giovedì 26 ottobre 2023

RAGAZZE VINCENTI: baseball e ambizioni

È un’esplorazione di identità queer, una riflessione sulla femminilità, un’ode al lavoro di squadra e uno sguardo a come ambizioni personali e pressioni sociali si compenetrano, la serie di otto puntate A League of their own – Ragazze Vincenti (Amazon Prime), tratta dall’omonimo celebre film che personalmente non ho visto. A fare una comparsata nel ruolo del proprietario di un bar LGBTQ+ clandestino c’è anche Rosie O’Donnell, fra le attrici della pellicola cinematografica. Anche se non ci sarà una seconda stagione – una prevista di quattro puntate è stata cestinata a causa dello sciopero degli sceneggiatori - la prima si chiude in modo soddisfacente, facendo vincere le ragazze protagoniste dove più conta, sul piano morale.

Siamo nel 1943, durante la seconda Guerra Mondiale. Un gruppo di giovani donne viene selezionato per far parte di una squadra di baseball, le Rockford Peaches, professioniste che giocano in un’apposita lega. Per tutte loro è il sogno di una vita che si realizza. Carson Shaw (Abbi Jacobson, Broad City, co-ideatrice insieme a Will Graham), sposata ma con il marito Charlie (Patrick J. Adams) in guerra, diventa presto non solo una giocatrice, ma l’allenatrice di tutte loro, dopo che quello che era stato loro assegnato, Dove (Nick Offerman, Parks and Recreations, Devs), le snobba perché non le considera vere atlete con delle possibilità, in gran parte in quanto donne. Fra le compagne Carson trova una sorta di famiglia – Lupe (Roberta Colindrez), Jess (Kelly McCormack), Shirley (Kate Berlant), Esti (Priscilla Delgado)…Se all’inizio tutte la consideravano una campagnola, a poco a poco imparano a rispettarla e a farsene ispirare. Trova anche l’amore, intessendo una relazione con l’avvenente Greta Gill (D’Arcy Carden, The Good Place) e scoprendo così un lato di sé che non aveva mai esplorato. Quest’ultima, apparentemente molto sicura di sé, ha un passato doloroso ed è arrivata a Chicago insieme alla sua migliore amica, Jo De Luca (Melanie Field), a cui è profondamente legata.

Chi, nonostante la sua bravura come lanciatrice, non riesce a farsi accettare in squadra in quanto nera, è Maxine “Max” Chapman (Chanté Adams), che viene scoraggiata dalla madre a inseguire sogni che ritiene poco realistici, ma che trova supporto nell’amica del cuore, l’effervescente Clance Morgan (Gbemisola Ikumelo), che nel tempo libero ama disegnare fumetti. Perfino i club clandestini sono divisi dalla segregazione razziale. Insieme a quella di Carson, la storia di Max è portante nelle vicende, e si vede quanto sacrificio personale c’è nel perseguire sogni che la società impone non siano per te.

Siamo in un’epoca in cui essere gay è illegale, ti possono picchiare e arrestare per questo; il sessismo e il razzismo abbondano. Le ragazze devono sentirsi gridare frasi moleste dagli spalti che nulla hanno a che fare con lo sport, il loro abbigliamento e la vita privata vengono monitorate al punto da assegnare loro una chaperon, come se fossero delle minori, Beverly (Dale Dickey), e devono preoccuparsi di aderire ad un modello di femminilità che è stato deciso da altri per loro con il solo scopo di soddisfare un pubblico maschile.       

Pur essendo una serie ambientata in ambito sportivo, il baseball ha una rilevanza in fondo minore – io non ne capisco in proposito e qui non ti spiegano di certo, danno per scontato che tu conosca le regole del gioco, e se non non è così in fondo è irrilevante. Lanciare e colpire una pallina alla fine è una scusa per un messaggio che riguarda più l’essere se stessi e cercare di realizzare i propri sogni nella vita che altro. Ci si mantiene in equilibrio fra la necessità di lavorare sodo per ottenere quello che si vuole senza lasciarsi sconfiggere dalle circostanze, ma allo stesso tempo non si prescinde completamente da quelle circostanze. Non si è eccessivamente sentimentali anche quando si è positivi e propositivi.

Il messaggio di fondo alla fine è quello della presenza di una molteplicità di espressioni nell’essere donne, e stabilire a priori con lo “stampino” che cosa lo sia è tossico e deleterio, significa svilire le potenzialità della femminilità che può esprimersi in vari modi e non per forza da uso dei maschi. In questo è cruciale che le donne sappiano esserci le une per le altre, e questo la serie lo mostra ancora e ancora, che sia nelle Peaches che aiutano l’amica e in quel momento rivale Jo a raggiungere la base che deve per assicurarsi la vittoria, che sia nel semplice gesto di Beverly che consegna a Jess le multe che avrebbe dovuto pagare per non indossare la gonna invece dei pantaloni, che sia infine Bert (Lea Robinson), lo zio trans di Max, che le perdona un comportamento che lo ferisce. 

lunedì 16 ottobre 2023

SEX EDUCATION: la quarta e ultima stagione

Sex Education (Netflix) ha confezionato una appagante quarta e ultima stagione (distribuita dal 21 settembre 2023) – con una conclusione che lascia un buon margine per una già desiderata reunion in là nel tempo. Si è confermata una serie feel-good dalla sensibilità moderna, che ribadisce l’importanza di inclusività e accessibilità e della comunicazione e del consenso, in primis in campo sessuale ma nella vita in generale, ed è un’educazione a come la verbalizzazione possa essere un grande strumento per creare intimità.

ATTENZIONE SPOILER PER LA QUARTA STAGIONE.

Gli studenti si trovano in una nuova scuola, dopo la chiusura della Moordale. Ora vanno alla Cavendish, che sembra fin troppo laissez faire nella gestione educativa, che di primo acchito pare prevalentemente in mano agli studenti. In ogni caso è un ambiente molto aperto, tanto da avere non una, ma potenzialmente due “cliniche” di consulenza sessuale per gli studenti, con Otis (Asa Butterfield) che trova come rivale un'altra compagna di scuoa, Sarah “O” Owens (Thaddea Graham). Questa rimane per me la vera nota dolente, e problematica e grave, della serie: il fatto che lasciano che due studenti senza alcuna preparazione formale e titoli esercitino apparentemente al pari di professionisti – O addirittura condivide con la madre di Otis, che fa questo di lavoro, un programma radiofonico sull’argomento risultando quasi più brava. Che i due ragazzi siano competenti perché hanno approfondito l’argomento in via personale è sacrosanto, e nessuno dice che non possano essere anche in una ipotetica realtà effettivamente bravi, ma non è sufficiente, per nessuno. Se nelle prime stagioni si era riusciti a rendere narrativamente credibile la sospensione dell’incredulità, in questo caso non ci si prova nemmeno. Rimango perplessa.

Lo scontro Fra Otis e O è stato una storia saliente e quello che ho apprezzato è stato il fatto che abbiano rivelato O come asessuale, un po’ perché personaggi così ce ne sono pochi, e un po’ perché lo ritengo molto credibile per esperienza personale. Da demisessuale (quindi da persona che rientra nello spettro della asessualità) io stessa ho sempre avuto un forte interesse (e voglio credere competenza) nei confronti del sesso, e per le ragioni in parte anche simili a quelle addotte dal personaggio, quindi l’ho trovato davvero ben riuscito, ed è la prima volta che mi capita di vedere una cosa simile in questo ambito. Bravi.

L’intreccio più riuscito, se non altro perché ha mostrato la miglior credibile maturazione dei personaggi, è stata quella fra Adam (Connor Swindells) - l’unico fra i ragazzi a decidere di non proseguire con gli studi, ma di trovarsi un lavoro che lo porta in un maneggio - e suo padre Michael (Alistair Petrie) che ha avuto un percorso di miglioramento personale notevole che lo ha riavvicinato alla moglie da cui era separato e al figlio con il quale ha cercato di ricostruire un rapporto. Toccante e realistico. La vicenda meno convincente invece è stata la microstoria di Viv (Chinenye Ezeudu) che ha cominciato una relazione con un ragazzo Beau (Reda Elazoura) che, all’apparenza gentile, si è rivelato possessivo e controllante in modo potenzialmente violento. Capisco la necessità di trattare un social issue, un problema a sfondo sociale, che lanci il messaggio di stare attenti alle red flag e di non farsi incantare da chi è potenzialmente abusante, ma questa è stata fatta in maniera che ho percepito come affrettata.

Convincente è stato l’arco di Maeve (Emma Mackey) che continua il suo percorso di studi negli Stati Uniti d'America per diventare scrittrice per rientrare a seguito della morte della madre, indecisa se poi riprenderlo o meno. Quando ha deciso di lasciare temporaneamente la scuola di scrittura, anche delusa dalla feroce critica del suo professore, una scena di un suo scritto gettato in un cestino adocchiato da una compagna di studi già mi faceva paventare che glielo rubassero e che il professore si rivelasse il frustrato di turno che cerca di minarla per non avere una rivale, ma mi sono fortunatamente sbagliata, e la collega l’ha aiutata, ma non in un modo da apparire favolistico, e il docente era genuinamente critico per mirare a migliorarla, anche se forse ha scelto una modalità inefficace. Bello poi che per questo ruolo minore del prof. Molloy abbiano scelto Dan Levy (Schitt’s Creek), come la comica Hanna Gatsby per quello della responsabile della stazione radio dove va a lavorare Jean (Jillian Anderson). Un applauso agli addetti al casting. E se le scene del funerale della madre di Maeve hanno saputo calibrare bene dolore e momenti umoristici, il suo ritorno negli USA, con tutto quello che ha significato nel rapporto fra lei e Otis, è stato sviluppato in maniera adulta, con la lezione che chi ti ama vuole che tu possa essere la versione migliore e più realizzata di te stessa, anche se talvolta significa essere fisicamente distanti. 

La crisi religiosa di Eric (Ncuti Gatwa), con la sua amicizia con Otis un po’ in stand-by, che non sa se battezzarsi in una chiesa che non gli permette di rivelare la propria omosessualità, e che decide a fine stagione di diventare pastore; Jackson (Kedar Williams-Stirling) che trova un nodulo a un testicolo che lo porta a indagare su chi sia suo padre biologico, che ha sempre creduto essere stato un donatore di sperma; Ruby (Mimi Keene) che nella nuova scuola non riesce ad inserirsi come vorrebbe, lei che è sempre stata popolarissima, e aiuta Otis; Aimee (Aimee Lou Wood) che non ha ancora superato le difficoltà psicologiche legate alle molestie subite e che intreccia una tenera relazione con Isaac (George Robinson); Cal (Dua Saleh) che prende testosterone ma è in difficoltà con la sua transizione; Jean che trascura Otis ora che è nata la figlia Joy, si sente sopraffatta anche se non riesce ad ammetterlo, e vede navigare un difficile rapporto con la sorella Joanna (Lisa McGrillis) arrivata da lei su richiesta di Otis che l’ha vista in difficoltà… le storie che si sono intrecciate sono state molte, ma hanno saputo intrattenere e divertire e lasciarci con tanto affetto nei confronti dei personaggi.

venerdì 6 ottobre 2023

GREASE: RISE OF THE PINK LADIES: nostalgia e inclusività

È la celebrazione dell’amicizia il punto di forza della serie Grease: Rise of the Pink Ladies (Paramount+). Si tratta di un prequel del celeberrimo film degli anni ‘70, Grease appunto, che personalmente ho visto decenni fa e confesso di non ricordare per nulla. La mia visione perciò non tiene conto della pellicola cinematografica, e mi sono indubbiamente persa possibili riferimenti che so esserci (omaggi ai numeri musicali e personaggi che vengono visti da più giovani). L’elemento nostalgia perciò non è quello che ha fatto presa su di me, né posso essere una purista che si scandalizza di specifiche scelte.

Quello che è indubbio, e ci vuole poco a capirlo, è che la sensibilità inclusiva fa sì che ci sia un aggiornamento dei mores, pur rimanendo radicati nell’epoca che si ritrae.

Siamo nel 1954, quindi quattro anni prima degli eventi del film. Nel liceo californiano Rydell High, Jane Facciano (Marisa Davila), figlia di un padre di origine italiana e una madre portoricana, decide di candidarsi per il ruolo di presidente del consiglio studentesco, contro il favorito (e a tratti suo ragazzo) Buddy Aldridge (Jason Schmidt), ragazzo d’oro e rappresentante un po’ dello status quo. Jane si presenta come l’alternativa, e viene aiutata e sostenuta dalla prima gang femminile che si forma nella scuola, quella delle Pink Ladies (con tanto di giacca rosa e contraddistinguerle). Con lei ne fanno parte anche altre tre ragazze. Olivia Valdovino (Cheyenne Isabel Wells), di origine messicana, è la sorella minore di un membro della gang maschile T-Birds, Richie (Jonathan Nieves, che pure ha una cotta per Jane), e con una storia con il suo insegnante d’inglese (Chris McNally). Cynthia Zdunowski (Ari Notartomaso) prima di far parte del gruppo aspirava a unirsi ai T-Birds, ma scopre il primo amore con Lydia (Niamh Wilson), un’amica del corso di recitazione. Nancy Nakagawa (Tricia Fukuhara) ha grandi aspirazioni come fashion designer e aiuta i genitori nel locale dove passano il tempo tutti i coetanei, il Frosty Palace. Fra loro c’è anche la timida, ma brillante Hazel Robertson (Shanel Bailey), vicina di casa di Buddy, con il quale nasce una simpatia, e Susan St.Clair (Madison Thompson), l’ex ragazza di Buddy, oppressa dalla madre almeno quanto lui lo è dal padre. Per i corridoi della scuola a cercare di imporre un po’ di disciplina c’è l’assistente del preside McGee (Jackie Hoffman).

I temi affrontati sono molti, legati agli stereotipi di genere, il razzismo, le aspettative genitoriali, i mores sessuali, le aspirazioni, la mascolinità, l’amicizia, la possibilità di dire quello che hai da dire come forma di potere…mostrando con sensibilità contemporanea i vincoli imposti dall’epoca ritratta. E si adotta una prospettiva se non addirittura femminista, di certo women-friendly. In “Too pure to be pink” (1.02) le ragazze immaginano una vita senza ragazzi, non perché li odino, ma perché non vogliono essere considerate persone di serie B, o appendici, ma vogliono poter perseguire al pari dei ragazzi i loro legittimi obiettivi e coltivare le proprie ambizioni. Ad un certo punto, una studentessa viene mandata dal preside perché indossava un vestito troppo attillato (1.04, ma non un’altra ragazza con lo stesso abito ma non altrettanto procace) con la motivazione che distrae i ragazzi. Non si è perso tempo ad osservare come sia interessante che diamo tutto il potere a persone che evidentemente non sono in grado di controllare la propria natura e che non riescono a gestirlo. La serie insomma non ci va per il sottile nell’enunciare le rivendicazioni femminili, e in questo non mostra forse grande finezza, ma francamente pur sentendolo una nota troppo forte, l’ho trovato comunque benvenuto perché una campana che si è sentita troppo poco.
C’è anche un pizzico di umorismo. Quando Nancy si prende una cotta per un ragazzo dice di avere il cancro, ma non il cancro-cancro, ma l’altra parola con la “c”, una cotta appunto (1.08).

Il protagonista maschile è perfino eccessivamente aperto rispetto agli stereotipi che abbiamo nei confronti di quell’epoca da risultare poco credibile (ma persone che credevano nell’uguaglianza e nella parità di genere c’erano anche allora). La serie in primis celebra la possibilità di essere diversi, se questo significa essere sé stessi, vuole essere la voce di coloro che si sentono di non appartenere, di non essere parte della cricca “popolare”. In questo la season finale un po’ ha tradito lo spirito iniziale, a parer mio, perché le ragazze si definiscono “cool” quando sono sempre state consapevoli di non esserlo: il senso può ben essere che è cool l’essere uncool, ma se avessero posto l’accento sul fatto di non sentire la necessità di essere cool sarebbe stato più significativo.

Un po’ è Fame, un po’ Glee, un po’ High School Musical. I numeri musicali sono ben realizzati, ma non indimenticabili (Justin Tranter ha composto una trentina di canzoni originali per il programma). Ho letto numerose critiche feroci alle tranche musical, che sarebbero coreografate eccessivamente, con fantasie al contrario poco sviluppate. Condivido la critica solo in parte, non saprei se per mia ignoranza sul teatro musicale o perché comunque me li sono goduti.

La serie non è stata rinnovata per una seconda stagione. Peccato perché l’avrei seguita.

martedì 26 settembre 2023

NOLLY: ritratto di una leggenda delle soap

Funziona più o meno così: se Russell T. Davies (A Very English Scandal, It’s a Sin, Years and Years, Queer As Folk, Cucumber) scrive qualcosa, io lo guardo. Come ha scherzato, la “T” nel suo nome sta per “Television”. Non ho visto proprio tutta-tutta la sua produzione, certo è che se la penna è sua ci presto attenzione. Nolly, miniserie biografica in tre puntate dedicata alla memoria di Noale Gordon, star della soap opera britannica Crossroads, non è la migliore delle sue opere a mio gusto, ma è nostalgica e celebrativa, ed è un tributo affezionato, da vero appassionato del genere quale è sempre stato (e a cui ha pure contribuito come sceneggiatore). Nolly, come veniva appunto chiamata, è stata la prima donna della televisione mondiale ad apparire a colori (nel 1938), come ci ricordano, una personalità grintosa a affascinante, una vera star, mancata nel 1985 per cancro allo stomaco.

Con Helena Bonham Carter (The Crown) che le dà brillantemente il volto, si percorre rapidamente l’arco di una carriera che l’ha vista celebratissima e amatissima nel ruolo di Meg Mortimer, proprietaria di un motel, per soffersi poi su un momento cruciale. Era la spina dorsale del programma in cui recitava da quasi vent’anni, era pluripremiata, con grande esperienza e sicura di sé, tanto da sapersi far valere. Quando una nuova arrivata, Poppy (Beathny Antonia), sta per sedersi sulla sua sedia tutto il cast la avverte di non farlo: è solo e soltanto di Nolly, un trono praticamente. Non le mandava a dire e imponeva con autorevolezza il proprio punto di vista su quello degli altri (produttori, registi, colleghi) per cui poteva essere una spina del fianco, e lo era in particolare per il produttore Jack Barton (Con O’Neill, Our Flag Means Death, Cucumber), perché cambiava le battute, suggeriva nuove inquadrature, voleva sempre migliorare qualcosa; non era però scorretta o scortese, conosceva il nome di tutti, aiutava dentro e fuori dal set. Jane (Antonia Bernath), sua figlia nella finzione della soap, la chiama "mamma"; con Tony Adams (Augustus Prew), suo più giovane collega, scambia gossip e va a guardare le vetrine; una dello staff ricorda come il giorno delle nozze le abbia prestato la Rolls Royce e l’abbia accompagnata al suo matrimonio…

Poi, il gran colpo di scena, a lungo inspiegato: licenziata. Diventa uno scandalo nazionale, con titoloni sui giornali e fibrillazione per capire sia che cosa fosse successo dietro le quinte, sia che fine avrebbe fatto il personaggio. Morirà? Uscirà di scena in altro modo? Davies, nella seconda delle tre tranches crea una suspence incredibile, con tutti all’oscuro a fiondarsi sul copione per capire che cosa accadrà dopo: uno degli stilemi del genere che dimostra di conoscere bene e di infondere nella sua scrittura, quel tanto che è necessario. Nolly, una donna apparentemente sola, nonostante le manifestazioni di affetto di tutti quelli che incontra, vede crollare il mondo per come lo ha conosciuto. Si sente umiliata, cacciata senza nemmeno capirne il motivo. È vulnerabile, e deve reinventarsi, quando si rende conto di essere ormai probabilmente sorpassata, vecchia, fragile. Con un vecchio amico che le propone il teatro, Larry Grayson (Mark Gatiss), pure in una fase di declino della carriera, scambia parole di confronto e conforto. Realizzano di non essere più rilevanti e cercano un nuovo posto del mondo, c’è paura e rassegnazione, tristezza.

Nolly sa però difendersi quando denigrano le soap. In una scena in un autobus (1.02) rivendica ferocemente il diritto a un intrattenimento che non è da meno solo perché è considerato per donne: soap, casa e tè sono per le donne l’equivalente di football, pub e birra per gli uomini, eppure nessuno guarda questi ultimi con la supponenza che è riservata al contraltare femminile, solo perché tale. C’è una riflessione femminista nel momento in cui dice: “Quando sei una donna senza marito, senza partner, senza figli la società non sa chi sei. Non c’è posto per noi. L’armata silenziosa di donne senza nome”. Anche se lei una storia sentimentale importante l’ha avuta. E si sofferma anche (1.03) sul fatto di come succede spesso in queste situazioni, che quando una donna non ha un uomo, dicono che ha fallito, che le manca qualcosa, che è strana e ipotizzano che sia lesbica, equivalenza che ritiene offensiva per chi lo è. Reclama il proprio valore, e il proprio diritto ad essere se stessa e lo fa per tutte quelle donne che vengono considerate “difficili" solo perché assertive; ci si schiera anche contro l’ageismo di metterle da parte quando hanno “una certa età”.

Alla fine Nolly ha il suo riscatto, ma quello che rende pregevole questo ritratto è che ci sono molto calore ed empatia, e apprezzamento di una donna quando è diva ed è glamour, ma anche quando è in decadenza ed è ai margini dello showbusiness. Ci sono cuore e umanità, pure un pizzico di umorismo. Diretta da Peter Hoar, credo che sia una lettera di un fan molto speciale che la vera Nolly avrebbe apprezzato. 

sabato 16 settembre 2023

LUCKY HANK: un professore in crisi di mezza età

Nel mezzo del cammin di nostra vita, Hank si ritrovò in una selva oscura. Questo potrebbe ben essere l’incipit sulla crisi di mezza età del protagonista di Lucky Hank, serie della AMC, il cui apprezzamento è stato per me altalenante. La serie, drammatica ma venata di comicità, è sviluppata da Paul Lieberstein e Aaron Zelman da un romanzo del 1997 di Richard Russo, Straight Man, che non mi risulta tradotto in italiano. Ho letto Russo in passato (Bridge of Sighs, che mi è piaciuto molto), ma non questo libro. 

William Henry (Hank) Deveraux Jr (un sempre carismatico Bob Odenkirk, Better Call Saul) è preside del dipartimento di inglese e insegnante di scrittura creativa al Railton College, un’università in Pennsylvania a corto di finanziamenti che lui definisce senza mezzi termini la “capitale della mediocrità”. Ritiene che essere adulti significhi per l’80% essere infelici; si sente un fallito perché dopo un iniziale successo come scrittore si è bloccato, tanto più nel confronto col padre (Ton Bower), un venerato accademico che ora sta andando in pensione. Non si parlano da anni, e Hank nutre grande risentimento nei suoi confronti per aver abbandonato la madre e lui quando era bambino (e a seguito di un evento che non rivelo, ma che la serie segnala con un trigger warning). Con sua moglie Lily (Mirelle Enos, The Killing), a dispetto delle apparenze, pure la relazione non è più solida come una volta e lei, vicepreside di un liceo locale, sogna di trasferirsi a lavorare in una scuola di New York, cosa che sarebbe il desiderio di una vita che si realizza. La loro giovane figlia, Julie (Olivia Scott Welch), è sposata con Russell (Daniel Doheny), ma la coppia non ha una grande opinione di loro. Piuttosto scorbutico, Hank non ha grande sintonia nemmeno con i colleghi, che non si sentono protetti a sufficienza da lui, soprattutto quando il rettore Jacob Rose (Oscar Nuñez) annuncia il rischio di ulteriori tagli. Particolarmente vocale nell’esprimere questi sentimenti è Gracie (Suzanne Cryer, Silicon Valley), che si pavoneggia come poetessa di fronte allo scetticismo dei colleghi. Anche nei confronti del migliore amico Tony Conigula (Diedrich Bader), Hank è spesso assente.

Come per Tony Soprano nel famoso esordio de I Soprano, anche di Hank facciamo la conoscenza mentre guarda le anatre di un laghetto, ma lui non si fa prendere da un attacco di panico, piuttosto, oltre che con il voice-over di autonarrazione che ci rende espliciti i suoi pensieri, sfoga le sue insoddisfazioni con il corpo studenti che demolisce, non senza un certo umorismo. Inizialmente, anche con scrittori come guest star – George Saunders, interpretato da Brian Huskey, in una puntata che porta il suo nome (1.02) ad esempio – si parla anche di principi di buona scrittura: rifiutare l’abituale perché è lì che sta la mediocrità, credere nel proprio istinto, lavorare su varie stesure…poi questo aspetto si perde per strada. Si riflette sulla propria rilevanza o più realisticamente irrilevanza, ma si fa anche equivalere bravura a successo, qualcosa che è decisamente riduttivo, e come minimo andrebbe problematizzato. Il focus della narrazione si sposta poi molto sul tormentato rapporto del protagonista con il padre. ATTENZIONE SPOILER. Quando finalmente Hank riesce ad avere lo sperato confronto con lui da persone adulte, si rende conto che il padre ha probabilmente l’Alzheimer o qualcosa di simile. Non può giustamente rivendicare il dolore del torto subito e non riesce ad avere soddisfazione nemmeno lì.

In qualunque aspetto della vita, come marito, padre, figlio, amico, professore, Hank è demotivato, annoiato, disinteressato, sconfitto. Si trascina a fare quello che deve fare, ma ha perso verve, e questo finisce per contagiare anche lo spettatore, che alla lunga ne esce un po’ depresso. Se dal punto di vita drammatico siamo in territorio di The Chair, o meglio ancora ricorda The Education of Max Bickford, e l’ironia autoconsapevole del personaggio in prima battuta mi ha attivamente conquistata, con il passare delle puntate il mio entusiasmo si è sgonfiato, seguendo la sua spirale discendente. Avendo letto Russo, so che nei suoi romanzi lo spessore si costruisce per accumulo in sottili lamine narrative, e credo che possano essere efficaci anche nella trasposizione televisiva: di certo la recitazione supporta bene la scrittura. Più deludente è la parte umoristica, che non sia il sarcasmo del vecchio professore che si sete ormai spento. Ci si prova soprattutto con le storie secondarie, ma non convincono del tutto e la combriccola del luogo di lavoro ha un po’ il gusto delle sit-com. La conclusione (1.08), che evita i licenziamenti con un macchinoso espediente deus ex machina, pare un po’ troppo favolistica.

In definitiva una serie intelligente che soffre un po’ dei mali d’animo dei personaggi che ritrae.

mercoledì 6 settembre 2023

INVERSO - THE PERIPHERAL: all'insegna del cyberpunk

Ho sviluppato poca tolleranza, se mai ne ho avuta, per quelle serie in cui il numero dei proiettili sparati supera quello delle parole pronunciate. Per quello di primo acchito non mi ha fatto impazzire Inverso - The Peripheral (Amazon Prime), la serie liberamente tratta dall’omonimo romanzo di William Gibson, nonostante il worldbuilding fosse notevole e la narrazione si stesse facendo interessante, per quanto probabilmente eccessivamente complicata e non chiarissima. Sebbene inizialmente non rimpiangessi che non ci sarebbe stata una seconda stagione, alla fine della prima però ammetto che avrei continuato a seguirla. La serie era stata rinnovata, ma si è deciso di non procedere oltre a seguito dello sciopero SAG-AFTRA degli ultimi mesi.

A portarla sul piccolo schermo è stata la coppia Jonathan Nolan e Lisa Joy, già autori di Westworld, le cui tracce di DNA si vedono ampiamente, in primis purtroppo per l’elevato grado di violenza, ma per tanti altri aspetti, dai robot la cui “personalità” viene calibrata secondo dei caratteri di cui si possono aumentare o diminuire l’intensità, all’uso pervasivo della realtà aumentata, all’etica (spesso aberrante o comunque sprezzante e senza scrupoli o limiti) che guida molti dei personaggi, perfino dalla casa di uno di loro che sembra quella di Dolores in Westworld.

Siamo nel 2032, negli USA, sulle montagne Blue Ridge. Flynn Fisher (Chloë Grace Moretz) lavora in un negozio di stampe 3D e si prende cura della madre Ella (Melinda Page Hamilton), gravemente ammalata, insieme al fratello Burton (Jack Reynor), un ex-militare veterano di guerra su cui sono stati fatti esperimenti tecnologici per collegarlo alla sua squadra di commilitoni; è estremamente brava a giocare con i “sim”, programmi di realtà virtuale di simulazione. Una compagnia colombiana, Milagros Coldiron, li contatta per testare un nuovo programma che, all’inizio a loro insaputa, non è una semplice simulazione, ma trasporta la protagonista nel futuro, e specificatamente nella Londra del 2099, dove “abita” una copia robotica del proprio corpo, la “periferica” (peripheral) del titolo. Flynn accetta perché questo le permette di pagare le cure per la madre. Viene guidata inizialmente da Aelita West (Charlotte Riley), e protetta dal fratello di lei Wilf Netherton (Gary Carr, Trigonometry), le cose però si complicano.

 Il mondo in cui si trova ad operare è trasformato, e non in meglio, è infatti stato decimato da una serie di crisi e catastrofi chiamate ironicamente “jackpot”. A seguito di questo evento alcuni gruppi hanno preso il potere. Sono i Klepts, e fra loro uno dei più potenti è Alec Zubov (JJ Feilds), la polizia dei MET, guidata dall’ispettrice Lowbeer (una magnifica Alexandra Billings, con uno dei personaggi che più mi hanno intrigato) e l’Istituto di Ricerca (RI), guidato alla temibile Cherise Nuland (T’Nia Miller, Years & Years). Contro di solo ci sono i neoprim (neoprimitivi), un gruppo rivoluzionario (o terrorista, a seconda della prospettiva che si adotta) che cerca di opporsi alla deriva tecnologica del mondo. Flynn si trova nel mezzo delle schermaglie tra queste fazioni. Anche sul fronte di casa la situazione non è facile. A dominare è un boss locale, Corbell Pickett (Louis Herthum), e la polizia è corrotta, ad eccezione forse di un giovane idealista interessato a lei, Tommy Constantine (Alex Hernandez).

Quando un personaggio si muove nel futuro si crea uno “stub”, un troncone alternativo che diventa in tutto e per tutto una dimensione parallela: c’è chi vuole sfruttare questi tronconi per degli esperimenti, come laboratorio per la propria realtà. Qui la mente va un po’ a Counterpart.  

La narrazione, non sempre intuitiva, ricalca un’estetica cyberpunk e in misura minore da videogioco di cui i protagonisti sono intrisi e fantascienza. In accordo con il genere, la tematica di fondo è quella della compenetrazione fra realtà e virtualità, e la tecnocrazia e le scelte etiche legate a ciò che la tecnologia rende possibili sono pure centrali. Non sempre si tratta di opzioni negative. Un compagno di Burton, Conner (Eli Goree), che ha perso le due gambe e un braccio in un incidente, vede con speranza la possibilità di tornare a muoversi con una periferica, ad esempio. Assistiamo però all’evolversi di un mondo distopico, anche se non si è avuta la pregnanza o forse semplicemente il tempo di approfondire le complesse dinamiche messe in campo.

Scrive bene Daniel Fienberg poi su The Hollywood Reporter) quando dice che “è una storia di identità fungibili, in cui i confini fra periodi temporali, fra persone e macchine e fra persone e altre persone sono sfocate”. Si possono condividere sensazioni e percezioni, ricreare persone scomparse in koids, robot umanoidi, abitare corpi alternativi… e si indaga la natura della realtà, lì dove quella fattuale e quella dell’immaginazione hanno confini labili e diverse opzioni possono essere ugualmente vere. Intrigante, di intrattenimento. 

domenica 27 agosto 2023

STAR TREK: STRANGE NEW WORLDS: una appagante seconda stagione

Star Trek: Strage New Worlds (Paramount+) ha confezionato una seconda stagione decisamente appagante, confermando di essere fedele allo spirito dell’originale, sia perché ne incarna bene i valori, sia perché lo storytelling è elastico a sufficienza da permette allo spettatore di immaginarsi come un potenziale personaggio altro all’interno della diegesi, una forza essenziale per il coinvolgimento in questo genere di programmi con puntate per la gran parte autoconclusive.

L’esordio non mi ha convinto come avrei sperato e temevo il cosiddetto sophomore slump che per fortuna non si è verificato nonostante una partenza al di sotto delle aspettative. Spock (Ethan Peck) che vuole “rubare” l’Enterprise e impedire ai Klingon di trovare un’occasione per riaprire la guerra (“Il Circolo Spezzato”, 2.01) mi è parsa un po’ debole. “Ad Astra per Aspera” (2.02) si è concentrata sul processo alla prima ufficiale Una Chin-Riley (Rebecca Romijn) accusata di aver mentito per entrare nella flotta stellare non rivelando di aver subito una modifica genetica, in quanto Illyriana, pratica proibita. Nonostante gli importanti temi trattati - le persecuzioni politiche e biologiche, le leggi razziali nei confronti dei potenziati da parte della federazione, la legge non solo come specchio della società ma come ideale, la bellezza della diversità - non mi ha convinto appieno e trovo che sia stata un’occasione sprecata non usare Sam Kirk (Dan Jeannotte), che come  xeno-antropologo sarebbe stato adeguato a dare una prospettiva potente, invece al di là del titolo professionale sembra che non sappiano ancora bene come usarlo. Leggendo poi le vicende come metafora dell’esperienza trans (per cui non ci si deve sforzare molto), The Orville è riuscita a costruire in proposito degli episodi ben più efficaci e memorabili. Per chi si è lagnato che fosse una puntata troppo “woke”, beh, signori miei, Star Trek è sempre stato woke ante litteram, e fiero di esserlo, e se non si capisce questo non si capisce questo franchise.

Si è poi preso quota, dimostrando anche una profonda conoscenza del canone e rispettandolo. Penso in particolare a Spock, che in occasione del suo fidanzamento con T’Pring (Gia Sandhu) in “Sciarada” (2.05) rivede la madre Amanda (Mia Kirshner) ma non in padre con cui non era all’epoca effettivamente in buoni rapporti, e durante la stagione allaccia una relazione più che puramente amicale con l’infermiera Christine Chapel (Jess Bush) che nell’originale dimostra un interesse verso di lui. Si riesce insomma a creare delle backstory per i personaggi - lo stesso vale per Uhura (Celia Rose Gooding) in “Lost in Translation” (2.06) - rimanendo fedeli a quello che sarà, e costruendo molto di più sul lato umano. Spock poi nello specifico è usato come comic relief con risultati eccellenti. L’idea di renderlo temporaneamente umano è stata esilarante.

Ugualmente umoristica è stata la puntata cross-over con Star Trek: Lower Decks con l’improbabile, ma riuscitissima “Tutti Onorati Scienziati - Those Old Scientists” (2.07, e notare che le iniziali della puntata sono TOS, ovvero l’acronimo della serie originale - tanto di cappello ai traduttori italiani che sono riusciti a conservare le iniziali con un titolo perfetto). La USS Cerritos arriva su un pianeta dove si trova un portale. Boimler (Jack Quaid), uno dei guardiamarina mandati in esplorazione, viene catapultato attraverso di esso nel passato. Scopre che non mentiva la collega Tendi, un’ororiana, quando diceva che era una sua antenata ad aver scoperto quel portale, e veniamo a sapere come sono andati i fatti. L’episodio, visto il cross-over con una serie a cartone animato, ha sezioni disegnate - e pure la sigla viene disegnata, come poi in modo diverso cambierà anche nella puntata musical che avrà la parte musicale cantata a cappella (2.09): che leccornia visiva nel primo caso, uditiva nel secondo. La gioia della visione viene soprattutto dall’atteggiamento da fanboy di Boimler, che è super elettrizzato a conoscere i suoi miti, un po’ avatar per una volta in carne e ossa di tutti noi fan della serie storica. Noi stessi in fondo, con questo prequel stiamo facendo un viaggio temporale nel passato e vediamo i nostri beniamini prima che fossero ciò che sono poi diventati: geniale.

Si fa un trattamento umoristico a uno dei temi forti della stagione, quello dei viaggi temporali, esplorato invece in modo ben più serio e doloroso con “Domani e Domani e Domani” (2.03) in cui La’an incontra un alternativo James T. Kirk e se ne innamora. Sono completamente convinta dall’approccio di Paul Wesley al capitano per ora ancora tenente, e stanno usando il personaggio in modo occasionale ma ricorrente in modo efficace. Ammetto di essermi attivamente commossa al primo incontro fra Kirk e Spock (2.06), e nel vedere loro due con Uhura ad un tavolo insieme da giovani. Ugualmente sono molto ben impressionata dall’introduzione di Montgomery Scott, “Scotty” (Martin Quinn), nella season finale (2.10), un po’ come avevano fatto con Kirk nella stagione precedente: approvo il casting e come è stato scritto il personaggio. Nonostante un’attrice che ha vinto Oscar ed Emmy, non mi ha invece convinta Pelia (Carol Kane) la nuova ingegnere capo, una lanthanitiana, nonostante il suo personaggio sulla carta mi piaccia. È proprio l’attrice che mi ha infastidita. La brillante Ortegas (Melissa Navia) è, fra i personaggi principali, quella che per ora ha ricevuto meno attenzioni, ma avrà tempo di rifarsi.

C’è stato parecchio umorismo in tutta la stagione, ma non sono mancati momenti oscuri, anche umanamente, in fondo anche la previamente citata “Ad astra per aspera”, ma soprattutto con le esperienze di guerra di M’Benga (Babs Olusanmokun) e Chapel sul pianeta J’gal, in occasione della visita a bordo l'ambasciatore Dak'Rah (Robert Wisdom) ex generale klingon, autore di gravi atrocità, in “Sotto la cappa della guerra” (2.08), e nella conclusiva “Egemonia” (2.10) ambientata in una colonia del pianeta Parnassus Beta, attaccata dai gorn, i mostruosi esseri che vedono gli umani solo come prede di cui nutrirsi (non sarebbe male un ulteriore sviluppo metaforico animalista su questo fronte in futuro).

Imparata la lezione di “One more with feeling” di Buffy, ST: Strange New Worlds ci ha anche regalato una memorabile puntata musical, “Rapsodia subspaziale” (2.09) dove a seguito della creazione di un campo di indeterminazione quantistica, una delle illimitate realtà che si sono create fa sì che ce ne sia una (la loro) in cui i protagonisti si comportino come in un musical, ovvero si mettano a cantare e ballare quando le emozioni sono troppo forti, rivelando il proprio intimo pur non volendo. E prima del canto corale finale che unisce ecumenicamente tutto l’equipaggio, abbiamo modo di gustarci La’an che combatte contro i propri sentimenti per James Kirk, a bordo dell'Enterprise per un tirocinio in vista della sua nomina a Primo Ufficiale della Farragut; il capitano Pike che esterna le sue difficoltà nella relazione con la capitana Batel (Melanie Scrofano);  e Chapel entusiasta di aver vinto una borsa di studio presso il dottor Korby (altro riferimento a TOS) con tutto quello che comporta nella relazione fra lei e Spock. La mia grande passione di ST:TOS è sempre stata Bones, non Spock come per molti, ma diciamo che non sono insensibile al fascino di quest’ultimo in questa incarnazione e sto shippando questo duo.

Il cliffhanger di un chiaro “to be continued” ha chiuso una seconda solida stagione, realizzata con cura e recitata in modo convincente, che appaga in pieno la Trekkie che è in me.

giovedì 17 agosto 2023

FLEISHMAN IS IN TROUBLE: una miniserie su...tutto

“Avevo trascorso l’intera estate ad ascoltare la storia di Toby, vedendola solo attraverso i suoi occhi. Avevo dimenticato una verità essenziale del giornalismo, cioè che dovresti sempre domandarti, quando ascolti la versione delle cose di qualcuno, cosa l’altra persona nella storia, quella che non era lì, direbbe se lo fosse. Avevo dimenticato quella lezione, che avevo imparato da ogni storia che ho mai scritto. Era che non ci sono veri cattivi nella vita, non veramente. Non ci sono nemmeno veri eroi. Ognuno è grande e ognuno è terribile e ognuno ha dei difetti, e non ci sono eccezioni a questo.” (1.07) Queste è un po’ l’ethos di Fleishman is in trouble - Fleishman a pezzi (di FX e Hulu, su Disney+ in Italia), per bocca di Libby (Lizzy Caplan, Masters of Sex), migliore amica del protagonista e narratrice in voice-over nella serie. Tratta dall’omonimo romanzo di Taffy Brodesser-Akner, qui showrunner al suo esordio, la serie, quasi in chiusura nella spettacolosa puntata del sottofinale, chiosa così il ribaltamento di prospettiva della narrazione a cui abbiamo assistito, che ha rivelato come centrale una tematica diversa da quella che sembrava in corso di via.

POSSIBILI SPOILER A SEGUIRE.
Toby Fleishman (Jesse Eisenberg, The Social Network) è un medico epatologo che ha da poco divorziato dalla moglie Rachel (Claire Danes, Homeland), una agente teatrale molto affermata, ambiziosa e di successo, dopo 15 anni di matrimonio. Deve re-imparare a vivere senza di lei. Il suo mondo è capovolto - letteralmente (la regia offre occasionalmente inquadrature capovolte). Hanno avuto due figli insieme, Hannah (Meara Mahoney Gross) e Solly (Maxim Swinton), di 11 e 9 anni. Un giorno, apparentemente di punto in bianco, Rachel svanisce nel nulla e Toby si trova a trascurare il lavoro per gestire da solo i due figli ancora piccoli. Si confida con i migliori amici di sempre, Libby e Seth (Adam Brody, the OC).

Attraverso la prospettiva di lui si esplorano molte tematiche: il matrimonio e il divorzio e la difficoltà di trovare nuove persone con cui uscire, il lutto della perdita di una relazione, l’educazione dei figli, il privilegio, la disparità economica e la distribuzione della ricchezza, l’importanza o meno del successo economico e dell’appagamento professionale, il potere di non avere obbligazioni, la forza dei legami, le differenze fra la mezza età e la gioventù (ci si sposa troppo presto? Si cambia?), la solitudine (avere molto amore e non sapere dove metterlo - 1.05), l’importanza di ascoltare, il senso della possibilità e il senso vita…temi affrontati in modo profondo e leggero insieme, anche in modo frammentario un po’ come accade nella realtà dove le questioni si intrecciano e ritornano. Libby, una giornalista che ha lasciato la carriera per fare la mamma a tempo pieno, pure si sente persa anche se il suo matrimonio con Adam (Josh Radnor, How I met your mother) non è proprio in crisi, insoddisfatta, incerta di che cosa fare nella vita, con l’opprimente sensazione che le opzioni a sua disposizione siano drasticamente diminuite a seguito delle scelte che ha fatto, senza che se ne rendesse conto.

In un momento molto meta, che commenta libro e serie e anche anticipa quella che poi sarà a quel punto l’attesa conclusione, si osserva che parla “di tutto”: “riguarda la vita e il matrimonio e i soldi e l’insoddisfazione e l’amicizia di una vita e come tutte queste cose si fondono nella mezza età, rendendoti infelice” (1.08): “Come si può essere così disperatamente infelici quando si è così sostanzialmente felici?” (1.08) quando apparentemente si ha ciò che è necessario e ciò che si è voluto? La crisi di mezza età colpisce tutti loro amici, e naturalmente ha un valore metaforico la visita di Toby insieme ai figli al museo di storia naturale di New York, dove è affascinato, attratto e respinto, da una “esibizione” di Vantablack, il materiale più scuso mai realizzato dall’uomo. Tutto il cast, di attori sia eccellenti che benvoluti, brilla.

Il colpo di scena che cambia la prospettiva, prima di tornare sul binario iniziale, è una storia di depressione post-partum e anche violenza ostetrica. Nella puntata “Me-Time” (1.07) spicca il tour de force di Claire Danes, in particolare in un momento in cui piange durante una sessione con un gruppo di supporto e ancor di più in seguito in una citatissima scena in cui si lancia in un potente feroce grido catartico in cui si coagulano tutte le emozioni di una vita segnata dall’abbandono e votata al superlavoro come mezzo di compensazione. Memorabile.

La serie è concepita come autoconclusiva e me ne dispiace, anche in considerazione del fatto che l’autrice, nel corso delle tavole rotonde di The Hollywood Reporter di quest’anno, ha dichiarato che lei sarebbe disponibile ad andare avanti indefinitamente. Vorrei una seconda stagione che non ci sarà; in ogni caso sono già grata di questa che considero fra le migliori visioni dell’anno.

NB: Ho seguito la serie in originale e le traduzioni sono mie. La versione italiana ufficiale potrebbe essere diversa.

lunedì 7 agosto 2023

MAYFAIR WITCHES: sedativa, sbiadita, priva di magia

È stata profondamente deludente Mayfair Witches (AMC, AMC+), basata su una trilogia degli anni ’90 di Anne Rice: è risultata insulsa e stanca nonostante da un punto di vista del plot non mancassero i twist; anche il “cattivo della situazione” non sono riuscita a percepirlo così magnetico e irresistibile come hanno cercato di vendercelo. 

La dottoressa Rowan Mayfair (Alexandra Daddario, The White Lotus), una neurochirurga che lavora a San Francisco, ha l’impressione di avere dei poteri particolari. Dopo la morte della madre adottiva Elena (Erica Gimpel, Saranno Famosi) scopre che è realmente così: fa parte di una famiglia di potenti streghe. Vola perciò a New Orleans dove la sua vera madre, Deirdre (Annabeth Gish), si trova in uno stato catatonico, tenuta così da una vecchia zia, Carlotta (Beth Grant) per evitare che nel mondo si liberi il male a cui lei è legata, ovvero Lasher (Jack Huston), una entità mutaforma che solo lei può vedere nella sua forma reale ed evocare, ma che ha enorme potere. Con la scomparsa anche della madre biologica ed ereditando una collana con un ciondolo a forma di chiave — che viene spiegato con flashback di un villaggio scozzese del XVII secolo che svela il passato delle donne della sua famiglia che si attirano l’ostilità delle autorità religiose del tempo — Rowan si lega a Lasher. È lei infatti la “designata”, l’erede dei poteri della sua linea di sangue, ed è la tredicesima, cosa che la rende depositaria di una profezia che la vede come “il portale” per maggiori poteri al malevolo Lasher e l’inizio di una nuova era. La giovane dottoressa conosce anche lo zio Cortland (Harry Hamlin, L.A. LAW) e si rende conto che è gravemente malato. Diventa presto amica di Ciprien Grieve (Tongayi Chirisa), un agente del Talamasca, una organizzazione segreta che si occupa di osservare questi fenomeni, che è stato assegnato a Rowan e che ha lui stesso dei poteri: a toccare qualunque oggetto o superficie riesce a vedere eventi che sono accaduti collegati proprio a quell’oggetto. Fra i due nasce anche un’attrazione sentimental-sessuale.

Ideata e scritta da Michelle Ashford ed Esta Spalding, la serie nelle battute iniziali è sembrata il peggio  di alcune soap opera degli anni ’70 e ’80: penso in particolare a Deirdre tenuta in stato catatonico (mi è venuta in mente Febbre d’Amore, dove era stata costruita in realtà un’appassionante storia su questa premessa, ma anche a General Hospital, dove Laura è finita in quello stato in più di un’occasione, e sicuramente di esempi ce ne sono altri), o Rowan che gode per interposta persona del rapporto sessuale fra la madre e Lasher (molto Santa Barbara in uno dei suoi momenti più deprecabili nella storia Cruz-Eden-Sandra del 1989).  

Il potenziale per affrontare tematiche di peso c’era: il rapporto delle donne con il potere proprio e altrui, l’oppressione, la misoginia (e un tentativo in questa direzione con un gruppo di militanti anti-stregoneria del presente è stato fatto), l’eredità spirituale delle donne le une per le altre, l’interrogarsi sulla propria identità,  la necessità di vedere in se stessi parti che non si vogliono vedere, l’asservimento al volere altrui, il coraggio di riconoscere i propri desideri e saperli frenare o usare, il perdere il controllo…

Il casting non mi ha convinta, l’uso dei colori ha un che di stinto, la location è stata sprecata (quanto ho rimpianto Treme nel vedere la second-line, come viene chiamata, del tipico funerale di New Orleans), i dialoghi sono espositivi e nulla di più, non c’è atmosfera, la recitazione pure è deludente (salvo la Gimpel e la Grant), anche perché con il materiale a disposizione non è che potessero fare miracoli, i personaggi sono piatti e privi di personalità… Un melodramma sovrannaturale che cerca di essere un po’ horror, un po’ storia d’amore, ma risulta solo sedativo e sbiadito. Una serie priva di magia.

venerdì 28 luglio 2023

MO: un rifugiato palestinese in Texas

Già confermata per una seconda (e ultima) stagione, Mo (Netflix) ha come protagonista Mohammed "Mo" Najjar, un rifugiato palestinese che vive a Houston, in Texas ed è liberamente ispirata dalla vita di Mo Amer (Ramy), che lo interpreta (mentre da bimbo gli dà il volto Ahmad Rajeh) e che ha ideato la serie insieme a Ramy Youssef, già autore di Ramy, a cui si accosta come tipo di sensibilità per la riflessione su tematiche di immigrati che si trovano divisi fra la propria identità di partenza e il contesto nuovo in cui vivono, appartenendo a entrambi e a nessuno contemporaneamente, e che devono conciliare modi di pensare e valori che non collimano. Si affrontano anche questioni come le labirintiche peregrinazioni burocratiche e l’islamofobia.  

Mo sono vent’anni che aspetta di avere la cittadinanza americana, ma per un motivo o per l’altro non riesce mai ad averla. Quando perde il lavoro si ritrova a doversi arrabattare con attività poco pulite, come vendere merce contraffatta, e non poco pericolose. Suo malgrado, poiché vuole una vita onesta. Vive con la madre Yusra (Farah Bsieso) e il fratello Sameer (Omar Elba), che è nello spettro autistico, ed è moto protettivo nei loro confronti. La sorella Nadia (Cherien Dabis, e Mariah Albishah da piccola) vive invece per conto proprio. Mo ha una ragazza, Maria (Teresa Ruiz), cattolica (e per questo non ben vista a Yusra), di origine messicana, che lavora in una sua officina di riparazione auto, mentre il suo migliore amico è Nick (Tobe Nwigwe).

La serie è stata molto lodata dalla critica perché riesce a trattare con levità tematiche anche molto pesanti. Quando l’avvocata che li segue si dimostra poco interessata al suo caso, Mo decide di licenziarla e assume un’esperta di immigrazione, Lizzie Horowitz (Lee Eddy), che sembra finalmente poter dare una svolta alla situazione, nonostante venga guardata con sospetto dalla madre perché non è palestinese come la precedente. Emergono situazioni dolorose e difficili. Con una serie di flashback si ricostruisce la storia di fuga dal Kuwait della famiglia Najjar durante la Guerra del Golfo, le torture subite dal padre, l’infanzia e l’adattamento alla nuova realtà… È raro che in TV si racconti l’esperienza palestrinese. Qui lo si fa in modo agrodolce, umoristico, ma anche amaro. E le trappole del sistema emergono in moto autoevidente. Mo si trova davvero in situazioni molto pericolose. Il ricordo del padre Mustafa (Mohammad Hindi) fa sì che lui si interroghi anche sul tipo di uomo che vuole essere, nel presente anche in virtù del passato, per rendere onore al genitore.

Un’altra ragione di elogio è stata la rappresentazione di Sameer. A quanto pare, nonostante la grande prevalenza in tutto il mondo, nei confronti dell’autismo c’è particolare stigma in Medio Oriente, ed è molto meno diagnosticato nella cultura araba. Per il personaggio non c’è una diagnosi ufficiale, visto il tabù, nonostante sia nella trentina inoltrata, ma semplicemente si è consapevoli che è diverso da chi lo circonda ed ha alcune peculiarità. Lo stesso interprete è nello spettro, anche se a un livello diverso rispetto a Sameer, e ha fatto specifiche ricerche in modo da rappresentalo nel modo più autentico possibile: “Elba ha scritto una parte delle scene, in particolare quelle che comprendono le fasi di meltdown di Sameer, dalla perseveranza al discorso frammentato e all'ecolalia ritardata (in cui un individuo autistico memorizza una frase o addirittura un paragrafo del discorso - da un libro o da un programma televisivo, per esempio - e poi lo ripete dopo un certo periodo di tempo)” (Middle East Eye).

Mo non è un programma rivelazione, e potrebbe essere più divertente, ma è uno di quei programmi che già sono radicali per il solo fatto di esserci, riuscendo anche a non farsi intrappolare dalla rappresentazione stereotipica di musulmani e arabi come cattivi o vittime. Il protagonista ha l’aria di un orsacchiottone che tiene molto alla propria famiglia e cerca di fare del suo meglio anche quando questo non porta ai risultati sperati. I personaggi sono complessi ben recitati. E, come ha scritto Farah Cheded su The Playlist, “(i)l solo fatto che l'identità palestinese abbia un ruolo così centrale nello show è di per sé importante; inoltre, permette alla serie di riconoscere i legami intercomunitari creati dalle esperienze di Mo e della sua famiglia. In alcuni punti, la serie punta i riflettori di conseguenza: l'episodio conclusivo della stagione, "Vamos", dedica una piccola parte dell'attenzione ai pericoli e alle difficoltà che i rifugiati devono affrontare al confine tra Messico e America. Per esempio, altrove vengono fatti dei paralleli con le ingiustizie commesse nei confronti del popolo Karankawa dell'ambientazione texana del programma. Si tratta di piccoli momenti, ma che parlano dell'autoconsapevolezza dello show: sa che, ad Alief, Houston, le esperienze di Mo e l'identità che le ha informate non lo isolano dagli altri, ma lo collegano”.

martedì 18 luglio 2023

BEEF - LO SCONTRO: una dark comedy amara e catartica

Beef, divenuto “Lo scontro” in italiano, è una serie rivelazione in 10 puntate che conto io stessa già fra le migliori dell’anno: esplora il tema della rabbia, dalla scintilla di uno scontro di road rage, come viene chiamato in inglese, ovvero di una schermaglia stradale che lancia i due coinvolti in una spirale di ritorsioni e vendette che va fuori controllo, fino a un finale spettacolare, profondo, divertente e un “arrendersi” esistenziale che mostra i due contendenti più vicini l’uno all’altra di quanto non ci si sarebbe aspettati. Se al debutto ho percepito questa dark comedy come fastidiosa più che divertente, perché l’amarezza di due persone che sfogavano la propria infelicità e frustrazione cercando di distruggersi a vicenda era più dolorosa e demoralizzante che esilarante, a mano a mano che le motivazioni di entrambi si sono rilevate e la loro umanità si è mostrata come tridimensionale ha brillato sempre più, ed è stato catartico  l’eccesso in cui sono arrivati i loro comportamenti squilibrati, nel memorabile, emotivamente coinvolgente finale.  

Amy Lau (Ali Wong) è una ricca donna d’affari di origine coreana che gestisce Kōyōhaus un’attività di vendita di piante, e sta per concludere un importante affare con Jordan (Maria Bello), che ha uno store di articoli per la casa, Forsters. È sposata con un giapponese, George (Joseph Lee), uno pseudo-artista che crea vasi e che nessuno prende sul serio, nemmeno la madre Fumi (Patti Yasutake), e con lui ha una figlia. Il loro rapporto però è un po’ in crisi. Lei è sempre con i nervi a fior di pelle, lui è un tipo sempre ultra-positivo. David Cho (Steven Yeun, The Walking Dead), pure di origine coreana, è un appaltatore in bolletta che si arrangia con i lavoretti che riesce a trovare per sbarcare il lunario e sogna di costruire una bella casa per i propri genitori, costretti a tornare in Corea dopo il fallimento della loro attività come manager di motel. Ha un fratello più giovane, Paul (Young Mazino), che passa il tempo a giocare ai videogiochi e a investire in criptovalute, che lui vorrebbe coinvolgere nel proprio lavoro. Lo aiuta all’occorrenza il cugino Isaac (David Choe), da poco uscito di galera. Un po’ di tensione riesce a scaricarla frequentando la chiesa evangelica.

Amy e David si incontrano, o meglio si scontrano, nel parcheggio fuori da Forsters, quando lui per poco non va addosso all’auto di lei, che era andata lì per firmare un accordo molto lucrativo, mentre lui per ritornare degli oggetti (il cui significato lo scopriremo in seguito e non lo rivelo per evitare spoiler). L’alterco ha un’escalation e lei sfreccia via con la sua auto bianca, ma non prima che lui riesca a prendere il numero di targa. Rabbioso, si presenta a casa di Amy fingendosi qualcun altro e, da lì, si progredisce in dispetti reciproci via via più intensi e pericolosi che coinvolgono anche gli alti personaggi, perché Amy si avvicina al fratello di lui e David al marito di lei.

Lee Sung Jin ha ideato una miniserie che, a detta di chi è in grado di valutarlo, è ricchissima di specificità e inside jokes per la cultura coreano-americana, senza tropi per arruffianarsi i bianchi, come osservano sull’HuffPost (qui) dove pure riflettono sul backlash che si è sollevato quando è venuto fuori un video in cui Choe, che interpreta il cugino Issac, si vantava di aver costretto una ragazza a del sesso orale. In seguito ha ritrattato dicendo che le sue dichiarazioni erano finzione artistica. Questa glorificazione di una fantasia di stupro su una piattaforma pubblica può causare danni irreparabili. La giornalista, lei stessa vittima di stupro, ha dichiarato che ha trovato difficile separare il personaggio dal suo interprete, e chiosa: “Considerando il capitale culturale di piattaforme come Netflix e il potere dei direttori di casting di Hollywood, spero che questo contraccolpo ricordi loro che le loro decisioni creative hanno conseguenze di vasta portata al di là delle loro visioni artistiche. È importante ritenerli responsabili ed esigere che non sostengano finanziariamente coloro che considerano l'abuso sessuale una questione scherzosa”.

Al di là di questa polemica, su cui vale la pena riflettere, la serie è stata vista anche come una metafora dei social media, dove feroci faide, rabbia, ossessioni, rancori e meschinità vengono talvolta fomentate da sciocchezze e divampano per dar sfogo a insoddisfazioni che spesso non sono nemmeno ideologiche, ma dovute a malessere individuale. Al di là della differenza di stato economico da protagonisti, qui è proprio la psicologia dei personaggi a fare da motore al loro scontro. Si è caustici nel riuscire a mostrare l’amarezza di due persone infelici, che cercano di sabotarsi a vicenda rendendo la propria vita via via più miserabile, con due notevoli prove attoriali da parte degli interpreti.

Beef ha ricevuto nei giorni scorsi la nomination agli Emmy come miglior limited series, così come l’hanno ricevuta i due interpreti.

sabato 8 luglio 2023

SILO: una entusiasmante distopia

"Non sappiamo perché siamo qui. Non sappiamo chi ha costruito il silo. Non sappiamo perché tutto ciò che è fuori dal silo è così com'è. Non sappiamo quando sarà sicuro uscire. Sappiamo solo che quel giorno non è oggi". Viene ripetuto più volte, quasi un mantra, questo ricorsivo epigramma che gli abitanti del Silo della omonima serie distopica di AppleTV+ conoscono a memoria. È ideata da Graham Yost (Justified) e basata sulla La Trilogia del Silo, nove romanzi dell'autore Hugh Howey. Ha debuttato lo scorso 5 maggio 2023 ed ha appena chiusa la sua coinvolgente prima stagione con una season finale appagante, ma alo stesso tempo intrigante a sufficienza da lasciare sete per una già confermata seconda stagione. Sin dall’esordio è molto appassionante, una serie che sa quello che è e dove vuole andare e non perde tempo, asciutta, efficace, di grande atmosfera. La sigla, soprattutto musicalmente parlando, richiama Westworld, ed è uno spettacolo in sé con i suoi giochi di spirali, scale a chiocciola, e rimandi al DNA, alla spina dorsale e al generatore che sostiene la vita della comunità ritratta. 

Siamo in un futuro imprecisato e la gente vive in un bunker sotterraneo, il silo del titolo, da cui non ha la possibilità di uscire a meno che non lo chieda espressamente. In quel caso, se proprio dice ad alta voce “Voglio uscire”, non può più ritirarlo, diventa irrevocabile, la persona viene arrestata ed espulsa, cosa che equivale ad un suicidio, perché la vita fuori è invivibile. Ma lo è davvero? Viene chiesto a queste persone, debitamente preparate con un apposito abbigliamento stile “astronauta”, di pulire una volta uscite il vetro degli oblò delle vetrate da cui la comunità che abbandonano riesce a guardare fuori e che mostrano una terra invivibile, e gli eventuali cadaveri di chi è uscito. Non sono però obbligati a farlo. Se si deve eliminare qualcuno dalla comunità in ogni caso, lo si manda “a pulire”, come dicono in gergo.

Agli inizi della storia si festeggia il 140° anniversario del Giorno della Libertà, il giorno in cui fu sedata una ribellione che minacciava di aprire le porte del silo al mondo esterno, durante la quale sono stati distrutti tutti i file e i libri appartenenti al mondo passato.  Quello che è stato prima non si sa, si conosce solo attraverso “reliquie”, oggetti del mondo passato, ammessi solo se legali. I livelli del silo sono numerosissimi e tutta la vita è regolata da ferree regole sotto il controllo del Giudiziario. La serie debutta con lo sceriffo Holston (David Oyelowo) che chiede di poter uscire. Tempo prima lo aveva fatto la moglie Allison (Rashida Jones), convinta che fuori non fosse così invivibile come dicevano, a seguito della scoperta di alcuni file e, pur avendo ricevuto l’autorizzazione a rimanere incinta, sospettosa del fatto che i loro problemi di fertilità non fossero dovuti a loro. George, l’esperto di computer con cui Alison aveva fatto queste scoperte, viene trovato ucciso, e Juliette (Rebecca Ferguson, anche produttrice esecutiva), che era la sua ragazza (con cui aveva una relazione, anche se non autorizzata), è convinta che non sia un suicidio come vogliono far credere. Lei è un’ingegnera da cui dipende il buon funzionamento del motore che tiene in vita il silo e George l’aveva messa a parte di alcune scoperte.

Presto si sente in dovere di accettare una proposta che le arriva dalla sindaca Ruth (Geraldine James, Anne with and E) e diventerà lei la nuova sceriffa, incarico che accetta per poter meglio indagare. Viene affiancata nel suo ruolo da Paul Billings (Chinaza Uche), vero esperto del Patto, il documento che regola la vita nel loro microcosmo, e affetto dalla "sindrome", una condizione medica che provoca tremori che vuole tenere nascosta. Juliette finirà per scontrarsi con Robert Sims (Common) il minaccioso capo della sicurezza, e con Bernard Holland (Tim Robbins), a capo del Dipartimento IT. Trova invece degli alleati, anche se in qualche caso riluttantemente, in Patrick Kennedy (Rick Gomez), un rustico addetto alla manutenzione ed ex contrabbandiere di "reliquie", e nel timido Lukas Kyle (Avi Nash), un esperto di tecnologia che per primo le fa notare che nel cielo ci sono dei puntini luminosi, anche se nessuno dei due sa che cosa possano essere. Juliette scoprirà che le cose non sono come sembrano. E lo scopriamo anche noi. È separata dal padre, il dottor Pete Nichols (Iain Glen, Il Trono di Spade) da quando era ragazzina, e ad avere nei suoi confronti un ruolo genitoriale e farle da confidente è “Walk”, ovvero Martha Walker (Harriet Walter, Succession) esperta di ingegneria elettrica che gestisce un'officina nei livelli inferiori del Silo da cui non esce letteralmente mai.

Con grande atmosfera, e un’illuminazione di primordine che impedisce che ci sia la sensazione di claustrofobia nonostante di svolga in sotterraneo, questa distopia procede lla creazione di un mondo istantaneo. Il world building avviene senza spiegoni o complicanze e riesce ad essere dettagliato e a fornire i punti di riferimento essenziali per muoversi con agilità in quel contesto, come il fatto che i vari piani del silo, oltre 100 e privi di ascensore, si portano dietro anche differenze di classe (più socialmente importante sei percepito, più stai in altro). Le tematiche che si toccano sono legate alle divisioni sociali, al potere delle informazioni e come vengono usate o tenute nascoste per il controllo sociale, all’autoritarismo, alla nascita di teorie di cospirazione, alle menzogne del potere, al valore del vedere (il panottico che è il silo, in cui tutti vengono controllati anche senza saperlo, quello che si vede fuori, le immagini del mondo di prima), il ruolo della memoria… Come scrive Lucy Mangan sul Guardian, è uno studio sulla cancellazione e su chi può scrivere e riscrivere la storia e tratta anche dei vantaggi e degli svantaggi che si incrociano e competono di sapere la verità o di negarla, sia per l'individuo e per la collettività; un ruolo di rilievo lo hanno anche un paio di donne anziane (la sindaca e Walk), cosa rara e preziosa da vedere, che ho apprezzato.

Si tratta di un drama fantascientifico ibridato con una storia da detective, uno di quegli appuntamenti a cui non vedi l’ora di concederti non appena esce il nuovo episodio. Le prime due puntate in particolare sono uno dei debutti migliori dell’anno, con la terza c’è forse un calo perché ci si focalizza sulle indagini, ma non c’è un momento di stanca, la trama si infittisce e ti trascina fino alla fine. Per me  indubbiamente una dei programmi migliori dell’anno.