giovedì 17 novembre 2011

GRIMM: un procedurale sovrannaturale deludente


In Grimm - la serie partita alla fine di ottobre sull’americana NBC, titolo che fa riferimento tanto alle fiabe dei fratelli Grimm, quanto al fatto che grim in inglese significa “cupo” - Nick Burkhardt (David Giuntoli) è un poliziotto della omicidi di Portland che comincia a vedere dei mostri nei volti di alcune delle persone che incontra. Messa alle strette dalla situazione, la zia morente (Kate Burton), che gli ha praticamente fatto da madre, gli rivela che quando ha perso i genitori è perché erano stati uccisi e che lui è un Grimm, un veggente in grado di riconoscere e combattere creature mitologiche di varia natura che costituiscono una minaccia per l’umanità. Finisce per conoscere un “lupo mannaro” “riformato” che lavora come orologiaio, si mantieni in forma con il pilates e cerca di aiutarlo come può,  Monroe (Silas Weir Mitchell), e per risolvere i casi grazie alle sue doti, cercando di non far insospettire nè il suo collega  Hank (Russell Hornsby), né la sua fidanzata Juliette (Bitsie Tulloch).
Il primo episodio è stato ispirato a cappuccetto rosso, con una universitaria uccisa mentre era andata a far jogging nel bosco con una felpa rossa, e poi con una bimba rapita che pure aveva un indumento con cappuccio rosso. La puntata esordisce proprio con una citazione: “Il lupo pensò fra sé e sé, che tenera giovane creatura, che bel bocconcino - (I fratelli Grimm, 1812)”.  
Ideato da Stephen Carpenter, David Greenwalt (Angel, Buffy, X-Files) e Jim Kouf (Ghost Whisperer, Angel), questo procedurale sovrannaturale delude perché è molto blando e generico, privo di forti caratteristiche visuali e anche abbastanza piatto da un punto di vista umano. Nick non si pone tanti problemi alla rivelazione dei suoi poteri e del suo nuovo ruolo, ma si rinchiude in una roulotte a cercare di comprendere vecchi tomi e disegni. Qui e lì si vede che si è stati a scuola da Angel, anche nel pizzico di umorismo che Monroe riesce a dare, ma la lezione non è stata fatta propria.
Si chiamano in causa le favole in un momento in cui vanno per la maggiore (in Italia abbiamo avuto Cenerentola, e al cinema, ricorda Mike Lechevallier su Slant Magazine, ci sono stati due film che traggono ispirazione dai fratelli Grimm, Hanna di Joe Wright e Drive di Nicolas Winding Refn). Allo stesso tempo si ripete che “questa non è una favola” , dichiarando cioè che c’è un fondo di verità in quello che questi racconti narrano, ma non si abbraccia lo spirito e il valore di questo genere letterario, né si riesce a reinterpretarlo per costruire qualcosa di nuovo e vitale, come sta facendo l’eccellente Once Upon a Time.

mercoledì 16 novembre 2011

CRUSOE: un eroe da parco giochi


Descritta come un miscuglio di Lost, MacGyver, Cast Away e I pirati dei Caraibi, Crusoe, la serie del 2008 della NBC disponibile su Amazon in DVD, ispirata al classico della letteratura di Daniel Defoe, sembrava molto attraente. Forse i bambini o i preadolescenti potranno trovare pane per i loro denti in un telefilm di avventura e azione, condito di umorismo, dove l’isola dove è naufragato lo sventurato Robinson sembra più un parco giochi di mille astruse “attrazioni” di ingegneria che altro. Alla fine è anche ben poco deserta, infatti arrivano pittoreschi pirati, lì dove vive forzatamente il protagonista (Philip Winchester) in compagnia del giovane “selvaggio” (che comunque conosce ben 12 lingue) Venerdì (Tingasi Chirisa), - nella realtà le scene sono girate fra Gran Bretagna e Sud Africa. Questi pirati, uno dei quali ha una mappa marchiata sulla schiena, catturano Robinson con il proposito di farsi aiutare, nonostante lui abbia preparato per precauzione sulla sua strada un’infinità di trappole.

Chi cercasse nella serie ideata da Stephen Gallagher le ambizioni allegoriche del libro vuole troppo. La sceneggiatura nel resto del tempo ricostruisce con dei flashback il passato del nostro naufrago, zigzagando nel tempo con mal riuscito sentimentalismo. Rimane orfano di madre da piccolo e nel vedere il padre che ne riconosce il corpo in un obitorio ante litteram si sente una voce di adulto commentare che non si sa che cosa sia più duro per un bambino, se vedere la madre morta o il padre che piange. Io un’idea su che cosa sia più difficile ce l’avrei. Siamo a questi livelli. E molte alzate si sopracciglia ha causato nella critica il fatto che Robinson non faccia una piega nel vedere una donna, dopo molto tempo dall’incidente che lo ha tenuto distante dalla moglie Susannah (Anna Walton), per cui si strugge ancora. Nella serie vedo i punti di riferimento e di ispirazione anticipati, peccato che non sia stati messi a buon uso. Risibile, a prenderlo sul serio. 

martedì 15 novembre 2011

PARENTHOOD: fardello e privilegio


Nella puntata “Do Not Sleep With Your Autistic Nephew’s Therapist” (2.17) di Parenthood, scritta è diretta da Jason Katims (che ha anche sviluppato questa serie) e che termina con Max che sente suo padre Adam e suo zio Crosby litigare, e Adam dire che lui ha la sindrome di Asperger, viene esplicitato attraverso le parole di Sarah e il padre dei suoi figli, Seth, come questa serie concepisce l’essere genitori, argomento che già dal titolo è la colonna portante: è un fardello, ma allo stesso tempo è un privilegio.
Lo si vede qui, proprio con Sarah e Seth, e con Julia e Joel quando che si vedono la bimba Sidney diventare improvvisamente vegetariana, e nella successiva “Qualities and difficulties” (2.18), scritta da Bridget Carpenter e diretta da Robert Berlinger, con Adam e Kristina che devono spiegare a Max in che cosa consiste la sua forma di autismo, con il terapeuta che disapprova come lo hanno fatto e con loro che cercano di imparare come farlo e si dicono a vicenda che sono un buon padre e una buona madre. In tutte queste situazioni si vedono entrambe le realtà – il fardello e il privilegio - e contemporaneamente, e talvolta il confine fra le due è molto labile.
Ancora una volta Parenthood si dimostra una serie molto solida e quella che meglio racconta, in questo momento in forma drammatica, con cervello e complessità emotiva, che cosa significhi essere una famiglia. Notevole anche il taglio multigenerazionale: gli anziani non sono vecchie pantofole polverose che non hanno più nulla da dire – Zeek e Camille che chiudono la porta in faccia allo spettatore dopo che una bacio tira l’altro sono stati perfetti (2.17) –, ai bambini è concessa l’ingenuità, agli adolescenti la voglia di sperimentare la vita, agli adulti il fatto di non avere tutte le risposte. Vivono, e anche questo è un fardello e un privilegio.   
Nella foto: Sarah (Lauren Graham), che ha esplicitato questa idea nella serie, con i figli Amber (Mae Whitman) e Drew (Miles Heizer).     

lunedì 14 novembre 2011

BIENNALE DI VENEZIA: televisori nel padiglione svizzero


Le foto sopra e quelle sotto sono state scattate all’Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia di quest’anno, in un’edizione intitolata ILLUMInazioni, presso il padiglione della Svizzera, nella parte della mostra dei Giardini (per chi non fosse pratico, è divisa fra Giardini e Arsenale). L’artista Thomas Hirschhorn l’ha intitolata “Crystal of Resistance”.
Come si può vedere, parte dell’opera sono televisori (l’oggetto) e televisioni (l’oggetto in quanto immagini), in un caotico marasma di oggetti, che non usava solo questi, ma giornali, foto, manichini, cellulari, lattine e molto altro. Applicate a una parete c’erano quelli che sembravano voraci bocche dai denti di cotton-fioc, altrove c’erano bottiglie vuote e cocci di bottiglie sui muri. Qui e là c’erano cristalli che resistevano a tutto e nascevano su tutto.
Non mi azzardo a fare chissà che interpretazioni dell’opera, molto ricca di spunti, come si può vedere e leggere anche al link dell’opera. Il senso che è rimasto a me – se fosse quello voluto non lo so, e in ogni caso il significato di un’opera d’arte va sempre comunque al di là delle intenzioni dell’autore e non è dato né si esaurisce in una sola volta -  è quello che l’essere umano riempie, ingolfa, sporca esasperatamente il mondo di cianfrusaglie, parole, immagini, spazzatura da cui emergono, come un atto di resistenza, solo alcuni cristalli.    
Presente è anche la TV, lo schermo. E di schermi se ne sono visti tanti quest’anno alla Biennale. Non solo quando si trattava di installazioni video. Di quest’edizione mi ha colpito proprio quanti veri e propri schermi ci fossero come parte essenziale dell’opera, quasi che l’arte contemporanea non potesse farne a meno. Spenta o accesa, la TV, cme oggetto prima ancora che come contenuto, è onnipresente.





venerdì 11 novembre 2011

HART OF DIXIE: il pittoresco cuore del sud


In Hart of Dixie, serie della CW partita negli USA a fine settembre e confermata per un’intera stagione, Rachel Bilson (The OC) è la dottoressa newyorkese Zoe Hart (la Hart del titolo), una aspirante chirurgo cardiotoracico che, non potendo continuare la specializzazione come sperava e pure mollata dal suo ragazzo, decide di trasferirsi e accettare la proposta di una anziano dottore, Harley Wilkes (Nicholas Pryor, Port Charles), a lavorare con lui. Per questo si trasferisce in Alabama, Stato conosciuto anche  come Heart of Dixie, omofono del titolo e, dato che Heart in inglese è “Cuore”, simbolico del fatto che qui la nuova dottoressa imparerà a mettere sentimento in quello che fa. Arrivata nella cittadina di Bluebell, scopre che il medico in questione è prematuramente scomparso e che le ha lasciato in eredità metà dell’ambulatorio medico cittadino. Per la fine del pilot viene a sapere che si trattava del suo padre biologico e decide di fermarsi.
TV Guide ha giustamente ri-nominato la serie Southern Exposure, una versione sudista del classico Northern Exposure-Un medico tra gli Orsi, ma in questa cittadina del sud come non se ne vedevano con ambientazioni esterne tanto belle dai tempi di Savannah, dove la cucina prevede specialità come grits, mint julep e gumbo, e dove si organizzano eventi di comunità che richiamano Gilmore Girls-Una mamma per amica, Hart si trova un pesce fuor d’acqua, in ostilità col dottor Brick Breeland (Tim Matheson) - alla Everwood – l’altro medico locale con cui deve dividere lo studio, e “nel mezzo del nulla” con possibili incontri ravvicinati con strani animali: un ranocchio sul letto appena sveglia (1.02), zecche (1.02), serpenti (1.03), Burt Raynold (1.01) ovvero il coccodrillo domestico del sindaco della cittadina, l’ex giocatore di football Lavon Hayes (Cress Williams, Friday Night Lights) – alla Men in Trees, telefilm che viene richiamato come sensibilità in più occasioni, compreso un certo gioioso apprezzamento per una ben poco timida esposizione del corpo maschile nudo. (Non mi vedete piangere).
I calzoncini corti di Hart non passano inosservati alle tre anziane pettegole del paese, che commentano sedute su una panchina (dopo due sole puntate già le voglio rivedere - Clara, Lu and Em di una nuova generazione?), e lei non passa inosservata nemmeno all’avvocato che le dà un passaggio fino in centro all’arrivo, George Tucker (Scott Porter, Friday Night Lights), sebbene sia fidanzato con Lemon (Jamie King, Kitchen Confidential), figlia del medico che divide l’ambulatorio con Hart e bellezza del sud, vestita quasi sempre in tonalità di giallo e ricercatissimi cappellini, che cerca di nascondere una certa attrazione per il sindaco con cui ha un passato. Il fascino della nuova dottoressa non sfugge nemmeno al suo vicino di casa Wade Kinsella, ovvero l’attore Wilson Bethel (Febbre d’Amore), che come guest-star in The OC ha già avuto modo di interpretare il ragazzo di Rachel Bilson che in quella serie interpretava Summer. Wade, che Hart  ubriaca bacia e che lui si diverte a stuzzicare, lavora anche come barista nel locale della cittadina, il Rammer Jammer (nome che è un’incitazione sportiva tipica dell’Alabama University, con una storia piuttosto controversa).     
Ideata da Leila Gerstein, e con produttori esecutivi i ben noti Josh Schwartz e Stephanie Savage (Gossip Girl, The OC), questo telefilm è molto meno kawaii di quanto non mi aspettassi. È accogliente, un po’ come si dice siano gli ex-Stati della Confederazione che tengono alle buone maniere, e di nobili sentimenti. I casi medici sono vagamente patetici nel senso che sono appena abbozzati e giusto messi lì come scusa, ma è chiaro che non è quello il punto. Si è anche radicati nella realtà (I Soprano e Sex and the City, così come l’Uragano Katrina e il disastro ecologico della BP sono cose che esistono nella loro realtà), ma questa è una cittadina tanto pittoresca quanto ideale nel fare comunità. Dopo quattro, cinque puntate ti affezioni ai personaggi e, anche se sono un po’ finti e un po’ troppo zuccherosi, hai voglia di vederli lo stesso e di sederti con loro attorno ai tavolini con le tovaglie a quadretti allestiti sul prato, a mangiare la colazione di pancake organizzata dal reverendo Mayfair e sua moglie (1.05). Per la cittadina di Bluebell (che in inglese è la “campanula”, il fiore) la CW ha anche ideato un sito, con un messaggio del sindaco, gli eventi cittadini, le pubblicità dei locali, un blog di gossip e molto altro ancora, come  fosse vera.
Posso però segnalare una cosa che mi dà molto ai nervi? La protagonista guarda con aria schifata il pranzo, qualcosa che non sarà di suo gusto ma che è perfettamente commestibile, e lo butta nella spazzatura senza nemmeno toccarlo (1.01). Che schiaffo a chi non ha da mangiare. Che comportamento immorale. È una scena che si ripete in molte serie americane  - in MacGyver addirittura nella sigla si vede il protagonista dare due leccate a un gelato e buttare via quello che non gli va più di finire – e che personalmente trovo scandalosa.

giovedì 10 novembre 2011

LOREM IPSUM: il punto di vista del web, fra serio e faceto



Dice Wikipedia: “Il Lorem ipsum è un insieme di parole utilizzato da grafici, designer, programmatori e tipografi come testo riempitivo in bozzetti e prove grafiche. È un testo privo di senso, composto da parole in lingua latina (spesso storpiate), riprese pseudocasualmente da uno scritto di Cicerone del 45 a.C.”.
Lorem Ipsum è invece un programma di DeeJayTV (ore 20.00), scritto e raccontato con molta ironia da Matteo Curti, che analizza attraverso qualche filmato di repertorio e soprattutto attraverso “il punto di vista del web” l’argomento  scelto per la puntata: gli UFO, dimagrire, auto e moto, dialetti e musica, cani e gatti, bambini e anziani, l’inglese dei politici…
La forza del programma, che dura 10 minuti circa a puntata ed è giunto alla sua seconda edizione,  sta nel sapersi mantenere fra il serio e il faceto, riuscendo ad essere contemporaneamente informativo e esilarante mostrando le molte bizzarrie umane. Sul web, sul sito del programma, è possibile vedere, o rivedere, le puntate.

mercoledì 9 novembre 2011

SUBURGATORY: il purgatorio della periferia, e della TV


La critica ha mediamente apprezzato Suburgatory, la sit-com della ABC partita a fine settembre e confermata per un’intera stagione,  molto più di quanto non abbia fatto io, che l’ho trovata troppo carica per i miei gusti.
George Altman (Jeremy Sisto, Six Feet Under) è un architetto newyorkese che cresce da solo una figlia adolescente, Tessa (Jane Levy). Un giorno trova in camera sua un pacchetto di preservativi e, preoccupato, decide di trasferirsi in periferia (suburbia in inglese), cosa che non aggrada troppo alla figlia che si trova catapultata in quello che considera un purgatorio (purgatory) di finte apparenze dove la gente si allarga un po’ troppo. Da qui il titolo: suburbia più purgatory uguale suburgatory. Nonostante l’aria artificiale, a Tessa, che una madre non ha, non sfugge l’attenzione materna di Dallas (Cheryl Hines, Curb Your Enthusiasm) nei suoi confronti,  e c’è una possibile per quanto improbabile amicizia con la figlia di lei Dalia (Carly Chaikin).
Soprassediamo sulla premessa poco credibile. Avesse George trovato la figlia, che so, a letto con più di un ragazzo contemporaneamente, avrei anche potuto trovare ragionevole il trasferimento, ma davvero un newyorkese oggidì si preoccuperebbe  tal punto di trovare dei condom in camera della figlia adolescente? Sarebbe da preoccuparsi di più se non ci fossero. Anche abbuonando però la premessa tirata un po’ per i capelli, la serie non mi esalta.
L’atteggiamento condiscendente di Tessa glielo perdoni anche, è un’adolescente dopotutto: uno sguardo fresco e critico alla realtà dovrebbe essere una prerogativa di chi è giovane e la sua spocchia è intesa come veicolo per gran parte dell’umorismo della serie. Funzionerebbe forse, se la realtà in questione non fosse così smaccatamente eccessiva da renderla sgradevole e ogni commento superfluo. George la descrive come “felliniana”, sarà che appunto grottesco e circense non sono mai stati nelle mie corde, ma non riesco ad apprezzarlo. La perfezione falsa e la falsità perfetta che si vive dietro alle staccionate bianche e ai prati ben curati della periferia ha trovato una tale impeccabile rappresentazione in Desperate Housewives che quella di Suburgatory alla fine mi appare al confronto solo patetica. E il product placement della Red Bull nel pilot era così smaccato da rendersi complice di ciò che in teoria ci dice che vorrebbe criticare.
Nella prima puntata di questa sit-com ideata da Emily Kapnek la sola battuta che mi abbia fatto davvero ridere è stata quella di Tessa che commenta una gonna che in teoria dovrebbe lasciar scoperto l’ombelico, ma che in realtà, osserva lei, lascia scoperto qualcos’altro: la vagina. Tessa si aggiunge così all’elenco dei personaggi che hanno utilizzato, nell’umorismo di questa gettata autunnale di telefilm, quella che è diventata la parola più gettonata, o forse dovrei dire la più figa.

martedì 8 novembre 2011

Gli attori più pagati della TV


La rivista Forbes ha stilato l’elenco degli attori più pagati della TV: primo Charlie Sheen ($40 milioni a cui andranno aggiunti i 125 milioni di dollari che ha ottenuto dal patteggiamento nella causa contro la serie Due uomini e mezzo di cui faceva parte), secondo Ray Romano ($20 milioni, che deve soprattutto ai diritti del suo famosissimo Tutti amano Raymond, al compenso come attore in Men of a Certain Age e ad altre entrate), terzo Steve Carrell (The Office, $15 milioni). Seguono a ruota Mark Harmon di NCIS (con 13), Jon Cryer di Due uomini e mezzo e Laurence Fishburne di CSI (con 11), Patrick Dempsey di Grey’s Anatomy (con 10) e tutti con 9 milioni di dollari all’anno Simon Baker (The Mentalist), Hugh Laurie (Dr House) e Chris Meloni (Law & Order: SVU).

Combinati, i dieci attori uomini più pagarti guadagnano 147 milioni di dollari all’anno, contro i 94 milioni di dollari annuali dei compensi combinati delle 10 attrici donne più pagate: Tina Fey (per 30 Rock e per il suo libro “Bossypants” che ha venduto 150.000 copie solo nel primo mese) e “la casalinga disperata” Eva Longoria, che guadagnano entrambe $13 milioni, la collega di quest’ultima Marcia Cross, Mariska Hargitay (Law & Order: SVU) e Marg Helgenberger (CSI) che prendono 10 milioni a testa;  le altre “casalinghe” Teri Hatcher e Felicity Huffman, stimate 9 milioni, e a seguire Courtney Cox (Cougar Town, ex-Friends) ed Ellen Pompeo (Grey’s Anatomy)  con 7 milioni. Chiude la decina con 6 milioni Julianna Margulies (The Good Wife).

lunedì 7 novembre 2011

AMERICA IN PRIMETIME: documentario in 4 parti sulla TV


America in Primetime, in onda sulla rete televisiva americana PBS dallo scorso 30 ottobre, disponibile liberamente anche online (al link) e pure acquistabile in DVD, è una serie documentaristica in quattro parti il cui obiettivo è riflettere sulla televisione, attraverso interviste ad attori e autori e attraverso clip mirate  - essendo la PBS un servizio pubblico riesce a usarne molte perché può averne i diritti a un costo contenuto.
Le puntate sono:
INDIPENDENT WOMAN: sulla rappresentazione della donna e come si è trasformata da casalinga modello a tutti i costi a persona complessa e sfaccettata e semplicemente umana.
MAN OF THE HOUSE: sulla rappresentazione dell’uomo, da “re del suo castello” alle recenti conflittuali figure dei programmi attuali.
THE MISFIT: sui personaggi unici che sfidano le aspettative sociali e gli stereotipi comici, portando sullo schermo le personalità più varie.   
THE CRUSADER: sul’eroe e sul tipo di giustizia per cui combatte, sull’ampliarsi della zona grigia fra giusto e sbagliato e sui demoni personali che deve affrontare.

Prodotta da The Documentary Group in partnership con the Academy of Television Arts and Sciences Foundation (ATAS) e WETA Television, America in Primetime adotta una prospettiva in qualche modo storica, perché mostra l’evoluzione dell’argomento trattato dalle origini fino ai nostri giorni, offrendo molti spunti di riflessione. Davvero da non perdere.
Si è partiti con la puntata Indipendent Woman di cui vedete sotto la clip iniziale. È stata eccellente. Temo che la quarta, sul “crusader” (il crociato, letteralmente, colui che combatte, che lotta per un ideale), a giudicare dalla lista di programmi che vengono menzionati sul sito come parte del documentario, lo consideri solo come eroe maschio – nemmeno Buffy? Spero di sbagliarmi, altrimenti questo mostrerebbe una volta in più che, indipendenza o meno, le donne di strada ne hanno ancora molta da fare.  

venerdì 4 novembre 2011

ENLIGHTENED: Laura Dern e Mike White sono "illuminati" e tristi


Mi piace Mike White: le puntate da lui scritte in Dawson’s Creek sono fra quelle di quella serie che mi hanno colpito di più; ho apprezzato il suo contributo in Freaks and Geeks - come dimenticare “Kim Kelly is my friend”  (1.04); ho rimpianto la prematura cancellazione di Pasadena, da lui ideata. Ho atteso con trepidazione un suo nuovo progetto, e ora che è arrivato il nuovo semi-autobiografico Enlightened, per l’americana HBO, co-ideato con Laura Dern con la quale condivide anche i doveri di produttore esecutivo, non sono sicura che mi piaccia. L’ho trovato ben scritto, e ha i suoi bei momenti, ma non posso dire mi abbia conquistata.
Dopo una storia finita male con il suo capo Damon (Charles Esten), Amy (Laura Dern) – di cui facciano conoscenza mentre è sulla tazza del cesso seduta a piangere, con il trucco che le cola - ha un crollo emotivo-psicologico in ufficio. Passa qualche mese in un centro di meditazione alle Hawaii, dove trova la pace interiore nuotando con le tartarughe marine, e torna a Riverside (California) come una donna rinnovata, serena, pronta a “cambiare ed essere agente di cambiamento”. Cerca di fare ammenda per il rabbioso comportamento con cui ha lasciato tutto e tutti, con la minaccia di una causa legale si fa riassumere dalla Abaddonn Industries, la corporation per cui lavorava, e si impegna a riprendere la vita di tutti i giorni con un nuovo atteggiamento. Non è facile: con la madre Helen (Dianne Ladd, la vera madre dell’attrice) ha difficoltà di comunicazione; Damon è sposato e non la vuole vedere; il suo ex Levi (Luke Wilson) sniffa mentre lei gli parla della sua illuminazione; la sua vecchia assistente Krista (Sarah Burns), che ora ha il suo ufficio, cerca di evitarla, sebbene lei la consideri un’amica; il suo nuovo capo Dougie (Timm Sharp), il socialmente imbranato Tyler (interpretato da Mike White, che in questa serie fa anche il regista del pilot) e gli altri colleghi sembrano tutti un po’ squinternati. Lei poi vorrebbe una svolta ecologica per l’azienda, ma nessuno la sta ad ascoltare e finisce ad essere impiegata in quello che in pratica è una specie seminterrato.
Questo dramedy di mezz’ora netta a puntata potrebbe quasi essere una sorta di anti-Nurse Jackie, se non fosse che alla fine dei conti hanno molti più punti di contatto di quanto le due protagoniste non desidererebbero probabilmente ammettere. Amy ha abbandonato il cinismo e il sarcasmo, vuole lasciarsi alle spalle le amarezze e le paure della vita, cerca la crescita spirituale, e vuole raggiungere saggezza e consapevolezza attraverso una via vagamente new-age. La serie decolla nella frizione e nello scontro fra questi due aspetti: la realtà che vorrebbe farti mandare tutto e tutti in malora e l’impegno a renderla migliore. Solo quando il dolore che provoca affrontarla e saperla ribaltare a tuo favore viene esposto alla luce del sole Mike White brilla.
La puntata “Someone Else’s Life” (La vita di qualcun altro, 1.03) si apre con la protagonista sotto le coperte. In voice over si sente: “Qualche volta, a tarda notte, visitata da paura e vergogna, sto stesa a letto e penso alla vita di qualcun altro. Immagino l’amore che ricevono, e il sollievo che si prova nell’essere conosciuti veramente, i piaceri privati che condividono, gli amici che hanno, le pressioni che non hanno, il loro senso di importanza, la soddisfazione del loro lavoro. Immagino quanto sono appagati, quanto è ricca la loro vita. E in questi momenti, mi sento vuota e che mi manca qualcosa”. Su queste parole scorrono le immagini della sua ex-assistente Krista, la cui compagnia lei cerca, senza riuscire ad avere. Verso la chiusura della puntata, dopo aver rinunciato a un lavoro con i senzatetto perché non la pagherebbe a sufficienza per mantenersi e pagare i suoi debiti, Amy riflette: “Qualche volta penso alla vita di qualcun altro. Immagino tutto l’amore che non hanno. Vedo la passione che manca, gli amici che non conoscono, e le terribili pressioni che li schiacciano. In quei momenti, mi rendo conto quanto ho e quanto ho da dare”. E su queste parole scorrono le immagini dei suoi attuali colleghi. Invita Tyler a uscire a pranzo con lei, e anche se Krista si è all’improvviso liberata e ha finalmente tempo da trascorrere insieme, Amy le dice che non può perché ha già un impegno. In questi momenti penso che Enlightened sia sulla strada giusta, pronto a diventare qualcosa di grande, mentre cerca la serenità superando momenti di grande tristezza. In questi momenti penso che valga la pena di fidarsi di Mike White. 

giovedì 3 novembre 2011

CORTESIE PER GLI OSPITI: un piatto che si lascia mangiare


La formula di Cortesie per gli ospiti (Real Time, lunedì, ore 21.10), che ha cominciato la nuova, settima stagione lo scorso 12 settembre, è piuttosto semplice ed azzeccata: due concorrenti mostrano alle telecamere, che li giustappone in un montaggio alternato, tre oggetti che rappresentano loro, le loro vite e le loro passioni e poi annunciano il tema che hanno scelto per la serata in cui invitano a cena i tre giudici del programma e (cose che mi piace) il rivale.  Poi ci si concentra su un concorrente alla volta e lo si segue mentre fa la spesa, mentre cucina, mentre apparecchia. Arrivano i giudici, mangiano, si godono il momento conviviale  che viene ripreso e alternato da flash di commento diretti alla telecamera.
In chiusura Alessandro Borghese fa la propria valutazione in merito alle pietanza e alla loro presentazione, Roberto Ruspoli giudica come sono stati preparati tavola, tovaglia e stoviglie, Chiara Tonelli  offre la propria opinione sulla casa, l’ambientazione e l’accoglienza ricevuta in genere. Dalla somma dei voti che ciascuno di loro dà si ottiene un punteggio che permette di stabilire chi è il vincitore, ma ci può essere un pari merito. Seguono possibili consigli per il miglioramento.
La spesa di realizzazione di un programma del genere è sufficientemente ridotta e il potenziale di ripetizione pressoché inesauribile, il risultato anche però è un po’ fiacco e la ragione è duplice. I concorrenti talvolta sembra che partecipino più per mettersi in mostra che per passione, e i giudici sono un po’ troppo caserecci in come si atteggiano. I giudizi sono anche sensati e curati, ma è proprio nella maniera di porgersi che sembrano un po’ troppo “svaccati”, un po’ troppo “ci facciamo una cena gratis cavandone una puntata”. Insomma, lo show è un piatto che si lascia mangiare, ma che non offrirei agli ospiti.

mercoledì 2 novembre 2011

THE WALKING DEAD (stagione 2): zombie, fede e recessione economica


Nonostante io abbia anche apprezzato in partenza The Walking Dead, alla fine della prima stagione non ero così sicura di volerlo seguire, a causa, come ho spiegato in un post, dei forti, aggressivi maschilismo e misoginia che me ne rendevano pesante la visione. All’inizio della seconda stagione (su Fox dal 17 ottobre, ore 22.45, in pratica in contemporanea con la messa in onda negli USA), seppure la prima nuova puntata non avesse nulla di particolarmente specifico in questo senso, la sensazione mi è rimasta, come di un retrogusto, di un’etica di fondo rabbiosa che alla fine mi fa sentire in modo brutto riguardo a me stessa in quanto donna. È il punto di vista umano che non mi soddisfa. Per questo non sono sicura di volerla seguire anche nella seconda stagione, questa serie, abbandonata in corso di via dal suo showrunner Frank Darabont quest’estate, notizia ampiamente riportata dalla stampa, e già confermata per un terzo ciclo. Intanto ho cominciato comunque.
“What Lies Ahead – La strada da percorrere” (2.01), fuori dalle considerazioni di cui sopra, è stata appassionante. Si è ripreso dal momento subito successivo alla chiusura della prima stagione, quando erano saltati in aria i CDC di Atlanta (il centro per il controllo delle malattie americano). Ed è ricominciato il viaggio, la grande fuga, in macchina, in camper, in moto. Magari lo hanno fatto anche nella prima stagione e non me lo ricordo, ma vedere ora Norman Reedus (che interpreta Daryl Dixon) su una motocicletta non può non far tornare alla mente la sua partecipazione al video di Lady Gaga, Judas, cosa che mi pare voluta. C’è stata la tensione dell’orda di zombie putrescenti da cui hanno dovuto nascondersi, cercando di rimanere silenziosi e immobili, la scomparsa della piccola Sophia (Madison Lintz), e un memorabile colpo di scena finale che non rivelo per evitare spoiler.  
Oltre a quello della sopravvivenza è emerso in modo molto forte il tema di non perdere la fede. In apertura sentiamo Rick (Andrew Lincoln) proprio dire che è quello che cercano di preservare, a dispetto di tutto. Per fine puntata lo vediamo in chiesa, davanti ad una statua lignea di Gesù in croce. Si chiede se lo stia guardando con tristezza, disprezzo, pietà, amore, o forse indifferenza. E chiede un segno. Un segno per avere fede in un futuro diverso. E subito dopo ne riceve uno, non c’è che dire, sempre a proposito del colpo di scena finale che non voglio rivelare.
Su Slate, Torie Bosch riflette sul fatto che gli zombie hanno ufficialmente smesso di essere il genere amato da ragazzini adolescenti soli e vergini, lato macabro di quello che sono per le ragazzine gli unicorni, per diventare una storia dell’orrore fiscale, rappresentazione delle paure della recessione economica, incubo dei colletti bianchi di un mondo dove le loro competenze sono inutili e dove loro diventano un peso  e dove chi sopravvive meglio sono i colletti blu (poliziotti, meccanici, cacciatori…). Forse.