martedì 28 giugno 2022

LIFE & BETH: disomogeneo

In Life & Beth (Hulu, Disney+), conosciamo la protagonista del titolo (Amy Schumer, qui anche autrice) in un momento in cui si sente sconfitta dalla vita: ha un lavoro in cui è veramente brava, vendere vino, ma che non le piace, ed è genericamente infelice, e mai se ne rende conto come quando il suo fidanzato Matt (Kevin Kane) decide di chiederle di sposarlo proprio il giorno del funerale di sua madre (Laura Benanti, Younger), un vero momento di svolta per lei. Comincia una relazione con un agricoltore, John (Michael Cera) che sebbene non venga esplicitato in questi termini si comporta come se fosse nello spettro dell’autismo – e la Schumer dice che il personaggio è basato sul suo effettivo marito che lo è. 

In questa commedia agrodolce Amy Schumer (Inside Amy Schumer, su cui ho scritto un saggio che trovate qui, e al cinema Trainwreck) riesce a mostrarsi molto vulnerabile e introspettiva intersecando il presente e il ricordo di lei adolescente (e in quel caso a interpretarla è Violet Young, che riesce a fare un eccellente lavoro). Vedeva la madre passare da un uomo all’altro, e sfogava la sua infelicità con una tricotillomania, e aveva un padre (Michael Rappaport) che cercava di accontentare le figlie con quello che desideravano, ma aveva progressivamente meno soldi, e nel presente è apparentemente un senzatetto con problemi di memoria a breve termine. La sua infelicità di donna che agli altri non riesce mai a piacere viene anche ancorata da un rapporto con la madre che amava, ma che in modo passivo aggressivo e tangenziale le faceva sempre notare le proprie mancanze. La serie si chiude e apre con un funerale, e con un commento metatestuale di dichiarazione di intenti che riesce a non essere fuori posto solo per il modo umoristico in cui presentato. Che ci sia una grande autoconsapevolezza di fondo è innegabile, proprio anche per mettere il dito nelle proprie piaghe.

Nel sottofinale (1.09), una delle puntate più riuscite, Beth va a fare una risonanza magnetica. C’è un perfetto equilibrio fra situazioni esilaranti, in cui l’umorismo nasce dal comportamento del medico che è in ansia perché, come candidamente ammette, è la prima volta amministra questo test strumentale da solo e ha fatto in passato molti errori, e lei fa delle facce da “oh-mio-Dio-dove-sono-capitata”, e momenti che spezzano il cuore, in cui lei, dovendo rimanere immobile per questa tecnica diagnostica, ripensa proprio alla sua adolescenza. Ci sono al contrario altre situazioni sulla cui credibilità si rimane un po’ perplessi: che la protagonista prenda dei funghi allucinogeni per rilassarsi per superare la paura di fare una gita in barca (1.06) ci sta anche, in considerazione che ci viene raccontato che in una occasione simile ha avuto un grosso incidente che le ha lasciato sulla gamba numerosi punti: che accetti di andarci con qualcuno che pure è completamente fatto mentre la manovra mi sembra molto meno sensato. Che si ripresenti alla vecchia allenatrice di pallavolo del liceo per sostituirla, desiderosa di cambiare vita, è un’idea di base mal sviluppata e in qualche  modo imbarazzante.  

Ci sono momenti davvero autentici, leggeri e profondi allo stesso tempo, di vita reale. C’è stata un’occasione in cui, ripensando al contenuto di una conversazione, mi sono domandata con chi l’avessi fatta e solo poi mi sono resa conto che era avvenuta nell’ultima puntata fra Beth e un’amica che non vedeva da tempo: è stato solo un attimo, ma dimostra la forza di dialoghi che non sembrano costruiti, ma che si percepiscono come vissuti. E sono questi istanti così vibranti, apparentemente meno pianificati, in cui la serie dà il meglio di sé.  

In un progetto che facilmente può essere visto come un film espanso – di solito non un gran complimento per una serie – ma che funziona bene anche nella sua episodicità, al grande realismo si accostano parentesi surreali, ma le varie note non riescono a fondersi in modo armonico. Tutto è piuttosto disomogeneo. Non è un modo in cui trascinerei con entusiasmo qualcuno, ma sicuramente lo ri-visiterei.  

sabato 18 giugno 2022

PACHINKO: quietamente intensa

Il piacere di Pachinko – La moglie coreana (Apple TV+) sta tutto nell’avere la possibilità di commuoversi di fronte a una ciotola di riso bianco, con tutto il peso simbolico che vi si accompagna nei momenti in cui ci viene mostrata, o per il profumo di un indumento che si voleva ancora conservare come ricordo, ma che inavvertitamente è stato lavato (1.05). Le interconnessioni fra passato e presente, la paura, il dolore, la sopravvivenza, i ricordi, l’amore, l’identità, Heimweh, gratitudine, colonizzazione,  sono i temi di questa serie creata da Soo Hugh e tratta dall’omonimo libro del 2017 di Min Jin Lee.

Si tratta di una storia multigenerazionale – le vicende si muovono in un arco di tempo che va dal 1915 al 1989 -, ma in prevalenza dalla prospettiva della protagonista principale che è Sunja, interpretata da Youn Yuh-jung (vincitrice dell’Oscar come attrice non protagonista per Minari) ora che è ormai anziana, e da Kim Min-ha nei ricordi da ragazza (gran pare della storia), quando la Corea di inizio secolo di cui è originaria è dominata dai giapponesi. Romanticamente parlando, due uomini sono stati importanti nella vita di Sunja: Hansu (Lee Min-ho), il suo primo amore da cui ha un figlio, un commerciante e broker del mercato ittico che vive a Osaka, in Giappone, ma che viene regolarmente in Busan, la regione della Corea del Sud di cui è nativo; e Isak (Steve Sanghyun Noh), un ministro protestante che la sposa e da cui ha un secondo figlio, Mozasu (Soji Arai), che da adulto diventa ricco gestendo delle sale di pachinko e che le dà un nipote, Solomon (Jin Ha). Quest'ultimo, laureato a Yale, fa carriera come banchiere di New York, e arriva per aiutare la sua società a concludere un fruttuoso contratto immobiliare in Giappone, dove vive ora la nonna. Sunja, che dopo la morte del padre viveva con la sola madre, una volta sposata si era infatti trasferita a Osaka, a casa del cognato Yoseb (Han Jun-woo) e aveva fatto presto amicizia con la moglie di lui, Kyunghee (Jung Eun-chae). La vita le ha presentato molte difficoltà, ma lei non si è lasciata piegare.

Un focus è il difficile rapporto fra giapponesi e coreani. Scrive appropriatamente il Los Angeles Times: “Ambientato tra la popolazione che i giapponesi chiamano "Zainichi" - coreani giunti in Giappone durante la dominazione coloniale e i loro discendenti, soggetti a restrizioni legali e a discriminazioni generali - è una storia di razzismo, sessismo, classismo, sottomissione, resistenza, assimilazione e ricerca della conoscenza di sé in una società che ti dice chi sei, qual è il tuo posto e cosa puoi fare”.

Sullo sfondo di questo e altri eventi storici come il grande terremoto di Kanto del 1923 (in cui si narra la backstory di Hansu), si tratteggia il ritratto di una donna molto volitiva e risoluta, che pur non sapendo né leggere né scrivere, mostra grande forza d’animo dell’affrontare vere tragedie nella sua vita. Sebbene un ruolo importante lo abbia anche Solomon, specie nella parte professionale – quella personale mi ha convinto molto meno –, e non solo in termini quantitativi, ma per il significato che ha anche in riflesso di quella di nonna Sunja, è indubbiamente quest’ultima la vera eroina della situazione. Si mostra di quanto coraggio ci si deve armare per superare le avversità, talvolta causate anche da ingenuità dovuta a ignoranza. In chiusura, per me inaspettatamente, la serie, che è stata già rinnovata per una seconda stagione, ci dice che questa è una delle tante vicende di donne dell’epoca, e ne intervista brevemente alcune, ormai praticamente, quando non effettivamente, centenarie.

Le vicende sono dipinte con pennellate eleganti, con momenti di quieta intensità. Da situazioni minime si traggono scene di gran respiro e molto toccanti. La portata è epica. Anche in qualche momento un po’ melodrammatico (penso alla scena nell’ultima puntata in cui il bambino di Sunja vede portar via quello che ha sempre considerato suo padre) si tengono le redini ben salde. Se proprio una critica devo rivolgere è che occasionalmente, nelle puntate centrali, c’è una sensazione da telenovela, ma questo non è dovuto né al materiale narrativo che si concentra magari sulle vicende domestiche, né ai dialoghi o alla recitazione, ma esclusivamente alla scenografia, in qualche raro passaggio di ricostruzione interna degli esterni. I passaggi temporali sono fluidi e si viene riportati in quelle case e fra quelle vie come sull’onda del racconto di una lontana parente che ci racconta la propria vita. Si percepisce il vissuto. Nonostante tutto c’è un che di rassicurante, che infonde fiducia perché è la storia di qualcuno che quelle cose le ha superate.

Sicuramente una delle migliori serie dell’anno: da non perdere. 

mercoledì 8 giugno 2022

HEARTSTOPPER: una deliziosa commedia romantica

È delicatissimo Heartstopper (Netflix), trasformato in serie televisiva dalla stessa autrice dell’omonimo webcomic poi diventato graphic novel da cui è tratto, Alice Oseman. Lei è la sola sceneggiatrice, come alla regia figura solo Euros Lynn.

Attraverso “il primo incontro” (1.01), “la cotta” (1.02), “il bacio” (1.03), il segreto” (1.04), “buoni amici” (1.05), “le ragazze” (1.06), “il bullo” (1.07) e “il fidanzato” (1.08) assistiamo allo sbocciare del primo amore fra Charlie Spring (Joe Locke) e Nick Nelson (Kit Conno), due studenti della Truham Grammar School. Il primo è un ragazzo timido che viene bullizzato dai compagni perché gay, ma può contare su un gruppo di cari amici: Tao (William Gao), da sempre quello con cui ha un legame più stretto; Isaac (Tobie Donovan); ed Elle (Yasmin Finney) che, dopo il suo coming out come ragazza transgender, frequenta ora una scuola femminile, la Higgs Grammar School for Girls. Nick, dal canto suo, è il popolare giocatore di punta della squadra di rugby della scuola, anche se non è inizialmente consapevole del proprio orientamento sessuale. Nemmeno la madre Sarah Nelson (la versatilissima, oltre che eccellente Olivia Colman) sembra accorgersi di qualcosa. Nick diventa compagno di banco di Charlie. Quest’ultimo si prende una cotta, ma gli amici cercano di riportarlo alla realtà perché non si illuda. Presto però fra i due nascono un’attrazione e una frequentazione romantica, con Nick che si interroga seriamente sulla propria identità e sulle relazioni con le persone che lo circondano.

Questa commedia romantica e di formazione, già rinnovata per una seconda stagione, è assolutamente deliziosa, zuccherina ma non stucchevole, fatta di messaggi attesi al cellulare, mignoli che si toccano e provocano scintille, primi palpiti amorosi e amicizia. La recitazione è molto convincente perché riesce a trasmettere la confusione di qualcuno che si scopre diverso da quello che credeva di essere e la paura di mostrarsi al mondo per quello che si è veramente, e l’eccitazione e l’ansia della scoperta, la timidezza e l’euforia insieme per i propri sentimenti. Si è vitali e appassionati, ma al contempo si ha un certo pudore, un riserbo che è appropriato all’età. Qui non ci sono ragazzi che si credono adulti, ma sono già stanchi e disillusi dalla vita, alla Euphoria, ma giovani che la vita l’hanno appena appena assaggiata e la scoprono con stupore. E il tema della bisessualità, raramente affrontato altrove, è particolarmente importante in una società che lo vede troppo come spesso come una tappa per poi ammettere l’omosessualità.

Heartstopper ha il gusto di una favola romantica, dove appaiono sullo schermo i disegni di uccellini, farfalline e fiorellini che svolazzano intorno ai protagonisti, i personaggi si sostengono a vicenda e si vogliono bene, l’integrità è importante, c’è empatia da parte dei familiari, ma non è finto, si è calati in una realtà credibile, dove si devono affrontare problematiche anche troppo comuni come il bullismo, il pregiudizio, le liti, la paura di perdere gli amici e accettazione di sé, e le gioie sono giocare con il cane e tracciare gli angeli aprendo e chiudendo gambe e braccia sulla neve, andare a prendersi un frappè con gli amici o farsi le coccole su un telo spugna in spiaggia.  

Tutto è molto leggero, ma è proprio la capacità di rendere significativa una realtà così ordinaria e semplice la forza dirompente di questo young adult che conquista anche gli adulti.

mercoledì 1 giugno 2022

Dopo sei stagioni, addio a THIS IS US


Mi ero preparata i pacchetti di fazzoletti per la series finale di This is Us. Del resto, delle 106 puntate andate in onda in sei stagioni, solo per una manciata credo di non aver pianto. Anzi, se una critica si può muovere a questa creazione di Dan Fogelman è proprio quella di essere strappalacrime, addirittura emozionalmente monipolatoria, e sdolcinata magari. Per la finalissima in effetti sono serviti i fazzoletti, ma il giusto. Si è tenuta fedele a sé stessa, fino in fondo.

Non ho mai dato troppo credito alle vicende dei Pearsons, fatti salvi due aspetti. In un panorama televisivo che mostra sempre più famiglie disfunzionali, è stata in grado di presentarne una dove tutti si vogliono bene e i contrasti, anche dove sono grandi, si risolvono, rimanendo presenti gli uni per gli altri. In questo c’è qualcosa di “antico” e rassicurante, ma lo ha fatto mostrando una famiglia moderna, allargata, non completamente favolistica e fuori dal mondo. Poi, ho da subito molto apprezzato il modo in cui ha saputo riscrivere la mascolinità, ritraendo modelli virili che non per questo erano machisti, ma anche vulnerabili e capaci di mettersi in discussine e comunicare. E lo ha fatto davvero con tutti i personaggi uomini. Si comincia ad andare in quella direzione in altri show – penso a Ted Lasso – ma quieto quieto questo programma familiare ha saputo fare da apristrada.

La conclusione ha messo la lente di ingrandimento su quello che in realtà è un altro aspetto che ha svolto in modo magistrale, uno ovvio, ma che proprio per questo rischia troppo facilmente di non venire notato: l’intersecarsi dei piani temporali, la continua presenza di rimandi e di corrispondenze che si fanno eco. Ho deciso di vedere le ultime due puntate – “The Train (6.17) e “Us” (6.18) - una di fila all’altra, scelta che si è rivelata appropriata, forse anche perché erano entrambe scritte dall’ideatore e dirette da Ken Olin. Lì questo gioco di passaggi apparentemente semplici ha brillato. Basta solo pensare al “viaggio in treno” di Rebecca (Mandy Moore), e vederla osservare i figli fisicamente presenti nello stesso momento nella forma di tutti gli attori che nelle diverse età li hanno interpretati, per venire illuminati sul sottile gioco di memoria che la serie ha saputo costruire. O l’abile ripresa nella finale di un quadro di cui si era parlato nella quinta puntata della prima stagione – ne avevo fatto menzione qui nell’ultimo paragrafo, e invito a rileggerlo perché quello è davvero il senso, la poetica della serie tutta: ognuno di noi aggiunge qualcosa, e siamo sempre presenti, anche chi se ne va c’è ancora. Un magnifico messaggio su quel “noi” del titolo della puntata, sulla vita, sulla serie…

E così addio a Rebecca, Jack, Randall, Kate, Kevin e a tutti gli altri. Li lascio andare senza particolari rimpianti, ma è stato bello conoscerli. Saranno parte di me.

domenica 22 maggio 2022

YELLOWJACKETS: per me sopravvalutata

Di Yellowjackets (sull'americana Showtime, in Italia su Sky Atlantic) ho apprezzato molto la sigla di apertura, davvero cool (qui), ma per il resto non credo di poter condividere l’entusiasmo che le ha riservato la gran parte della critica (ma non tutta). È la più classica premessa stile Signore delle Mosche, che a me di base attrae molto, ed è un misto di The Wilds, Lost, Equinox e il film Alive, di cui ammetto che non sarei stata consapevole se non fosse stato citato da un’altra serie TV, Station Eleven.

Una squadra femminile di calcio del liceo, in volo verso il Canada per una partita, precipita in un luogo selvaggio e deserto dell’Ontario e deve cavarsela al meglio. Ci sono però oscure presenze, e dai flash che vediamo intuiamo che sono avvenuti fatti strani, estremi, probabilmente cannibalismo. Solo quattro del gruppo sono sopravvissute e le vediamo nella loro vita adulta, venticinque anni dopo. Quegli eventi misteriosi hanno lasciato profonde cicatrici. La morte improvvisa dell’unico coetaneo maschio che era con loro e un ricatto scoperchiano ricordi del passato.

Shauna (Melanie Lynskey da adulta e Sophie Nélisse da giovane) è sposata con Jeff (Warren Kole), quello che all’epoca era il fidanzato della sua migliore amica, Jackie (Ella Purnell), del quale era rimasta incinta: ora infatti hanno una figlia. Taissa (Tawny Cypress da adulta e Jasmin Savoy Brown da giovane) è una politica di successo che ha una relazione con un’altra donna e un figlio. Natalie (Juliette Lewis da adulta e Sophie Thatcher da giovane), che era innamorata all’epoca dell’uomo la cui morte le riporta ora insieme, entra ed esce da varie cliniche per disintossicarsi da alcol e droghe. Misty (Christina Ricci da adulta e Sammi Hanratty da giovane), una paria fra i coetanei nell’adolescenza perché la trovavano stramba, non è del tutto equilibrata. Lavora ora in una casa di cura per anziani, ma si diletta a fare la detective amatoriale. Le donne, ora adulte, si rivedono a distanza di anni, e sono solidali le une con le altre, consapevoli dei segreti che si portano dietro e che non vogliono rivelare al mondo.

Ideata da Ashley Lyle and Bart Nickerson, la serie è ben realizzata e recitata, e la prospettiva passato presente è anche originale, ma tutto l’elemento giallo e sovrannaturale, esoterico, mi ha allontanata invece che intrigarmi. E certamente la brutalità delle azioni che le vediamo compiere senza troppi scrupoli da adulte trova radici in quello che hanno vissuto, ma come giustificazione non arriva troppo lontano. Poi l’alternanza dei due piani temporali diversi non è stata rilevante al fine di un’indagine psicologica che ce le mostra cambiate e in che modo, le ho viste più incastrate in quello che erano. La sola prospettiva che mi pare veicolare è forse che quando sei stato costretto a sopravvivere a condizioni estreme, quella parte di te non ti lascia mai.

Forse non sono in grado io di decodificarla in modo appropriato. Scrive su Slate Philip Maciak: “lo spettacolo coltiva un'estetica radicata nelle particolarità. Dalla colonna sonora da teen-mixtape al casting di icone della Generazione-X ai momenti infernali di ultraviolenza semi-comica, Yellowjackets è un'ode disordinata e arrapata a una visione punk suburbana molto specifica degli anni '90. Quando vedi Juliette Lewis puntare un fucile carico contro Christina Ricci e Hole e Liz Phair sono presenti in modo prominente nella colonna sonora, sai a che tipo di festa sei”. Io non credo di aver visto quanto dice, ma probabilmente non ho le coordinate culturali per farlo. Questo critico apprezza lo show perché, diversamente da altre proposte narrative bloccate in una situazione di omeostasi e circolarità che ripropongono solo varianti della stessa situazione, riuscirebbe a portare qualcosa di nuovo ed elettrizzante ogni settimana. Non ho avuto la stessa esperienza. E delle varie domande che la serie pone, solo a che fine abbia fatto Jackie si dà risposta. Non ci scorgo questa grande ibridazione di generi narrativi od originalità, né una parabola di disperazione umana come ha scritto Carolne Franke su Variety

Sopravvivere, nelle sfide fisiche e mentali che comporta, e diventare adulti sono temi significativi, ma in fondo ho preferito di gran lunga The Wilds, che è visivamente meno tagliente e audace, e narrativamente più favolistica a dispetto dell’assenza dell’elemento thriller, ma che ho trovato decisamente più godibile.    

giovedì 12 maggio 2022

La ME/CFS in TV: un mio saggio in tre parti

Oggi si celebra la giornata mondiale della Encefalomielite Mialgica/Sindrome da Fatica Cronica (ME/CFS). Colgo perciò quest’occasione per segnalare un mio saggio pubblicato in tre parti sul sito di #MEAction dedicato alla ME/CFS in televisione. È in inglese, perché in quella lingua l’ho scritto, ma spero in futuro di tradurlo in italiano.

Io soffro di questa patologia multisistemica, cronica e invalidante, come è scritto anche nella mia piccola biografia di questo sito, da quasi 32 anni. Mi sono ammalata a 20 anni. Per semplificare dico che ho trascorso i primi 12 anni di malattia a letto 24 ore su 24, in alcuni periodi anche imboccata e accompagnata in bagno. Sono stata grave per oltre 20 anni, ora sono moderata, ma non conduco minimamente una vita normale. Si tratta di qualcosa di molto personale perciò per me.

Anche se sono molto costante nella mia visione della televisione, e questo mi permette di seguire anche diverse cose, anche semplicemente poter guardare il piccolo schermo per me è fortemente impattato dalla patologia purtroppo. Non posso farlo a piacimento, ma solo in porzioni specifiche.

In ogni caso, ecco di seguito i link ai miei tre articoli:

ME/CFS on TV (Part 1) su come è stata affrontata la TV inizialmente e su come abbia saputo mettere in discussione le politiche governative e sfidare le concezioni della malattia e della medicina:  https://www.meaction.net/2022/01/26/me-cfs-on-tv-part-1/.

ME/CFS on TV (Part 2) sulle rappresentazioni finzionali della patologia: https://www.meaction.net/2022/03/03/me-cfs-on-tv-part-2/.

ME/CFS on TV (Part 3) in cui parlo dell’esperienza mia e del professor Tirelli sugli schermi italiani e lo propongo come modello virtuoso: https://www.meaction.net/2022/04/08/me-cfs-on-tv-part-3/.



 

sabato 7 maggio 2022

HACKS: comicità amara

Ideata da Lucia Aniello, Paul W. Downs, e Jen Statsky, Hacks (dell’americana HBO Max) ha vinto nel 2021 il Golden Globe Award per la Miglior Serie Televisiva - Musical o Commedia, oltre che una serie di Emmy (sceneggiatura, regia, attrice protagonista). Sono premi meritati, e si ride, ma l’ho trovata più una serie pregnante che divertente. Il confine fra tragedia e commedia è sottile.

Deborah Vance (Jean Smart, Legion, Watchmen), una leggendaria diva della stand-up comedy di Las Vegas, viene informata da Marty (Christopher McDonald), CEO del casinò Palmetto dove si esibisce, che il numero delle due esibizioni dovrà essere ridotto per fare spazio a nuovi artisti. Lei vuole rimanere attuale e Jimmy (Paul W. Downs), il suo manager, decide di affiancarle contro la sua volontà una giovane promettente scrittrice comica, Ava Daniels (Hannah Einbinder). Sebbene brillante, una battuta offensiva su Twitter le ha bruciato parecchie opportunità e, recalcitrante, accetta di lavorare per una donna che inizialmente ritiene ormai poco divertente e sorpassata. Finora Deborah si è solo avvalsa dell’aiuto di un direttore operativo, Marcus (Carl Clemons-Hopkins), e l’inaspettato incontro con la ragazza, per lei troppo piena di sé, non va nel migliore dei modi, sono ostili e non vogliono lavorare insieme, ma decidono di farlo e progressivamente imparano a conoscersi e a sopportarsi, e ad apprezzare il talento l’una dell’altra, collaborando per creare del materiale da cabaret pungente, onesto e attuale.

Uno degli aspetti più interessanti è quello del rapporto fra le due donne e come si costruisce: passano di continuo fra momenti di apprezzamento reciproco ed epifanie su che cosa le rende davvero speciali a momenti in sui si danno genuinamente i nervi e non vogliono vedersi più. La prospettiva dell’età pure è significativa sia perché sono due età diverse e quindi in fasi della propria esistenza differenti, e si vede, e sia perché sono figlie di epoche storiche che non affrontano le questioni della vita allo stesso modo. Questo è importante perché in modo trasversale passa come ciascuna generazione ha delle sfide proprie e diverse e le difformi prospettive possono arricchire tutti. In questo la serie sa, con poco, essere molto incisiva.

Nessuna delle due ha peli sulla lingua ed entrambe sanno usare il linguaggio per mandare frecciatine e colpire nel segno. Sono persone che usano le proprie capacità verbali per far ridere, ma anche per graffiare, e graffiare lo sanno fare bene, indubbiamente. Sono caustiche. Sono abituate a cogliere i momenti nevralgici delle situazioni. Parlano la stessa lingua, quella della comicità, ma allo stesso tempo è una lingua che è cambiata con il passare degli anni. Il loro rapporto, ora di rivalità ora di complicità, sostenuto da parte di entrambe e della Smart in particolare, davvero è tutto lo show, e la vis comica e la forza del programma progrediscono proprio a mano a mano che loro si conoscono e noi impariamo a conoscerle.

E se il vecchio adagio vuole che il migliore umorismo nasca dai momenti di vulnerabilità, qui ce ne sono in abbondanza. Deborah ad esempio è stata lasciata dal marito per sua sorella minore decenni prima, e la sua biografia vuole che lei gli abbia bruciato la casa per vendetta. Ma forse non è andata proprio così. Con la figlia (Kaitlin Olson), che ormai adulta si sente sempre trascurata e messa al secondo posto rispetto al lavoro, ha un rapporto conflittuale. Ha trasformato le sue disgrazie in battute, ma non sono arrivate senza duro lavoro. E il senso della comicità, lo sviscerarsi e vivisezionarsi per altrui divertimento, mettere in scena le proprie disillusioni senza vergogna e anche senza protezione, e con il distacco necessario a poterci ridere su, è ciò che rende la scrittura comica un’arte. Amara.

Una serie in qualche modo feroce, ma anche autentica e intensa. La seconda stagione debutta negli USA il 12 maggio.

venerdì 29 aprile 2022

BLACK-ISH: addio dopo 8 stagioni

È suonata molto metatestuale la finalissima di Blackish, semplice e perfetta: quello che dicevano i personaggi è sembrato davvero in parte anche quello che dicevano gli attori che li hanno interpretati.

La famiglia Johnson, dopo otto stagioni e 173 puntate, che ho visto tutte, più qualche speciale, ha salutato un po’ tutti i personaggi essenziali, compresa la vicina bianca razzista Janine (Nicole Sullivan) in apertura e chiusura di series finale, negli Stati Uniti andata in onda lo scorso 19 aprile. Nonno Earl (Laurence Fishburne) e nonna Ruby (Jenifer Lewis) si sono preparati a partire per un lungo viaggio. Papà Dre (Anthony Anderson) ha lasciato il lavoro alla Stevens & Lido e ha salutato il suo capo Stevens (Peter Mackenzie) e i colleghi storici Josh (Jeff Meacham) e Charlie (Deon Cole). E tutta la famiglia, mamma Bow (Tracee Ellis Ross) e i figli Junior (Marcus Scribner), Jack (Miles Brown), Diane (Marsai Martin) e DeVante (August and Berlin Gross) si sono trasferiti in una nuova casa in un quartiere nero. Per dare l’addio alla vecchia è tornata a casa anche la figlia maggiore Zoey (Yara Shahidi), che è qualche stagione che oramai era una presenza saltuaria. Hanno fatto un vero e proprio funerale al passato, con tanto di banda finale e “second line”, alla maniera di New Orleans, con tutto il cast che sorridente e danzante se ne va verso un nuovo futuro. E una coppia ispanica nella loro vecchia casa…

Sono stati i momenti di Dre e Bow da soli a osservare la casa vuota quelli più toccanti. Questa sit-com ideata da Kenya Barris, su cui ho scritto solo occasionalmente in questo blog, ma a cui ho dedicato anche un saggio in passato (qui), è stata talvolta didascalica, ma penso che sia stato necessario ascoltare certi predicozzi, o almeno io bianca penso che sia stato importante per me sentire certe lezioni da bocche nere. Per imparare, per vedere le cose da un punto di vista che troppo spesso passa in secondo piano. Non sempre ho condiviso, o è stata mordace come avrebbe forse potuto, ma mi ha sempre divertita e mi ha fatto sentire l’atmosfera di famiglia.

Chiudere è sempre difficile, ma black-ish lo ha fatto fedele al suo spirito fino alla fine.

mercoledì 20 aprile 2022

SEVERANCE: "unheimlich" e straordinario

Conto già Severance – Scissione (AppleTV+) fra le migliori serie dell’anno. E non ricordo l’ultima volta che sono stata così entusiasta di una season finale. Ero letteralmente on the edge of my seat, come si direbbe in inglese, seduta sul bordo della sedia, con il fiato sospeso e in tensione. È riuscita a emozionarmi, sorprendermi e ad appagarmi come di più difficilmente avrebbe potuto fare. Un must.

La premessa di questo thriller psicologico distopico ideato da Dan Erikson, con la regia di Ben Stiller per sei delle nove puntate della prima stagione e Aoife McArdle per le rimanenti, è abbastanza semplice: siamo in un futuro prossimo in cui un’azienda, la Lumon, ha ideato una procedura biomedica, chiamata “severance - scissione”, grazie alla quale la vita privata dei dipendenti è separata da quella lavorativa - gli “innie” sono le personalità dentro, gli “outie” quelle fuori. Le due parti della persona non sanno nulla l’una dell’altra. Il passaggio avviene attraverso un ascensore che attiva o disattiva una specifica parte del cervello.  

Mark Scout (Adam Scott, Parks and Recreation), o semplicemente Mark S. sul lavoro, dove i dipendenti sono conosciuti con il nome di battesimo e l’iniziale del cognome, lavora per la divisione Macrodata Refinement e ha deciso per la scissione per affrontare il lutto della moglie Gemma. È legato alla sorella Devon (Jenn Tulock) che aspetta un bambino ed è sposata con Ricken (Michael Chernus). I suoi colleghi nel suo dipartimento sono Dylan George (Zach Cherry), che si vanta di essere il più bravo e si gode i vantaggi che questo comporta, e Irving Bailiff (John Turturro), che crede molto nei valori dell’azienda. Una nuova impiegata, Helly Riggs (Britt Lower), arriva a sostituire Petey (Yul Vazquez), di cui Mark era amico, ma alla donna la nuova realtà sta stretta e cerca ogni modo per uscire da quella situazione. Senza successo. Presto, stimolati anche da altri avvenimenti, vogliono scoprire di più su sé stessi e l’azienda per cui lavorano. A controllare strettamente gli impiegati c’è Seth Milchick (Tramell Tillman) che però fa rapporto alla sua diretta superiore, la gelida Harmony Cobel (Patricia Arquette), che nella vita privata è vicina di casa di Mark che la conosce come signora Selvig, e non ha subito la scissione. Fra le persone con cui i dipendenti hanno maggior contatto c’è Casey (Dichen Lachman, Dollhouse), consulente di benessere, e Burt Goodman (Christopher Walken), che lavora per la divisione “Ottica e Design” ed è attratto da Irving.

La serie va ben oltre la critica a una società che ci vuole schizofrenici nel senso etimologico del termine, pronti a separare quello che siamo sul posto di lavoro e nella nostra vita privata, riconoscendo come essenziale l’interezza delle nostre esperienze, anche dolorose, per l’identità di ciascuno, e per la propria autostima. Diversamente è un inferno. E come tale, fatto di rituali triti e senza senso, è la vita dei dipendenti della Lumon – robotica, impersonale, asettica, labirintica - in cui devono ripetersi per autoconvincersi che “il lavoro è misterioso importante”, sostenuti da sentenze che hanno un gusto religioso e un panottico che punisce ogni minima trasgressione. È metafora della vita, ma anche riflessione sulle religioni, sulla solitudine e i rapporti umani, sul potere e la conoscenza, sui pregiudizi (e qui si pensi a 1.05 in particolare) e sul dissenso, sull’arte, sull’identità, sulla consapevolezza e su che cosa ci rende umani.

C’è un po’ di Lost, de Il Prigioniero, di Mr Robot, di Counterpart (nella sigla, nello sdoppiamento e nel rapporto con un’autorità invisibile), di Devs, di Maniac, di Scientology... Se dovessi scegliere un solo aggettivo per descriverla sceglierei, “unheimlich”, perturbante. A partire dalla notevole sigla di apertura realizzata da Oliver Latta, che ha il nome d’arte di Extraweg (qui la sua pagina web), che la descrive come “il viaggio mistico di queste diverse identità, ricordi di esperienze, dolore, perdita e controllo in un unico corpo, attraverso l'uso del surrealismo e sottile umorismo ironico” (si legga questo articolo in proposito).

Due trigger warning importanti: uno su autolesionismo – suicidio (in 1.04-1.05) e l’altro su immagini intermittenti che possono dare problemi a soggetti sensibili.

Sceneggiato e recitato alla perfezione. Straordinario. E poi, anche se non fanno ciao, ci sono le caprette – chi vedrà capirà.

domenica 10 aprile 2022

THE GILDED AGE: il vero erede di "Downton Abbey"

The Gilded Age (HBO, su Sky in Italia) è il vero erede di Downton Abbey. Julian Fellowes aveva provato con Belgravia a replicare il successo della sua più famosa creazione (se escludiamo Gosford Park che gli era valso l’Oscar per la sceneggiatura originale), ma non aveva avuto troppa fortuna. Sembra invece esserci riuscito con questo nuovo altrettanto gustoso period drama ambientato nella New York fa 1870 e 1900, quando la luce elettrica domata da Edison illumina per la prima volta gli edifici e le strade della città nello stupore generale (1.07). All’economia dà impulso la costruzione delle ferrovie, ed è proprio un treno che viaggia fra titoli e azioni bancarie l’immagine con cui esordisce la sigla, per portarci poi fa cilindri, orologi da panciotto e carrozze, spalancando le sue porte su sontuose residenze con imponenti scalinate e lampadari di cristallo, e chiudersi con cesellate rifiniture architettoniche.

Stupisce per opulenza, che è poi quello che vuole fare la famiglia Russell, quando nel 1882 di stabilisce nella (fittizia) villa progettata per loro da (il molto vero) Stanford White. Vi vanno ad abitare George (Morgan Spector), un tycoon delle ferrovie con la moglie Bertha (Carrie Coon, The Leftovers), che mira alle più alte sfere sociali, insieme ai figli Gladys (Taissa Farmiga, American Horror Story), che scalpita per debuttare in società, e Larry (Harry Richardson, Doctor Thorne), che contro i desideri del padre aspira a fare l’architetto. Il loro maggiordomo, Church (Jack Gilpin) ha ancora molto da imparare. Di fronte a loro vivono due sorelle della New York antica, Agnes van Rhijn (Christine Baranski, The Good Fight), che si considera superiore a questi arricchiti con cui non vuole mescolarsi, e Ada (Cynthia Nixon, And just like that) che, meno scaltra e più accomodante, vive sotto la sua ala protettiva. Agnes ha un figlio, Oscar (Blake Ritson), segretamente gay, che punta a un matrimonio di interesse con la figlia dei Russell, Gladys. Nonostante poi Agnes e Ada disprezzassero il fratello, perché le aveva abbandonate a sé stesse dopo la scomparsa del padre, alla sua morte ne accolgono in casa la figlia, Marian Brook (Louisa Jacobson Gummer, una delle figlie di Maryl Streep, al suo debutto televisivo in questo ruolo), che si innamora e frequenta Tom Raikes (Thomas Cocquerel), un giovane avvocato con la carriera in ascesa, contro i desideri di zia Agnes. Le due sorelle tengono sotto il proprio tetto anche Peggy Scott (Denée Benton, apprezzata attrice di teatro) una scrittrice afro-americana che aiuta Marian al suo arrivo, e con cui fa presto amicizia, che viene assunta da Agnes per evadere la propria corrispondenza. Bannister (Simon Jones) è il loro maggiordomo di lunga data.

Al centro delle vicende c’è il braccio di ferro fra due forme di potere, quello del denaro, vilipeso ma cercato, degli snobbati nouveaux riches, in cerca di approvazione e inserimento nei circoli esclusivi, e quello del passato, della vecchia New York arroccata in soffocanti e superate convenzioni che escludono chiunque tranne pochi eletti che si autoproclamano arbitri elegantiae. In questa lotta l’ideologia e i mores mutano e, con un tema che è caro a questo autore, assistiamo a chi a questo cambiamento è resistente e chi invece lo cerca. Come nella migliore tradizione di Downton, quella delle prime stagioni non ancora annacquate da storie melodrammatiche di scarsa qualità, sotto il microscopio sono gli snervanti dettagli di etichetta che si ergono a parametro di appartenenza, e quindi di inclusione o esclusione all’alta società, e appunto di potere.

Fellowes qui in generale si sarebbe ispirato alla letteratura di Edith Wharton, ed in particolare a The Custom of the Country – L’usanza del paese (1913). Un interessante pezzo di Sophie Glibert su The Atlantic, che invito a leggere, si sofferma su questo modello e aspirazione, stroncando la serie. Afferma che “afferra i temi della Wharton ma in qualche modo elude completamente la sua osservazione fondamentale: che questa cultura è così corrotta che le uniche persone che possono prosperare al suo interno sono senza cervello o irredimibili”. Non credo sia il suo obiettivo, non solo perché è più favolistico, ma proprio perché il suo ethos lo porta proprio nella direzione opposta. Tuttavia pur non condividendo molto del contenuto di quell’articolo (anche rispetto a Downton), per quanto interessante, concordo quando dice che “gli occasionali cenni di critica sociale troppo stantii” e che manca completamente una nota essenziale ovvero che “la New York di Wharton è un panottico a cui nessun abitante può sfuggire” dove “la vita dei personaggi è una performance tanto quanto tutto ciò che viene recitato davanti a loro” e loro ne hanno una consapevolezza che qui semplicemente non c’è.

Si può applaudire però la scelta di mostrare per una volta una società nera che è prospera, istruita e socialmente attiva: Marian deve vergognarsi quando va in visita ai genitori di Peggy con l’idea di portar loro dei vecchi stivali usati (1.04) e li vede che vivono in una bellissima brownstone, con personale. Il padre Arthur (John Douglas Thompson) possiede una farmacia, la madre Dorothy (Audra McDonald, The Good Fight) è una pianista. Fellowes ha dichiarato al Los Angeles Times che prima di leggere "Black Gotham", di Carla Peterson non aveva idea che ci fosse una prosperosa comunità nera di classe medio-alta a New York verso la fine del XIX secolo, ma ha voluto incorporarlo perché non sarebbe riuscito a rendere la serie “distintamente americana” se non lo avesse fatto. In quell’articolo si dice anche che Erica Armstrong Dunbar, professoressa di storia alla Rutgers University, il cui lavoro si concentra sulle donne nere americane del XVIII e XIX secolo, è stata assunta come consulente storica e co-produttrice esecutiva per aiutare a garantire l'autenticità e "fare anche una lettura di sensibilità". Il personaggio di Peggy è ispirato a diverse pioniere, non da una persona specifica

Il cast è superbo, anche con personaggi secondari come Jeanne Tripplehorn nel ruolo di Sylvia Chamberlain, una socialite esclusa dalle cerchie più in vista a causa del suo passato, o Nathan Lane nel ruolo di Ward McAllister, arbitro di stile nella vecchia New York.

Dopo una prima stagione di 9 episodi, la serie è già stata confermata per una seconda.  

venerdì 1 aprile 2022

BRIDGERTON: la seconda stagione

La seconda stagione di Bridgerton (Netflix), che mi sono goduta più della prima, è la definizione di frivolezza disimpegnata: un perfetto scacciapensieri che si basa su gusto del gossip, i più tradizionali schemi di romanzo rosa all’insegna del senso del dovere versus i desideri del cuore, una lieve vena parodistica e costumi da fare invidia. “Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze”, diceva Oscar Wilde, e qui di apparenze ce ne sono molte e il suo famoso aforisma calza a pennello allo spirito del programma, anche se lui è lievemente posteriore rispetto all’epoca Regency in cui la serie è ambientata. Ci si è lamentati per le poche scene di sesso, ma io penso che sia stata una buona scelta, e spiegherò perché. Questa creazione di Chris Van Dusen basata sui popolari libri di Julia Quinn, non è alta televisione, ma di certo non è nemmeno trash: sa quello che vuole fare e lo fa bene.

Protagonista di questa seconda stagione è il primogenito della famiglia, Anthony (Jonathan Bailey) - ricordo che i figli sono stati chiamati in ordine alfabetico. Intende prendere moglie ed è subito uno degli scapoli più desiderati della stagione. Lady Danbury (Adjoa Andoh) ha sponsorizzato la famiglia Sharma: lady Mary (Shelley Conn), che a causa della sua scelta di marito è stata ripudiata dai genitori e rientra in Inghilterra dall’India dopo anni di assenza, ha due figlie, Miss Kate Sharma (Simone Ashley), l’altra metà della coppia per cui si fa il tifo in questo arco, e Miss Edwina Sharma (Charithra Chandran). La regina sceglie ogni anno quella che ritiene essere il “diamante” della stagione, e la sua scelta ricade proprio su Edwina. L’obiettivo della regina (Golda Rosheuvel) è quello di scoprire, attraverso di lei, chi sia Lady Whistledown, la misteriosa persona che rivela i pettegolezzi di tutta la città in una periodica newsletter, e che noi dalla fine della scorsa stagione sappiamo essere Penelope (Nicola Coughlan). Anthony decide di sposare Edwina: non è interessato all’amore, vuole solo adempiere a un dovere. Per farlo deve però superare il vaglio della sorella di lei, Miss Sharma, che gli è ostile dal momento che gli ha sentito dire che non è per amore che si sposa. Vuole il meglio per la sorella e sa anche quello che nessun altro di loro sa: i nonni di Edwina, nobili, hanno offerto l'accesso alla fortuna di famiglia se lei sposerà un pari rango per ripristinare l’onore perso a causa della figlia ripudiata. Il visconte Anthony corteggia Edwina, ma è presto evidente che dietro l’apparente ostilità e i battibecchi, la vera attrazione è fra lui e Miss Sharma, che si innamorano progressivamente l’uno dell’altra.

In storie secondarie, Portia (Polly Walker), accoglie il nuovo erede dei Featherington e si trova a dover far fronte alle finanze in bolletta, Penelope cerca di non farsi scoprire e continua ad essere innamorata di Colin (Luke Newton), Eloise (Claudia Jessie) si scalda alle rivendicazioni femministe, Benedict (Luke Thompson) aspira a dedicarsi alla pittura, rivediamo Daphne (Phoebe Dynevor), ora mamma. È tutto un susseguirsi di incontri mondani, feste, giochi balli, cene…E qualche colpo di scena.

Bridgerton ha aggiunto un po’ di colore e necessaria, benvenuta inclusività ai nostri schermi: delle eroine di origine indiana, tanto più nell’ottica del colonialismo inglese, sono una scelta brillante. La serie è una delle più viste al mondo, attingere a un bacino di rappresentazione più ampio del solito è sensato, anche facendo solo dei biechi calcoli interessati. E qui vengo alla presunta carenza di scene di sesso nella storia. Non tutte le culture mostrano il sesso con la stessa facilità di quella americana come coronamento dell’amore. Qui, visto il contesto culturale dei personaggi, un maggiore riservo non è sembrato fuori luogo, e con i k-drama che spopolano e che fanno penare a lungo anche solo un bacio, perché non dovrebbe essere apprezzabile usare lo steso tipo di metro? In fondo è quello che hanno fatto le soap opera e le telenovele per anni. E anche in fondo certa letteratura: farci sospirare perché una coppia si avvicini, e farci appassionare più con la costruzione del rapporto reciproco e la tensione frustrata dell’uno verso l’altra. Il piacere sta nel desiderio e dell’attesa, in questo caso, più che nel suo appagamento. E sta bene così. Mi godo sempre buone scene di sesso, ma allo stesso tempo, penso che siano anche troppo spesso la regola e mi fa piacere che ci sia varietà anche in questo senso. Già di fronte agli onnipresenti allosessuali, se anche ci fossero personaggi che non provano attrazione sessuale non sarebbe poi la fine del mondo, anzi, ma qui non è nemmeno quello: è bello vedere personaggi provare attrazione reciproca non solo per il sesso, ma per temperamento. Probabilmente, se non mi fosse stato fatto notare dalle molte voci che si sono espresse in tal senso, nemmeno ci avrei fatto caso alla scarsità di sesso. La costruzione delle vicende era tale da non renderlo necessario. Poi, quando finalmente cedono alla passione, il climax è stato goduto da loro come dagli spettatori. E anche in chiusura. Io sotto questo profilo sono del tutto soddisfatta.     

Pensieri sparsi: quanto è meta sentire i personaggi parlare della “stagione” (loro pensano a quella sociale, noi a quella televisiva)? Ma perché continuo a sorprendermi che a Benedict piacciano le donne? Non faccio spoiler, era chiaro dove sarebbero arrivate Eloise e Penelope, ma che commozione. Mamma Bridgerton, Violet (Ruth Gemmell). meriterebbe una stagione sua, ma chissà che le sue vicende non abbiano spazio ne vociferato spin-off dedicato alla regina.  Certo, Newton (il cui vero nome è Austin), il corgi delle Sharma, lo avrei voluto un po’ più protagonista. Amo i corgi!

martedì 22 marzo 2022

RUTHERFORD FALLS: la statua di un colonizzatore e i nativi americani

Una statua, piazzata proprio nel mezzo di un incrocio cittadino, causa molti incidenti d’auto, e una porzione della popolazione vuole che venga rimossa. A opporsi strenuamente è Nathan Rutherford (Ed Helms, The Office), discendente del fondatore a cui la statua è dedicata, che storicamente ha stretto un produttivo accordo con i locali. Questa sua posizione lo mette in contrasto con la nazione dei nativi americani, i Minishonka, ed in particolare con Terry (un magnifico Michael Greyeyes), CEO del locale casinò, e crea tensione con la sua migliore amica Reagan (Jana Schmieding, un’attrice Lakota Sioux) che sogna un grande centro culturale per la sua gente. A sostenere Nathan spesso anche in contrasto con la prima sindaca nera della città, Deirdre (Dana L. Wilson), è il giovanissimo Bobbie (Jesse Leigh) uno studente di liceo che gli fa da assistente personale. Affascinato dal potenziale delle vicende, arriva in città un giornalista in cerca di uno scoop, Josh (Dustin Milligan).

Questa è la premessa della sit-com Rutherford Fall - a cui da noi si è aggiunto Amici per la vita (su Peacock - a cui in Italia dal 15 febbraio possono accedere gli abbonati Sky e Now) -, nome della cittadina dove si svolgono le vicende, ideata da Ed Helms, Mike Schur (Parks and Recreations, Brooklyn Nine-Nine, The Good Place) e Sierra Teller Omelas.

C’è molta dolcezza di fondo in questa produzione che ha un delicato umorismo e affronta questioni spinose. Nathan è un conservatore, per quanto possa definirsi tale qualcuno che ha come assistente un ragazzo non-binario che si trucca. Ama il passato e va fiero delle proprie radici, anche se è costretto con riluttanza ad ammettere che spesso non è così bello e gentile come vorrebbe. Nel rapporto fra Nathan e Reagan si vedono gli echi di quello fra Leslie e Ron in Parks and Rec. L’intervista a Terry (“Terry Thomas”, 1.04) mostra che cosa è stata la sua formazione da “indiano” dei giorni nostri e cosa anima il suo senso di rivendicazione.

Che cos’è la storia? Che cosa è giusto conservare e preservare? Questo è il fulcro dell’interesse, anche con Reagan che è in perenne ricerca di artefatti e oggetti di valore per quei nativi che si sono visti depredati di tutto. È desolate vedere inizialmente che un misero cestino è quasi tutto quello di valore che il suo centro culturale può mettere in mostra.

I Minishonka sono una tribù fittizia, non realmente esistente, ma poco importa. Se Terry, con il suo casinò, rappresenta la guerra economica, e Reagan rappresenta quella socioculturale, si vede attraverso i due personaggi come i due aspetti non siano così distanti l’uno dall’altro come si potrebbe credere.

Se l’opportunità di abbattere o meno determinate statue – con il valore simbolico celebrativo che si portano dietro - è stato un dibattito che ha interessato molti Paesi, compresa l’Italia, quella questione è stata toccata solo in parte, in modo in qualche modo tangenziale. Allo stesso tempo non ci si è limitati a quello, ma ci si è interrogati sul peso culturale dell’arte e della rappresentazione, sul loro ruolo, e il significato dell’appropriazione – un concetto che quando si parla di Arte con la A maiuscola personalmente trovo sempre molto problematico -, è stato oggetto di discussione apertis verbis.

In “History Fair” (1.05), i personaggi devono valutare quale opera premiare fra quelle presentate da un gruppo di studenti. La rappresentazione diegetica soppesa vari criteri ed esigenze. Non ne ho amato l’insoddisfacente conclusione, che ha optato consapevolmente non per la migliore, ma per la più blanda, quella che non offende nessuno. Un po’ come il film “Green Book”, si è affermato.

Traslando la questione sul piano metatestuale ci si interroga sul ruolo di questa sit-com stessa come potenziale arte: con i suoi modi garbati difficilmente offende, ma certo non lascia non interrogate prospettive consolidate. C’è un respiro in fondo poco polemico, e il “bravo uomo bianco” che sta dalla parte della visione tradizionale non è ottuso e privo di sentimenti, vuole fare la cosa giusta. E in questo forse sta il suo vero limite: si scaglia contro la Disney-ficazione della Storia, vuole quella autentica, accurata, ma allo stesso tempo è in difficoltà nell’accettare sangue e colonizzazione.

Qui un incontestabile pregio è quello di riuscire a dare voce a chi normalmente non ne ha la writer’s room ha uno dei più ampi staff di indigeni nella storia della televisione americana (ET oline) e di fare proprio quello che essere più inclusivi di voci diverse consente di fare, ovvero guardare le cose da un diverso punto di vista. Forse non ancora a sufficienza. Forse, per essere creativamente più riuscito dovrebbe avere il coraggio di essere meno inoffensivo. O forse, semplicemente, dare ancora più le redini a chi fino ad ora non ha potuto tenerle.