martedì 28 aprile 2020

THE BAKER AND THE BEAUTY: una rom-com leggera

Sono partita totalmente prevenuta nei confronti di The Baker and the Beauty, la commedia romantica sviluppata per la ABC da Dean Georgaris sulla base di una serie israeliana di enorme successo, Lihyót  Itáh, ideata da Assi Azar (e disponibile su Amazon Prime con il titolo The Baker and the Beauty). Pensavo che avrei guardato il pilot per liquidare il programma come una scemenza mielosa e cheap per ragazzetti. E invece già dalle prime battute mi sono ricreduta. Si prospetta come una storia d’amore che vuole iniettare un pizzico di magia in un contesto molto realistico.

Daniel Garcia (Victor Rasuk) è un fornaio-pasticcere di origine cubana che lavora presso il negozio di famiglia, Rafael’s Bakery, insieme a papà Rafael (Carlos Gómes) e mamma Mari (Lisa Vidal), che hanno un matrimonio felice, al fratello minore Mateo (David Del Río), che lavora anche come DJ con il nome di MC Cubano, e alla sorella adolescente Natalie (Belissa Escobedo), che fatica a legare con i coetanei. Daniel è fidanzato da quattro anni con Vanessa (Michelle Veintimilla), ma è incerto sulla loro relazione. Nel bagno di un ristorante incontra per caso Noa Hamilton (Nathalie Kelley), una famosa modella e imprenditrice australiana. Quando Vanessa propone a Daniel di sposarla e lui la rifiuta, Noa, delusa da una recente separazione, lo invita a unirsi a lei per la serata e si offre di realizzare tre dei suoi desideri. Lewis (Dan Bukatinsky, Scandal), il manager di lei, cerca di proteggerne l’immagine, ma è evidente che fra i due c’è un’intesa fuori dal comune.
  
Forse anche per ampio uso di parlato spagnolo, accanto all’inglese in originale, ma si ripensa a Jane the Virgin, così come vengono in mente anche Crazy Ex-Girlfriend (specie con la ex di lui che è quella che ci fa la figura peggiore) e Cenerentola (con un riferimento nella diegesi), anche se il titolo fa naturalmente pensare alla Bella e la Bestia, e la sorella di lei, nel casting quanto meno, richiama Euphoria.

È una rom-com leggera, con un pizzico di humor e qualche battuta fin troppo seria, sullo sfondo di Miami – in realtà il pilot è girato ad Atlanta e il seguito delle puntate a Puerto Rico - che riesce a costruire bene la relazione fra i due personaggi mostrando che cosa li attragga reciprocamente: lui è un bravo ragazzo che ama la famiglia e vuole fare la cosa giusta e che crede nei sentimenti, lei non teme di fare brutta figura buttandosi in nuove avventure ed è aperta a conoscere le persone, stanca a volte della vita sotto i riflettori. La distanza economica e di stili di vita rappresentano un ostacolo concreto. È uno dei più abusati dei tropi romantici, ma dal pilot ci sono delle buone premesse perché i protagonisti restino sempre più ammaliati e vinca il vero amore.

martedì 21 aprile 2020

DEVS: un thriller fantascientifico deludente


ATTENZIONE SPOILER. La concezione filosofica esplicitamente dichiarata nella diegesi di Devs (dell’americana Hulu) è il determinismo: non esistono eventi casuali, niente si verifica senza una ragione, ma tutto è determinato da qualcosa di precedente. “La vita è solo qualcosa che vediamo dipanarsi, come un film su uno schermo” (1.08). Il libero arbitrio è un’illusione.

Sulla base di questo principio, Forest (Nick Offerman, Parks and Recreations), CEO di una società chiamata Amaya, il nome della figlioletta morta prematuramente in un incidente d’auto, ha creato un misterioso, segretissimo progetto noto appunto come DEVS. Lui è come un messia, tanto che in realtà, come confessa in chiusura quel DEVS è da intendersi come DEUS, in realtà. Dichiara che non gli frega niente della sicurezza nazionale, trova che destinare risorse alle biotecnologie sia uno spreco, e che la fusione fredda sia l’equivalente dell’alchimia. Il suo è un obiettivo ben più ambizioso: grazie all’uso di computer quantistici vuole riuscire a visualizzare momenti del passato e del futuro (anche se per quest’ultima cercano di imporsi di non farlo). In parte ci riescono – individuano Cristo sulla croce (1.02) -, ma è tutto sgranato. A condividere il suo sogno c’è la progettatrice Katie (Alison Pill, Picard). E in questo reparto segretissimo dell’azienda lavorano anche l’anziano Stewart (Stepehn McKinley Anderson) e il giovane Lyndon  (Cailee Spaney – sebbene il personaggio sia un maschio, a interpretarlo è un’attrice ventiduenne, ma devo dire che se non lo avessi letto, non lo avrei mai capito sa sola, non me ne sono accorta alla visione). Quando l’ingegnere Sergei (Karl Glusman) viene ucciso da Forest, subito dopo essere stato assunto, perché voleva spifferare tutto al governo russo, la fidanzata di lui Lily, (Sonoya Mizuno), la principale protagonista, vuole andare a fondo di quanto accaduto. Per aiuto si rivolge al suo ex, Jamie (Jin Ha).

La serie è molto accattivante sul versante della cinematografia, della musica ipnotica pseudo-religiosa, e dell’uso del vuoto sia fisico che verbale nelle interazioni lente e pacate fra i protagonisti, già una cifra stilistica dell’ideatore, sceneggiatore  e regista Alex Garland nel suo film di maggior successo, Ex-Machina, che si evoca facilmente insieme a un pizzico di Westworld, Mr Robot, Osmosis e Counterpart. La recitazione è volutamente fredda, distaccata, mono-tonale, con i personaggi spesso persi a guardare nello spazio davanti a sé. Tutto è molto serio. C’è un mood di fondo molto specifico che lo fa percepire come un prodotto d’autore. Il problema per cui alla fine però delude è che è narrativamente e psicologicamente troppo grossolano.

La trama è forte e ben strutturata, ma rimane la sensazione che si sia “slongata la broda” di quello che, con il taglio del superfluo, sarebbe potuto essere un film, invece di una miniserie. La storia spionistica, anche con un finto senzatetto, Pete (Jefferson Hall), che osservava le vite di Lily e Sergei, era posticcia; le torture dell’addetto alla sicurezza Kenton (Zach Grenier, The Good Wife) inutili e inconcludenti. Ci sono stati passaggi di dialogo di cui vergognarsi. Alla fine della prima puntata l’ex di lei fa un lungo monologo in cui in pratica spiega per filo e per segno che cosa era capitato fra loro: è stata così smaccatamente pedestre che perfino io sarei riuscita a scrivere di meglio.

La conclusione lascia contenti a metà. Lily, a cui è stato mostrato il futuro, commette, a detta di Katie, il peccato originale, quello della disobbedienza, scegliendo di agire contro le previsioni. Sembra un momento “eureka”, ma se fosse stato così semplice non lo avrebbe fatto prima qualcun altro? Loro stessi non ci avrebbero provato almeno? Sembra poco credibile. Poi però, tutto si conclude comunque come da previsione. Strutturalmente mostrare a noi quello che è considerato inevitabile per poi inserire un atteso colpo di scena che in definitiva viene smontato dal fatto che gli eventi hanno comunque la conclusione anticipata è stato ben costruito. E la scelta terminale di una simulazione della realtà da parte del sistema operativo che si qualifica come una “resurrezione” dei protagonisti morti è appagante a sufficienza.

Se dico che è psicologicamente grossolana è perché se da un punto di vista della fisica quantistica viene messa in campo la teoria di De Broglie-Bohm e possibili critiche (l’esistenza di un multiverso, ad esempio), mostrando anche che se ne discute in un’aula universitaria, in campo di psicologia nemmeno ci si prova ad accennare a un paradigma non meccanicista. Vista la soluzione ultima per mettere in crisi il modello, forse una qualche lettura di base in campo psicologico-psicoterapico valeva anche la pena farla. Invece di ripeterci di continuo l’assunto di base, qualche argomentazione filosofica contraria in più, anche di tipo non specialistico, poteva essere abbozzata. Con la “scusa” del determinismo si azzera anche ogni interrogativo morale ed etico, che sia Forest che ammazza Sergei o Katie che istiga al suicidio Lyndon.

C’è un’ambizione intellettuale di fondo, che vuole indagare quesiti essenziali nella storia umana, ed è stimolante riflettere su quanto si mette in campo, ma alla fine questo thriller fantascientifico non ha lo spessore sufficiente per sostenere la ricerca oltre la premessa di base.  

lunedì 13 aprile 2020

EVIL: il paranormale declinato dai King



Ideato dai coniugi King (The Good Wife, The Good Fight, Braindead), Evil, dell’americana CBS, si addentra in un territorio in parte nuovo per la coppia, quello dei fenomeni paranormali, e se il risultato non è ai livelli di apice a cui ci hanno abituato, nondimeno si riconosce il loro stile e traspare uno spessore molto in sintonia con le loro corde e forse inusitato al genere.

Kristen Bouchard (Katja Herbers), una psicologa forense di New York, viene assunta da David Acosta (Mike Colter, The Good Wife) un aspirante sacerdote cattolico, per indagare su fenomeni paranormali e di possessione allo scopo di stabilire se siano veri o meno. Insieme a loro lavora anche Ben Shakir (Aasif Mandvi), un esperto di tecnologia. Lì dove David è il credente, Kristen e Ben gli fanno da contraltare come scettici pronti da dargli delle spiegazioni scientificamente fondate. Molti fenomeni hanno spiegazione, ma tanti altri no. Nel corso delle loro indagini Kristen si scontra con il viscido, minaccioso dottor Leland Townsend (Michael Emerson, Lost, Person of Interest), un esperto di occulto che ha connessioni con forze demoniache e che spinge gli altri a commettere azioni malvage. Si avvicina pericolosamente alla quattro figlie di Kristen, che lei cresce sola in assenza del padre via per lavoro, e stringe una relazione con la madre di lei, Sheryl (Christine Lahti).

Le puntate sono genericamente autoconclusive incapsulate in una trama orizzontale di sottofondo, vaga ma che via via che si procede si fa più pregnante (alla maniera già usata nelle precedenti creazioni dei King), con una accattivante mitologia (una mappa con simboli demoniaci, una veggente che parla per Dio, i “60”, il simbolo della capra, videogiochi che portano al limite della realtà…). La forza maggiore del programma sta nel riuscire a mantenere un buon equilibrio di scienza vs. miracoli, fra fede e sospetto, fra razionale e irrazionale in un modo che non si prende gioco dell’intelligenza dello spettatore, ma facendo leva sull’autosuggestione, così come questa coinvolge i protagonisti. La sensazione di minaccia è pressante, sublime e godibilissima quando è in scena Michael Emerson, che sa essere creepy come pochi, ma si crea anche attraverso altri canali, in primis attraverso le paure dei protagonisti che prendono una vera a propria forma: nel caso di Kristen si tratta del mostro George, tanto umoristico quanto minaccioso e obbrobrioso, e che emerge nei suoi incubi portando alla luce quelle preoccupazioni che la mente razionale tiene sedate.

Si riflette su concetti come la manipolazione, la superstizione, le teorie cospiratorie e si riesce in modo indiretto a fare delle riflessioni sulla natura del bene e del male e su come potenzialmente nascono e si sviluppano concetti distruttivi – penso alla mirabile storia di misoginia sviluppata con un personaggio secondario, attivamente spinto da Leland per propri fini a odiare le donne e a compiere atti di terrorismo (con una conclusione inaspettata e ottimale), o anche al mettere in bocca a un personaggio così subdolo e maligno frasi come “la gentilezza è ipocrisia”. Si fa proprio un lavoro di cesello nello screditare i veri mali della quotidianità, nella confezione di storielle sovrannaturali molto easy.

Alla prima stagione di 13 episodi, i cui titoli contengono sempre un numero, farà seguito una confermata seconda stagione.  

venerdì 3 aprile 2020

STAR TREK: PICARD: sulla perdita e la memoria


SPOILER NEL PRIMO PARAGRAFO. In Star Trek: Picard (Amazon Prime), l’ammiraglio Jean-Luc Picard (Patrick Stewart) è ormai in pensione e trascorre il suo tempo fra i vigneti della sua tenuta in campagna, consapevole che non gli rimane molto da vivere a causa di un problema cerebrale. Una giovane donna, Dahj (Isa Briones) si rivolge a lui per aiuto e scoprono che si tratta di un androide biologico creato dal dottor Bruce Maddox sulla base del cervello positronico del comandate Data, cosa che la fa considerare sua “figlia”. Quando viene uccisa, l’anziano ufficiale mette insieme una squadra per cercare di salvare almeno la sorella gemella di Dahj, Soji, che rischia la stessa sorte: Cristobal “Chris” Rios (Santiago Cabrera) è un esperto pilota che viene assoldato insieme alla sua nave, La Sirena; la dottoressa Agnes Jurati (Alison Pil, Devs), che ha lavorato con Maddox, è la maggiore esperta di intelligenza artificiale; Rafaella “Raffi” Musiker (Michelle Hurd) è una ex-ufficiale della flotta stellare che in passato aveva lavorato con JL; Elnor (Evan Evagora) è un esperto di combattimento salvato da bambino dall’ammiraglio. Il loro obiettivo è salvare Soji, che inizialmente vive su un cubo Borg conosciuto come l’Artefatto, dove si cerca di recuperare all’umanità gli ex-Borg, che è presa di mira dai Romulani (nello specifico dalla Zhat Vash, una sorta di antica fazione della Tal Shiar, la loro polizia segreta), che vogliono distruggere ogni forma di intelligenza artificiale perché ritengono che saranno altrimenti la causa della fine del mondo biologico: vedono in Soji la Distruttrice. Per cercare di carpirle informazioni e spiarla diventa suo amante il romulano Narek (Harry Treadaway, Penny Dreadful).

In 10 puntate sviluppate con una narrazione orizzontale ad arco, senza puntate verticali autoconclusive, le vicende della più recente aggiunta al franchise ideato da Gene Roddenberry si basano sui personaggi di ST: The Next Generation, ma sono ugualmente seguibili da chi non avesse familiarità con il canone. Lo dico con cognizione di causa, perché sebbene l’originario Star Trek fosse quasi una religione per me e abbia seguito Enterprise e Discovery, sono digiuna di Deep Space Nine e Voyager e ho solo scarsa familiarità con STTNG. La comparsa come guest star (Riker, Data, Seven of Nine, Deanna Troi) è una chicca per gli aficionados, ma non crea ostacoli agli altri.

Le chiavi di lettura della prima stagione, che si è chiusa lo scorso 26 marzo, sono state principalmente due, per me. La prima è una citazione in bocca s Soji in “The End is the Beginning” (1.03) che incontra una ex-B (una ex-borg cioè). È affascinata dal fatto che i romulani possano creare una mitologia, una “struttura narrativa comune per capire il loro trauma, radicata in archetipi profondi, ma rilevante quanto le notizie del giorno”. “È proprio quello che spero di fare io”, dice, e se non sono queste parole con un significato metatestuale che rivelano la poetica degli autori, non so quali possano esserlo.

La seconda chiave di lettura si intreccia con la prima. Showrunner di questa serie, ideata insieme a Alex Kurtzman, Kirsten Beyer e Akiva Goldsman, c’è nientemeno che Michael Chabon, vincitore del Pulitzer per Le fantastiche avventura di Kavalier & Clay. Ha scritto sul New Yorker (11 novembre 2019) una saggio di storia personale, The Final Frontier, in cui racconta del suo rapporto col padre morente, poi scomparso, con il quale condivideva la passione per la serie. Questo ha informato, come lui stesso ammette, la sua scrittura di questi episodi dove la mortalità e la perdita si rincorrono come temi musicali. Insieme a quello della memoria, mi pare. Nella season finale questo è particolarmente evidente.

Non condivido la posizione del Guardian che giudica questa incarnazione come pessimista. Non è più una Federazione che non commette errori, ma se l’istituzione è imperfetta, i rapporti di lealtà e amicizia fra le persone e di valore umano rimangono una forza trasformante positiva e ottimista. Quello che è vero è che, così come in Discovery, non c’è più uno Star Trek che è un viaggio conoscenza, alla ricerca di nuovi mondi e nuove civiltà, ma uno che fa esperienza delle stessa ansia cui ci hanno abituato molte altre serie – da Black Mirror ad Äkta Människor, o Humans, da Battlestar Galactica a The Orville (la più fedele allo spirito originario di Roddenberry) – ovvero quella per il timore che la tecnologia ci sfugga di mano con la creazione di robot umanoidi così evoluti e perfetti da sopraffarci. Ma proprio in “Et in Arcadia Ego – Part II” (1.10) si vede l’ottimismo della consapevolezza che è sempre questione di scelte e la paura non deve essere ciò che ci guida.

Sono rimasta appagata da Picard, anche per come è riuscito ad esporre in modo sufficientemente lineare una mitologia molto ricca e complessa. Non ne sono forse uscita esaltata, ma ho apprezzato pur nell'incalzare avventuroso degli eventi il tono pacato, intellettuale e gentile che si collega al personaggio interpretato dall’ormai 79enne Stewart, e che qui di fondo pervade l’intero racconto.    

Per la prevista seconda stagione posso solo dire: engage (attivare).

venerdì 27 marzo 2020

LIVING WITH YOURSELF: gravedole ma superficiale


In Living with Yourself (Netflix), Miles (Paul Rudd) è un uomo maturo insoddisfatto di se stesso e della vita: è un copywriter in una agenzia pubblicitaria, ma ormai ha perso lo stimolo creativo di un tempo, e sebbene innamorato della moglie Kate (Aisling Bea), un’architetto d’interni, il rapporto è ormai piuttosto statico, annoiato. Non riescono ad avere figli e lui non si decide mai ad andare alla clinica di fertilità dove lei ormai da tempo lo spinge a recarsi.  Un collega gli segnala una spa che gli ha cambiato la vita, un centro per migliorare le stesso. Vi si reca e presto si scopre il fattaccio: lo hanno clonato in modo tale da creare una perfetta copia di se stesso solo geneticamente migliorata, ma qualcosa è andato storto, e adesso ci sono due versioni di sé, quella vecchia e quella nuova.

La premessa di questo dramedy fantascientifico, spassosa ma allo stesso tempo con una potenziale gravitas esistenziale non indifferente, non riesce a realizzare il proprio potenziale. La commedia e la tragedia del trovarsi faccia a faccia e del confrontarsi non solo con se stessi, ma con una versione migliore di se stessi, con il sé che si sarebbe voluto ma non si è riusciti ad essere, avrebbe potuto essere migliore di così.

Counterpart con questo stesso tema è riuscito a dire dolorose e delicate verità in modo molto più brillante. Qui si echeggia Maniac, nel desiderio di una “soluzione facile” al miglioramento di se stessi, e non si riesce né propriamente a far ridere, né a riflettere più di tanto su un altro sé, se non molto tiepidamente, e più che altro sulla logistica di convivere nella stessa realtà. The Good Place  nel meditare su come essere persone migliori, ha pescato filosoficamente più a fondo senza mettere in piazza la modifica posticcia di qualche gene.  

Paul Rudd è molto convincente nel recitare con se stesso  - un’impresa non certo facile – e la trama fila via spedita e lineare. Non ci sono esuberi narrativi di cui si sarebbe fatto a meno. La conclusione pure è piuttosto appagante e lascia spazio a una seconda stagione. Solo, questa creazione di Timothy Greenberg ha poca sostanza.

Miles si rende improvvisamente conto di comportamenti che metteva in atto che erano negativi, e sviluppa un nuovo apprezzamento per la vita e i rapporti che aveva, riscopre le passioni passate (ad esempio scrivere teatro) È anche critico del suo sé migliorato, ha occasione di riflettere sul tipo di uomo che è stato nel suo matrimonio, ma fuori da queste osservazioni abbastanza superficiali non ci sono grandi epifanie, pregnanti rivelazioni. Questa è la più grande pecca di uno show che è stato una visione gradevole, ma che dubito continuerei.

mercoledì 18 marzo 2020

THE MANDALORIAN: "Star Wars" allarga il franchise


Ammetto che la sola vera ragione per guardare The Mandalorian per me è l’adorabile coccolosissimo personaggio che ha finito per essere conosciuto come Baby Yoda, in realtà ufficialmente “the child”, il bambino – o la bambina, di per sé. Sono stata attenta al pronome, e la serie per alcune puntate si è mantenuta sul neutro “it”, cosa che mi ha fatto spesare potesse essere una femmina, usando però in seguito “he” cosa che quindi fa ritenere che sia un maschio. Già è prevista una pletora di giocattoli e gadget con il tenero personaggio e già li voglio, segno che hanno saputo fare il loro gioco molto bene, tanto più considerato anche che sono una spettatrice che ha quasi l’età di Baby Yoda, ovvero 50 anni; immaginarsi il successo con i più giovani. 

Afferente al franchise di Star Wars, e in effetti conosciuta anche come Star Wars: The Mandalorian, questa creazione di Jon Favreau per la neonata Disney+ (in Italia a partire dal 24 marzo 2020) è ambientata cinque anni dopo le vicende de Il Ritorno dello Jedi e 25 anni prima de Il Risveglio della Forza, leggo online per quelli per cui questi riferimenti hanno un senso. Non per me, ammetto, che ho visto Guerre Stellari quando è uscito, e questo è quanto. Sicuramente a conoscere la mitologia della saga, ci si gode tutto di più, ma posso confermare, da ignorante, che si riesce a seguire tutto benissimo anche ignorandola.

Protagonista è un cacciatore di taglie mandaloriano, chiamato Mando (Pedro Pascal), ovvero un appartenente a un popolo guerriero in cui da piccolo è stato adottato dopo aver perso i propri genitori. Secondo il loro credo, devono indossare sempre, e togliere davanti a nessuno, un elmo che nasconde il loro volto (durate la prima stagione noi stessi lo vediamo una sola volta), perché “this is the way” (“questa è la via” letteralmente, o “questo è il modo”, non ho idea al momento del mio scrivere di come verrà tradotto), come recita il loro motto. Con le ricompense che guadagna cerca di forgiare una nuova armatura.

Uno dei primi incarichi che Mando riceve dal Cliente (Werner Herzog) è proprio quella di portargli quello che si scopre essere il Bambino, questa creatura verde con grandi occhi e orecchie che emette suoni strani e che tanti scambiano per un animaletto domestico, con tanto di futuristica culletta volante, apparentemente inerme, ma già in grado di usare la Forza che gli permette di avere notevoli poteri. Nel timore che il piccolo possa fare una brutta fine, contro le regole, il Mandaloriano lo prende e protegge portandolo con sé. Ne diventa così una sorta di padre affidatario. L’obiettivo è quello di riportarlo alla sua gente.

Ricchissimo di una mitologia che fa evidentemente riferimento a un canone già molto ampio e definito, questo space western non può contare su chissà che dialoghi o approfondimenti psicologici, ma su tanta azione e avventura. C’è il fondo metaforico di bene e male su cui regge l’impalcatura, c’è un rinnovo della tradizione dello stoico eroe solitario, qui umanizzato e addolcito da una volontaria paternità (presumibilmente un tema già caro in altri "capitoli" delle vicende), il codice d’onore di una cultura di appartenenza, i parallelismi fra la vita del protagonista e del suo protetto, lealtà e sacrificio, guerra…le storie sono di una semplicità disarmante, e diverse puntate, fatte di sparatorie, agguati e scontri, non elicitano chissà quali riflessioni. Forse sono troppo poco imbevuta delle finezze della storia madre per vederle io qui. Né la narrazione, né l’aspetto visuale mi incoraggiano a rivisitare la serie oltre la prima stagione, che è comunque spensieratamente gradevole se accedo alla pre-adolescente che è in me. Sul successo di pubblico non ho dubbi, in ogni caso.  

Affascinanti i titoli di coda, che riprendono le vicende della puntata e le ripropongono in modalità fumetto.

lunedì 9 marzo 2020

SEX EDUCATION (2.05): punti di scarso piacere


Amo Sex Education, e penso che abbia confezionato una magnifica seconda stagione, come ho avuto modo di scrivere nel mio post in proposito. Purtroppo però non sono mancati gli scivoloni. Penso a una storia del quinto episodio (2.05), scritto da Alice Seabright, piena di errori su tutta la linea. Jean (Gillian Anderson) tiene a casa sua un seminario rivolto ad un gruppo di donne sui “punti di piacere all’interno della vagina”.

Punto primo, mi rendo conto che nell’usare un modellino in plastica delle pudenda femminili (come da immagine che è un fotogramma della puntata),  si usa quello che si trova sul mercato, ma nell’indicare il clitoride, che qui sembrava una specie di chiodino e che per ragioni umoristiche si commenta non essere estraibile nella realtà, si poteva magari cogliere l’occasione proprio per ricordare come se ne conosca poco la forma, tanto che molti non lo sanno riconoscere. Se le scuole francesi dalle elementari alle superiori possono avere primo clitoride 3D open-source al mondo, anatomicamente corretto, utilizzato per l'educazione sessuale nelle scuole (si legga qui sul Guardian in proposito), sicuramente potrà permetterselo anche la produzione della serie.

Punto secondo, se si parla di punti di piacere all’interno della vagina, non si può sicuramente partire dal clitoride, che non fa parte della vagina, ma semmai della vulva. Ora, anche qui, sono consapevole che nel linguaggio si usi regolarmente ‘vagina’ per intendere ‘vulva’, ma sono altrettanto consapevole che il fatto che farlo regolarmente non lo rende corretto. Non solo, culturalmente è molto criticata questa riduzione che è storicamente vista come una visione patriarcale intesa a dare valore solo al piacere maschile e non a quello femminile (che può esserci anche senza il coinvolgimento della vagina). Non serve avere chissà quali approfondite conoscenze femministe o di critica freudiana o chi sa che cosa. Sono le basi, proprio. E qui proprio non ci sono. Un delitto in una stagione che mi sembra abbia cercato di dare un peso maggiore alla parte femminile della sessualità.

Punto terzo. Il personaggio in questione è una sessuologa professionista che trova ragionevole lasciare il gruppo a cui sta facendo lezione per una litigata a latere con il compagno che sta installando in cucina delle mensole. Sebbene sia chiaro l’intendo umoristico, è stato fuori luogo e professionalmente svalutante per il personaggio. È stato imbarazzante, ma per le ragioni sbagliate.

Punto quarto. Si sta parlando di piacere femminile e di scoperta dell’anatomia femminile. Quando Jean rientra dal suo alterco con il compagno e riprende la lezione, subito prima di staccare su un’altra scena e situazione, invita la compagnia muliebre a tirare fuori degli specchietti. Uno evidentemente si immagina che, secondo quanto si faceva già negli anni ’70 se non prima, si guarderanno poi le proprie parti intime. Tutto  bene. Ma allora perché quando la moglie del preside, che poco prima aveva manifestato la preoccupazione del fatto di essere molto arrugginita, per così dire, si sente l’esigenza di dire quasi sottovoce  “Venga a trovarmi dopo, ho una cosa che potrebbe aiutarla”? Quella cosa che poteva aiutarla, lo vediamo in seguito quando questa lo usa, è un semplicissimo vibratore. Vuol dire che per tutte le altre che erano lì quell’oggetto non era contemplato? Ma andiamo! Va bene che per una ragione di costi non poteva magari regalarne uno a destra a manca, ma in un corso del genere esce una domanda di questo tipo e lei non coglie la palla al balzo per parlarne a tutte? Ma che corso è? Di questi tempi è già tanto che non sia una marca di vibratori a sponsorizzarglielo.   

Punto quinto. G. No, così, giusto per battuta. Almeno quello ci rimane. Non ho altre obiezioni. Le quattro sopra direi che sono più che sufficienti. E con qualcun altro si poteva anche soprassedere, con questa serie proprio no.  Non sono stati punti di piacere, posso dirlo.

lunedì 2 marzo 2020

SEX EDUCATION: la seconda stagione

Ha convinto al pari della prima stagione la seconda tranche di Sex Education (Netflix), capace di essere piena di verve e umorismo, ma contemporaneamente di riuscire a trattare tematiche molto serie e rilevanti.

Si riprende con il protagonista adolescente Otis (Asa Butterfield) che finalmente ha superato la propria incapacità a masturbarsi. Sebbene venga rassicurato che è normale e sano farlo, ora ha l’impressione che il suo corpo abbia preso possesso di lui e si rende conto non solo che ha molto da imparare, ma che sebbene abbia tanta esperienza teorica ne ha poca di pratica, e questo è un nuovo terreno di esplorazione per lui. Convinto di essere bravissimo nei ditalini (2.02) alla sua ragazza Ola (Patricia Allison), rimane presto deluso nello scoprire di non esserlo. Qui, e cosa importante proprio attraverso questo personaggio che parecchio ne sa, ma anche attraverso altri (in 2.06 con il tema delle docce anali, ad esempio), si insegna a mio avviso una delle lezioni più importanti di tutte: nessuno “nasce imparato” come si suol dire, e anche nel sesso, come in altri aspetti della vita, c’è un percorso di apprendimento.

Si è parlato della necessità di ascoltare il proprio partner (2.02); si è mostrato che sono tematiche che interessano tutti a tutte le età, con la moglie del preside, Maureen (Samantha Spiro), timorosa di manifestare la propria insoddisfazione; si è fatto vedere che ci si può pensare in un modo per poi scoprire che la propria identità sessuale è diversa da quella che si immaginava, con Ola che si rende conto di essere pansessuale (2.05); si rassicura sul fatto che il sesso è solo una parte della vita e che per qualcuno può non essere importante, dando visibilità e sollievo a un personaggio asessuale (2.04); si è dato più peso rispetto alla prima stagione alla sessualità femminile, accennando anche a situazioni come vaginismo e perimenopausa (2.08); non si è avuto timore di dire, cosa che dovrebbe essere scontata ma non lo è, nella esigenza di rendere educative e scientifiche le conversazioni, che una componente importante è il piacere… A fronte di vergogna e cattiva comprensione, la madre di Otis che è sessuologa, Jean (Gillian Anderson), che si trova a lavorare come consulente per la scuola del figlio, vuole offrire fiducia, dialogo e verità. E astutamente la serie si “autodenuncia” portando alla luce la non eticità di quello che il protagonista adolescente ha fatto finora, ovvero fare consulenza a pagamento ai compagni.   

Nonostante qualche scivolone (a stretto giro pubblicherò un post apposito su questo), una grande forza della serie sta nel riuscire a fare davvero educazione sessuale. Magari riferire informazioni puramente mediche, come il fatto che la clamidia si trasmette attraverso lo scambio di fluidi sessuali (2.01), è anche sufficientemente semplice, e la brillantezza nel trasmetterlo è stata nel fatto di riuscire a renderlo umoristico, con tutta la scuola presa dall’isteria in proposito.

Ma si è anche stati davvero eccellenti con informazioni decisamente più umanamente complesse, con risvolti psicologici che richiedono sicuramente più finezza intellettuale.  A questo proposito non posso non applaudire la vicenda che ha coinvolto la dolce Aimee Gibbs (Amiee Lou Wood). Prende l’autobus (2.03) e uno dei passeggeri si masturba eiaculando sui suoi jeans. Lei prende la cosa alla leggera, apparentemente più seccata di aver rovinato uno dei migliori capi di abbigliamento che ha, che altro. Maeve (Emma Mackey) però la convince a sporgere denuncia. Nei giorni successivi la ragazza ha il terrore di prendere l’autobus. Si fa chilometri a piedi pur di non rimettersi nella stessa situazione e comincia a vedere il molestatore in ogni dove, mettendola in crisi nei suoi rapporti personali con l’altro sesso. L’intelligenza e la forza di questa storia stanno nel mettere in scena una situazione in fondo minore – non c’è stata propriamente un’aggressione, uno stupro o chissà che altro – e di mostrare come possa impattare fortemente in negativo la vita di una donna. La storia è diventata ancora più potente, e con echi più vasti, facendola diventare un’occasione di solidarietà femminile. Un gruppetto di ragazze viene messo in punizione e quello che devono fare per uscirne è fare una presentazione su quello che le lega come donne (2.07). Non c’è molto, scoprono, ma per tutte loro ci sono state attenzioni sessuali non richieste e sgradite: una è stata palpeggiata, un’altra seguita, un’altra ancora esposta alla visione delle parti intime di uno che frequentava la piscina dove aveva dovuto rinunciare ad andare, un’altra è stata molestata verbalmente…Se, per sostenere la compagna, decidono tutte insieme di salire sull’autobus e farle passare ogni timore, si denuncia il fatto che due terzi delle minorenni si trovano a dover gestire situazioni similari.

Non ho problemi particolari ad ammettere che #metoo, io stessa ho vissuto prima della maggiore età più di uno degli esempi qui descritti. In particolare mi sono travata proprio in una circostanza che presenta dei parallelismi con quella di Aimee, sebbene fosse in parte diversa e sebbene io fossi considerevolmente più giovane di lei. Forse anche per questo mi ci sono fortemente identificata: ho sperimentato la paura di trovarmi alla fermata dell’autobus, l’idea che poteva essere chiunque ad aggredirmi, la sensazione di non essere mai al sicuro…proprio come è stata descritta qui. Io quei paralizzanti timori me li sono portati dietro per anni e mi hanno condizionata. Sono, in effetti, esperienze comuni, ma non so se mi sia capitato altre volte di riconoscermi così autenticamente in una storia come in questo caso e vederlo rappresentato così mi è sembrato qualcosa di grande, di rilevante, di necessario. E non è stato pesante, ci si è anche riso su.     
      
Ci sono stati altri begli intrecci di plot con spessore: quello dell’amore contrastato fra Otis e Maeve, con il difficile rapporto di lei con la madre. E uno degli aspetti più mirabili nella costruzione di Otis si è avuto esplicitato dalle parole della compagna Ola: cerca così fortemente di comportarsi bene che finisce involontariamente a ottenere l’effetto opposto. Si è ragionato sulla mascolinità (con il preside Groff e il padre di Otis) e sull’omofobia interiorizzata verso se stessi attraverso la storia di Adam (Connor Swindells) e il suo rapporto con Eric (Nguti Gatwa), coinvolto in un bel triangolo con il nuovo arrivato Rahim (Sami Outalbali). La pressione, anche involontaria, dei sogni e delle aspettative dei genitori verso i figli è stata ben incarnata dalla storia di autolesionismo di Jackson Marchetti (Kedar Williams-Stirling), e si è costruita una bella amicizia fra lui e Viv (Chinenye Ezeudu).

Si è detto molto insomma, con uno stile fresco e accattivante. Già non si vede l’ora della terza confermata stagione.

lunedì 24 febbraio 2020

THE CROWN: la terza stagione


La terza stagione di The Crown si concentra sugli anni della Corona britannica fra il 1964 e il 1977.  Forse complice il fatto che dall’uscita della precedente sono passati molti mesi, ma il completo rinnovo del cast dei protagonisti, per invecchiarlo, è avvenuto in modo naturalissimo e privo di sforzo. Non solo il casting è stato quanto mai azzeccato e ci siano state molte dimostrazioni di bravura da parte di tutti, con interprestazioni molto sottili, è perfino incredibile quanto sembrino di fatto le stesse persone che abbiamo seguito in passato.

Nella prima puntata (3.01) si riflette da subito sull’invecchiamento: la regina guarda il nuovo francobollo con la sua effige, a confronto con quella passata. È una sovrana più matura questa, non più disorientata ma ormai sicura del suo ruolo, consapevole dell’inevitabilità di certi cambiamenti. Olivia Colman che la interpreta ora (premio Oscar per La Favorita) è estremamente espressiva e anche meglio della sua predecessora riesce a trasmettere i mutevoli sentimenti che ribollono sotto la superficie del suo volto. Churchill muore, c’è un nuovo primo ministro, Harold Wilson (Jason Watkins, A Very English Scandal), con cui all’inizio c’è un atteggiamento di sospetto, poi sviluppatosi in stima reciproca. Il filtro dell’arte, di cui i reali non si intendono, ma di cui si preparano a presentare una mostra di capolavori appartenenti alla Casa Reale, dà una preziosa opportunità di lavorare in termini metaforici, anche in modo esplicito nella diegesi quando lo storico dell’arte curatore dell’esposizione dei capolavori si rivela essere da anni una spira segreta del KGB. Sotto una tela a volte si manifesta un precedente dipinto, un “pentimento”: qui si manifesta anche nei rapporti umani. La tensione fra ciò che si fa ed è pubblico e ciò che si vorrebbe fare ed è privato rimane uno dei capisaldi della narrazione.   

Magistrale in “Margaretologia” (3.02) il modo in cui è stato costruito un confronto, anche fra passato e presente, fra la Regina e la sorella, in parallelismi e dicotomie. Si sono esplorate personalità, responsabilità, sorti. Tanto è noiosa e affidabile Elisabeth, quanto è brillante e scapestrata Margaret (ora Helena Boham Carter). La prima avrebbe fatto a meno di regnare, la seconda avrebbe agognato farlo, ma il destino ha voluto diversamente. Nella puntata Margaret, partecipa, al posto della sorella, a una cena con il presidente americano Johnson, ed è un enorme successo, nonostante non si attenga al protocollo, ma anzi proprio per quello. L’evento sociale mascherava un importante e delicato obiettivo diplomatico, andato in questo modo a buon fine: il Regno Unito riesce così ad ottenere indispensabile sostegno economico dagli USA. Margaret vorrebbe un ruolo ufficiale maggiore, che le regole non le consentono. L’ingiustizia e il risentimento e l’invidia che nasce dalla situazione, il senso del potere e il peso dell’indole personale nella vita vengono esplorati con sceneggiatura e regia in sintonia e in sincrono perfetto, l’eco l’uno dell’altra. 

Non c’è membro della famiglia reale che non debba fare i conti con quello che la Storia ha imposto che fossero e lo scarto con le proprie aspirazioni. Elisabetta II si concede un viaggio in Francia e Stati Uniti per esaminare dei cavalli da corsa e per una breve parentesi assapora quella che poteva essere la vita che avrebbe voluto (“Colpo di Stato”, 3.05). In un altro momento si interroga sulla propria capacità di provare emozioni che razionalmente ritiene di dover provare: quando il crollo di una miniera ad “Aberfan” (3.03), nel Galles, uccide quasi 150 persone, la maggior parte dei quali bambini, la regina si rifiuta di presenziare alle esequie, mandando il marito. Accortasi dell’errore vi si reca per una visita, ma niente elicita la reazione che lei stessa si aspetta da sé: “Hai pianto?” chiede al marito, cercando forse una risposta comportamentale giusta a lei che si sente inadeguata.

Ha senso il suo ruolo? Alla fine lei è quella che, a detta della sorella (3.10), deve nascondere le crepe, per evitare che tutto crolli. Ma hanno senso in generale i loro ruoli come reali? Il principe Filippo (un impeccabile Tobias Menzies, Outlander), in una puntata in cui si riavvicina alla madre che lui voleva tenere lontana dai riflettori per paura di sfigurare (“Birbantello”, 3.04),  con un documentario cerca di dimostrare l’impegno e la rilevanza della casa reale, ottenendo l’effetto opposto. Matura una profonda crisi personale in occasione dell’allunaggio. Disprezza il religioso che gli offre un momento di riflessione spirituale insieme ad altri uomini di fede e che riconosce che nel guardare le imprese degli astronauti la gente ha avuto dalla televisione un “senso di unione, di comunità, di stupore, di meraviglia” che un tempo aveva dalla chiesa. Philip osteggia la loro riflessività; l’azione è per lui il senso della vita, il compiere imprese come quella di questi pionieri, le gesta eroiche: quando incontra però gli astronauti in un’udienza privata ne è deluso, è disilluso dalla prosaicità delle loro attività e dell’assenza di una risposta, di una tensione verso qualcosa di altro, di alto. E riconsidera la propria posizione. 

La solitudine del principe Carlo (Josh O’Connor), spedito in Galles tre mesi per imparare la lingua (“Tywysog Cymru”, 3.06), e osteggiato, mette in evidenza come il suo dovere è reprimere chi è. Si riconosce nel popolo gallese. “Nessuno vuole sentire la tua voce”, lo apostrofa senza sentimentalismi la madre. È qualcuno che è indispensabile e inutile allo stesso tempo, libero e prigioniero. (1.08) La stessa scelta di una ragazza, Camilla (Emerald Fennell), come gli onori della cronaca già ci hanno reso noto nel tempo, non è una scelta che possa essere lasciata solo alla propria volontà.

Scrive bene Alan Sepinwall su Rolling Stone quando riflette sul fatto che questa serie, anche più di altri racconti sull’aristocrazia britannica, corre il rischio perpetuo di sembrare un’apologia auto-indulgente di gente che di fatto è nata in circostanze splendide e non avrebbe nulla di cui lamentarsi. Peter Morgan però, l’ideatore, riesce nella difficile impresa di articolare in modo chiaro i fardelli della Corona, sia per chi la indossa che per le persone che le sono vicine, e di mostrare che forse il gioco non vale la candela, forse i soldi e i castelli di lusso non sono uno scambio equo di fronte quello a cui si rinuncia.

L’attualità ci propone la scelta di allontanamento del Principe Harry e della consorte Meghan Markle dalla vita pubblica della famiglia reale e, con quell’eco nella mente, queste storie di finzione risultano quanto mai attuali, e permettono di far capire come parlare di questi argomenti e di certe scelte non sia poi solo frivolo gossip, ma abbia un valore per la risonanza su quello che significano dal punto di vista politico e personale, sulla filosofia e la concezione della vita che incarnano.

Proprio a voler trovare un difetto nella serie si è forse perfino troppo espliciti nelle tematiche affrontate, ma non stona. Che ruolo abbiamo nella vita, che segno lasciamo, come siamo pubblicamente e come privatamente, sono pensieri, a diversi livelli, che toccano tutti. E la sontuosa terza stagione, cinematograficamente anche ricca di inquadrature eleganti, è stata decisamente appagante.  

venerdì 14 febbraio 2020

MODERN LOVE: una serie asciutta e delicata

Ha il sapore di una raccolta di racconti Modern Love, la serie antologica che ha debuttato su Amazon lo scorso ottobre basata su una rubrica settimanale del New York Times (qui) diventata anche un podcast. A dispetto della bella sigla di apertura che zigzaga su romantici momenti di varie coppie, qui il senso dell’Amore Moderno suggerito dal titolo non è esclusivamente, anche se lo è prevalentemente, di tipo sentimental-relazionale.

Maggie (Cristin Milioti, A to Z), una critica newyorkese, frequenta molti uomini, ma a giudicare se sono adatti a no a lei c’è il portiere del complesso dove vive, Guzmin (Laurentiu Possa) – 1.01; una giornalista (Catherine Keener, Forever), raccontando la propria storia al suo intervistato, Joshua (Dev Patel, The Newsroom), gli fa rendere conto di non farsi sfuggire la donna che ama sul serio – 1.02; Lexi (Anne Hathaway, Il Diavolo veste Prada, Interstellar) sabota involontariamente ogni relazione e ogni posto di lavoro che ha, a causa del disturbo bipolare di cui soffre – 1.03; Sarah (Tina Fey, 30 Rock) e Dennis (John Slattery, Mad Men) sono una coppia con il matrimonio in crisi che cerca di ritrovare la connessione persa – 1.04 – in una puntata scritta e diretta da Sharon Horgan (Catastrophe); al loro primo appuntamento, Yasmine (Sofia Boutella) e Rob (John Gallagher Jr, The Newsroom) finiscono all’ospedale – 1.05; Maddy (Julia Garner, Maniac) vede nel suo capo al lavoro, Peter (Shea Whigham, Homecoming),  una figura paterna – 1.06 (qui la regia è di Emmy Rossum di Shameless); una coppia gay, Tobin (Andrew Scott) e Andy (Brandon Kyle Goodman),  intende adottare il bebè di una senzatetto incinta – 1.07 (questa storia era tratta da uno scritto di Dan Savage); Margot (Jane Alexander, Tell Me You Love Me) e Kenji (James Saito) sono coppia di anziani che si innamorano facendo jogging – 1.08.

L’ultima puntata ha una coda in cui tutti i personaggi delle puntate vengono ripresi, cosa che in sé mi ha fatto molto piacere, ma è apparsa un po’ posticcia, appiccicata. Più senso avrebbe avuto se nelle varie puntate ci fossero state comparse degli altri protagonisti, magari fugaci e tangenziali nel mostrare comunque un mondo variegato e interconnesso, ma così non è stato per cui mostrarlo così solo alla fine non è stata una scelta retorica troppo felice. Ma è la sola vera critica negativa che mi sento di rivolgere.

C’è molta delicatezza in queste storie per la gran parte scritte e dirette da John Carney, e molto realismo nel mostrare l’amore nella sua ineffabilità, e nelle sue difficoltà anche. Non sono commedie romantiche di facili sentimenti, e nemmeno si mostra un amore fatto di magici trasporti e perfezioni estatiche che, se ci sono, sono piuttosto attimi fuggevoli, ma è un’esplorazione onesta di un sentimento che porta anche delusione e amarezza, insicurezza e rimpianti. È spesso commovente, ma non sciropposo, né costruito a tavolino fuori dal nulla. Dal momento che si tratta di vignette autoconclusive, si gioca bene con il tempo, che passa veloce. La narrazione è asciutta. Elegante. 

martedì 11 febbraio 2020

KATY KEENE: una favoletta stucchevole


Nello spin-off di Riverdale intitolato Katy Keene, il cui pilot ha debuttato lo scorso 6 febbraio sull’americana CW, Katy (Lucy Hale, Pretty Little Liars, Life Sentence), basata sull’omonimo personaggio dei fumetti Archie Comics, è una aspirante stilista che di notte confeziona i propri abiti, con una inclinazione verso il rosso, con la vecchia macchina da cucire ereditata dalla madre, e di giorno lavora come assistente in un grande magazzino di lusso di New York, Lacy’s, dove ambisce a diventare personal shopper dei ricchi e famosi. Ha un fidanzato, KO Kelly (Zane Holtz), che lavora come buttafuori in un locale e mira a diventare pugile, e vive con due suoi amici: Jorge (Jonny Beauchamp), che sogna una carriera a Broadway e lavora come drag queen con il nome di Ginger Lopez; e Josie (Ashleigh Murray, Riverdale), fresca della città, che intende sfondare come cantante dopo l’esperienza liceale con le Pussycats ed altre successive. Fra le sue amiche più care conta anche l’esperta di social media Pepper Smith (Julia Chan).   

Sviluppata da Roberto Agiurre-Sacasa e Michael Grassi, la serie è senza ritegno e senza vergogna una favola per ragazzine (la prima puntata è pure intitolata “C’era una volta a New York”), con le protagoniste che lavorano sodo per i propri sogni, ma ottengono tutto con una facilità sorprendente: Josie appena arrivata, improvvisa qualcosa a Washington Square insieme a una donna conosciuta lì sul momento e le viene potenzialmente offerto da un discografico super-carino e super-potente il contratto di una vita, anche se poi le cose non vanno come spera. Katy deve far colpo su un principe che spende molto denaro da Lacy’s, per non deludere la sua esigentissima principale, e salva la situazione con la ragazza di lui diventando la preferita del reale, nonostante l’invidia di una collega. Solo il povero Jorge viene ritenuto “troppo gay” in un’audizione per “Mannequin” a cui si è presentato. E dal canto suo KO è, dal pilot, poco più di un accessorio da sbaciucchiare per Katy che altro. La prima scena in cui appare, in mutande, è la definizione del fan service.  

Si sono osservate molte potenziali influenze: Riverdale, Sex and the City, Il Diavolo Veste Prada, Saranno Famosi, Felicity, The Bold Type, Rent, Valley of the dolls…C’è un’estetica retrò, visibile già dalle primissime immagini, oltre che da certi outfit, ma si è chiaramente ancorati al presente anche con riferimenti culturali pop vari. Ci sono colori saturi.  La romanticizzazione è smaccata e gloriosamente stucchevole, ma volutamente tale. Ci sono scene da cartolina, attenzione alla moda, intramezzi musical – è definito un musical dramedy -  e gli intenti e le emozioni dei personaggi sono tutti molto marcarti. Dal pilot ci vedo un potenziale successo, specie fra i giovanissimi, ma io passo.

mercoledì 5 febbraio 2020

DICKINSON: un'anacronistica poetica follia


Il più delle volte la Emily di Dickinson, la rivisitazione in chiave moderno-adolescenziale della vita della ben nota poetessa, sembra la rappresentazione di una ragazzetta viziata americana moderna e nulla di più. Voglio dire, ci vuole qualcosa di più di esclamare un “let’s get this party commenced” (1.03) invece di un “let’s get this party started” – ovvero usare un verbo più obsoleto per esprimere “che la festa abbia inizio” - per trasportarci in un’epoca passata.

Mi rendo conto ovviamente che è parte dell’obiettivo: mostrare l’attualità dell’esperienza dell’autrice alle generazioni contemporanee, andando al cuore della sua essenza. Mi chiedo però perché Alena Smith (The Affair), l’ideatrice, non abbia pensato a un qualche escamotage per rendere credibile la commistione passato-presente invece di stravolgere la realtà dell’epoca: che so, prendere una giovinetta odierna che sta studiando letteratura e farle fare dei voli di fantasia immaginandosi come l’eroina della penna. Almeno si evitava la sensazione di ragazzine d'oggi che si mettono in costume per gioco. Magari sono io che ho idee più restrittive rispetto a quello che la realtà era a quel tempo, ma la mia impressione è che si mostri il comportamento di quelle pulzelle come all’epoca sarebbe stato quello di donne di bordello, non di giovani di buona famiglia, come si suppone siano quelle rappresentate. Proprio come la mentalità su queste cose sia cambiata nel tempo, e quali fattori hanno contribuito al cambiamento, e come studiarlo ci possa aiutare nell’oggi, ha un ruolo filosofico-politico significativo. Con questo genere di approccio, simili riflessioni vengono cancellate, ed è un delitto, la più grave mancanza di questa serie, che per il resto è accuratamente ricercata e cosciente della realtà.

Siamo in Massachusetts, nel 19° secolo. Emily (Heilee Stenfeld) è una teen-ager – questo stesso termine sarebbe inappropriato all’epoca, ma vista la poetica dell’ideatrice un anacronismo da parte mia ci sta -, ed è una ribelle che aspira a fare la poetessa. Ha molto talento, ma è osteggiata dal padre Edward (Toby Huss) che ritiene che le donne non debbano scrivere, ma dedicarsi solo ad attività domestiche, alle quali la madre Emily (Jane Krakowski) la sottomette. La loro è una famiglia distinta, conosciuta in città da generazioni, e l’essere pubblicata porterebbe disonore, nella prospettiva del genitore, tanto più che ha ambizioni politiche. Ha una sorella più giovane, Lavinia (Anna Barishnikov), che ha testa solo per i ragazzi, ed un fratello più grande, Austin (Adrian Enscoe) che è fidanzato con Sue (Ella Hunt), un’orfana piena di debiti, che è la migliore amica di Emily. Di più, fra Emily e Sue c’è un rapporto saffico. A corteggiare Emily c’è un compagno di scuola che la apprezza moltissimo, George (Samuel Farnsworth), ma lei lo disdegna mostrando invece apprezzamento per un segretario del padre, Ben (Matt Lauria, Parenthood).

Con puntate ispirate ogni volta a dei versi di una lirica, che fungono anche da titolo, e che appaiono periodicamente sullo schermo come fuggevoli scritte dorate, i temi che si affrontano sono rilevanti allora come ora: la propria vocazione, come sviluppare e far sentire la propria voce e il proprio autentico io, la poesia, il ruolo nella società e il giudizio della società, l’essere donna e la femminilità, l’essere soli vs. sposarsi, la sessualità, l’ambientalismo, la morte… Quest’ultima è rappresentata come un personaggio a tutti gli effetti, in carne e ossa (Wiz Khalifa), in momenti fortemente visionari, come quello affascinante della season finale (1.10) in cui la protagonista immagina il proprio funerale e in cui compare un altro di questi ricorrenti personaggi di fantasia, l’Ape (Jason Mantzoukas), delle dimensioni di un umano adulto.

Si nota un certo taglio umoristico, su cui volutamente si preme l’acceleratore. La madre restrittiva che imporne rigide regole alle figlie viene fatta esprimere con un tono iperbolico quasi da sit-com nel raccomandarsi alle figlie di “pulire costantemente” casa mentre lei non c’è. Non è un caso, credo che ad interpretare Henry David Thoreau, che Emily va a trovare sperando di ingaggiarlo come sostenitore a favore della sua causa a che non venga abbattuto l’albero preferito della sua tenuta per farvi passare una ferrovia (1.02), sia stato assunto un comico, John Mulaney. La storia, quella vera, ci racconta di un uomo solitario e frugale sulla carta, ma che poi nella realtà si faceva ampiamente mantenere dalle donne di famiglia. Qui hanno toni esplicitamente comici la madre che passa col cesto a ritirargli la biancheria da lavare e la sorella che passa a portargli i suoi dolcetti. Lo stesso hanno fatto con Louisa May Alcott (interpretata da Zosia Mamet di Girls), invitata a un pranzo di Natale (1.08), fresca della sua prima pubblicazione, ritratta come una romanziera unicamente interessata ai soldi, e pronta a tavola a discutere possibili idee letterarie fra cui quella di Piccole Donne che la renderà famosa, e quella che sarà il Moby Dick di Melville, che lei prontamente respinge come noiosa. L’irrisione giocosa qui è indubbia, ma nel complesso il tono della serie sembra indeciso, sbagliato. Forse semplicemente non convince me. Almeno non del tutto, perché contemporaneamente, con la sua verve, è molto gustosa.

Non sono sicura di condividere moralmente, per così dire, l’esperimento di narrazione biografica, ma sono disposta a raccoglierlo come una poetica follia. In questa prospettiva, non poso negare che sia riuscita.  Non sorprende che sia fra le serie più richieste della neonata AppleTV+, quando era una delle debuttanti da cui ci sia aspettava di meno.