanno. Daria e la presidente della banca, Sara, le dicono che vogliono l’opportunità di cambiare la cultura. All’uomo invisibile vogliono sostituire la donna visibile.

La scelta finale di Harper, che non spoilero, è interessante perché in qualche modo apparentemente mette in contrapposizione istanze e aspirazioni femministe e lealtà personali, ma in realtà fa riflettere su che cosa significhi anche eventualmente fare delle scelte femministe. In questo entra in gioco anche una molestia che Harper ha dovuto subire da una cliente proprio nel pilot. E che cosa significhino l’integrità e la relazione personale in una ambiente in cui apparente non hanno un valore. Ad un certo punto, viene insegnato alla ragazza come misurare, con la clessidra, il tempo al telefono in cui, prima di parlare d’affari ci si dedica alle vicende personali del cliente, per dare l’illusione di un legame, che in realtà ha interesse solo in termini economici. Su quello standard ci si misura. E si riflette, anche su quello che è apparente e performativo, e quello che è sostanziale.  

Alla fine, un programma notevole, che alla luce della prima stagione intendo proseguire. Che avesse menzioni agli Emmy in qualche categoria non mi sorprenderebbe.