giovedì 21 febbraio 2019

FOREVER: la trappola dell'abitudine


Gli autori di Forever (Amazon video, 2018, non l’omonima serie della ABC del 2014), Alan Yang (Master of None) e Matt Hubbard (30 Rock), avrebbero chiesto ai critici televisivi di non rivelare di che cosa parla il loro programma, cosa che, se nel suo significato più profondo lo troviamo in nuce nel pilot, nel suo aspetto più prosaico di ambientazione e trama non si evince nemmeno da lì. Come per gli spoiler, specie in questo nuovo panorama televisivo, non è chiaro che tempi di scadenza abbia una simile richiesta, ma essendo questo un mio primo post sulla serie, preferisco aderire alla richiesta.  Provo solo a dare un indizio: “forever” significa “per sempre”; che cos’è che a questo mondo è per sempre? Questo forse potrebbe indirizzare nel verso giusto.

Per i primi cinque minuti di “Together Forever” (1.01), con le sole immagini senza audio, seguiamo la storia di una relazione, quella fra Oscar Hoffman (Fred Armisen, Portlandia), un dentista,  e June Hoffman (Maya Rudolph, Saturday Night Live), un’impiegata. Nell’ultima tranche vediamo atti che si ripetono sempre uguali anno dopo anno, come cambiano di significato. Per dodici anni Oscar e June hanno condotto la stessa vita che ora rende lei insoddisfatta, a partire dalla vacanza al lago a cui quest’anno decidono di rinunciare in favore di una sugli sci. Questo cambierà la loro vita in modo inaspettato. E farà loro conoscere Kase (Catherine Keener, The Kominsky Method), ex-impiegata del governo che diventa amica di June, e Mark (Noah Robbins), un adolescente vagamente ribelle.

L’interrogativo principale che sottende alla narrazione è se sia bella o interessare una cosa che è per sempre, sempre uguale. Si ragiona sul senso della ripetizione, su come ci imprigioni, su come, bloccati negli stessi meccanismi, rischiamo di vivere una vita in trappola, che ci impedisce di trovare la felicità, e di come andiamo in cerca a volte di ciò che rompe lo schema, che ci salva dalla noia del tutto uguale. Oscar e June sembrano davvero condannati per l’eternità a fare le stesse cose: lui il cruciverba, lei lavorare la terracotta (e qui avete un altro piccolo indizio su che cosa riguarda la serie, se pensate a un popolare film che ha fatto del lavoro dell’argilla una delle sue scene iconiche), insieme fare una passeggiata, salutare i vicini (con uno che immancabilmente tosa l’erba del proprio giardino, l’altra che pota la siepe)… quando arriva la nuova vicina Kase c’è un senso di eccitazione e di possibilità.

Ci si sofferma a riflettere su come la ripetizione possa essere sì rassicurante, ma anche vincolante – di questo diventa il simbolo la trota alle mandorle che Oscar prepara sempre per June -  e su come l’abitudine possa diventare una schiavitù. Si medita anche su di che cosa si va in cerca nella vita: “Oceanside” (1.07) ha a momenti il gusto di una storiella zen; e sulle occasioni mancate della vita: in particolare con il personaggi di Oscar, e di Andre e Sarah. Questi ultimi hanno una puntata che porta il loro nome (1.06) a loro dedicata, con una digressione narrativa alla maniera in cui è stato anche fatto anche da Master of None. E in fondo con questo episodio la serie, nella visione, costringe lo spettatore a fare quello che predica, ovvero a guardare non sempre e solo gli stessi personaggi, ma nuovi, mostrando che c’è anche altro che potremmo perderci se guardiamo sempre e solo quello a cui siamo abituati. È contenuto che diventa stile, è monito allo spettatore, è lezione di vita: fare cose diverse; rompere la routine, uscire dalla nostra zona di conforto.

In una serie che parla di matrimonio e felicità e intimità, la conclusione non è di fatto che si debba  rincorrere solo quello che in un dato momento è nuovo e attrae, anche perché non si può poi tornare indietro, ma solo che non ci si deve lasciare schiacciare dalla macina del sempre uguale fino ad essere morti dentro, ma riuscire a vedersi e a parlarsi con onestà, perché solo così si riesce a costruire rapporti che siano autentici e appaganti. È perdere quello che è pericoloso e ci rende infelici.

L’ambizioso progetto, la cui locandina non può non richiamare alla mente “American Gothic” di Grant Wood, riesce a essere estremamente divertente, seppure malinconico;  e  sebbene a tratti surreale, non si perde in se stesso mostrando un intenso attaccamento alla realtà. La recitazione è di prim’ordine.

giovedì 14 febbraio 2019

THE BOLD TYPE: la seconda stagione


Niente sophomore slump per The Bold Type, niente calo creativo nella seconda stagione insomma: la serie si conferma una positiva, femminista, incoraggiante serie di e per giovani donne che parla di amicizia, lavoro, amore e vita in generale. Ancora una volta si è espliciti nella diegesi nel definire, con un valore metatestuale, il proprio intento programmatico: essere di ispirazione offrendo materiali a cui le ragazze possano relazionarsi (2.01) affrontando temi rilevanti per le loro vite.

All’esordio, parlando del rapporto che lega i millennials a internet, commentano che “Non si tratta della storia, si tratta della conversazione a cui dà inizio”. Gli exempla pedagogici in cui si ritrovano le tre protagoniste sono proprio questo, conversation-starters, come si direbbe in inglese, occasioni per dare il là all’affrontare tematiche importanti.

Come va gestito il rapporto fra lavoro e amore? Come vanno calibrati? Che cos’è l’intimità e che cosa la esalta o la ostacola? Come va usata la propria sessualità? Che valore ha la reputazione di una persona? Se ne è parlato molto con Sutton (Meghann Fahy) e Richard (Sam Page), con lei che lo lascia perché teme che sul lavoro credano che avanzi non per talento e merito, ma perché va a letto con lui, con Adena (Nikohl Boosheri) la cui produzione artistica è messa in pausa dalla relazione con Kat (Aisha Dee). Che valore ha la propria identità razziale? Kat è bi-razziale e non si sente di definirsi nera, quando la spingono a farlo nello scrivere la propria bio per il sito web. Perché non vogliamo etichettarci? Perché farlo? Perché non farlo? Che senso ha reclamare una propria identità? Che importanza ha valorizzare la diversità? Sei a favorevole finché non intralcia i tuoi interessi, è l’accusa che rivolge Kat (2.05) a Jane (Katie Stevens), demoralizzata dal fatto di non aver avuto un  lavoro che voleva perché cercavano una voce che non fosse di una donna bianca. Si riflette sui privilegi (di disponibilità economica e di colore della pelle) quando Kat vuole dare una possibilità a una esordiente ideale per la sua piattaforma digitale, ma che non ha il titolo per accedere ala posizione lavorativa. Si insiste sulla responsabilità che hanno le donne nei confronti della altre donne, che sia appunto nel creare occasioni di carriera le une per la altre o nel parlare contro le aggressioni sessuali per evitare che ci siano future vittime (2.06). Si affronta il modo in cui le notizie debbano essere presentate, senza sensazionalizzazioni, evitando di distruggersi a vicenda, incoraggiando i commenti e l’ingaggio personale (2.02).

E poi ragazze che non vanno a scuola perché non hanno gli assorbenti (2.01); rapporto con Dio e la religione (2.04); uso e porto d’armi (2.07  - in una delle poche puntate che non mi hanno convinto, perché pur essendo io ideologicamente  in linea con il punto di vista che hanno fatto prevalere, non è stata ben argomentata e non si è saputo riconoscere il valore dell’uso delle armi come sport lì dove Sutton era una appassionata di tiro al piattello, equiparandolo in modo pedestre a un qualunque altro uso delle armi da fuoco);  body-positivity, ovvero l’importanza di trasmettere modelli di fisicità sani e veri; maternità da giovani…

Se sembra che la serie sia un grande predicozzo la carenza è mia, perché la narrazione incarna queste tematiche nelle tre giovani donne in modo mai forzato, con vicende spumeggianti e attraenti, briose e piene d’affetto. Sarebbe il tipo di serie che se avessi una figlia, la incoraggerei a guardare. Si è caramellosi, ma non stucchevoli, e si lavora, ma ci si sa svagare.

martedì 5 febbraio 2019

PICNIC A HANGING ROCK: una miniserie dal libro


Mi è forse piaciuta più del libro la miniserie Picnic at Hanging Rock (Showcase, Sky Atlantic), tratta dall’omonimo classico australiano  di Joan Lindsay, e la ragione principale è che ha saputo fare un buon fill in the blanks, ovvero ha saputo colmare gli spazi vuoti, avanzando ipotesi sul perché e il per come gli eventi si siano sviluppati nel modo in cui hanno fatto, senza per questo stravolgerne il contenuto. Approccio inusuale per me, ho guardato la prima puntata della serie arrivata a metà della lettura del libro, la seconda mentre finivo di leggerlo e le successive una volta terminato il testo. Se sulla pagina scritta ci sono dei voli pindarici, delle volute lacune che lasciano più interrogativi di quanti ne risolvano, il programma televisivo di Beatrix Christian e Alice Addison riesce a spiegare di più probabilmente, prendendosi il lusso di fare delle aggiunte. Il taglio è più gotico e sovrannaturale, con tinte più lesbo-sessuali di quanto non fosse nel libro.

ATTENZIONE SPOILER. Siamo a Victoria, in Australia. Il giorno di San Valentino del 1900, un gruppo di giovani donne che frequentano l’Appleyard College, una scuola per signorine di buona famiglia diretto dalla inflessibile preside dal passato misterioso Hester Appleyard (Natalie Dormer, Game of Thrones), fanno con le proprie insegnanti un picnic in una località chiamata Hanging Rock, dove c’è un monolite geologico. Quattro studentesse si allontanano per vederlo da vicino e si arrampicano lungo le rocce. Una di loro, Edith (Ruby Rees,) ritorna urlante ma non sa raccontare nulla di utile su quello che potrebbe essere successo, mentre le altre tre – Miranda (Lily Sullivan), Irma (Samara Weaving) e Marion (Madeline Madden),  più la loro insegnante di matematica, Miss McCraw (Anna McGahan), spariscono nel nulla. Quando Mademoiselle Dianne de Poitier (Lola Bessis), l’insegnante di francese che pure le accompagnava, rientra al collegio, cominciano le ricerche e le teorie su quello che può essere accaduto. Il giovane Michael Fitzhubert (Harrison Gilbertson), che le aveva viste e per un tratto seguite, con l’aiuto dell’amico Albert Crundall (James Hoare), uno stalliere che lavora presso i suoi zii, dopo molti giorni riesce a ritrovare viva Irma. Ripresasi, non ricorda o non vuole ricordare quello che è accaduto. Tutto rimane avvolto nel mistero, e la scuola comincia a perdere prestigio. Sembra che le giovani donne avessero fatto un voto a se stesse, ma che cosa sia accaduto non si saprà mai. L’insegnante di religione e ginnastica Miss Dora Lumley (Yael Stone), insieme anche al fratello, lascia l’istituto, e finirà bruciata in un incendio. Non molto dopo, la giovanissima orfana Sara Waybourne (Inez Curro) viene trovata morta in un cespuglio. La preside Appleyard, tormentata dai ricordi dell’infanzia, del defunto marito Arthur (Philip Quast) e da un passato che ha cercato di rinnegare costruendosi un’immagine nuova nel Nuovo Mondo, vede sgretolarsi la realtà educativa che ha costruito, e decide di andare lei stessa e di lanciarsi nel vuoto da quelle rocce.  

Le vicende già avevano avuto un adattamento cinematografico, con un film di Peter Weir del 1967. Se nell’opera letteraria si abbonda di descrizioni naturalistiche mozzafiato, qui la cinematografia non è forte a sufficienza da trasmettere quello stesso stupore e magnificenza, per quanto la natura rigogliosa offra scenari sontuosi. L’estetica insiste soprattutto sul senso del mistero, mostrando a volte atmosfere rarefatte e oniriche, colori molto saturi (su cui si stagliano i vestiti bianchissini delle ragazze), premonizioni, inquietanti sonni improvvisi che colgono i personaggi, e si insiste sul campo magnetico inusuale fra quelle formazioni rocciose, tanto che gli orologi non funzionano, ma sono bloccati sulle dodici. Allo stesso tempo si scava di più sulla backstory dei personaggi (il passato di Mrs Appleyard in particolare) e sui loro rapporti.

Spiriti liberi in una società che le opprime e le vuole confinate in ruoli che non appartengono loro, vincolate a valori di purezza e raffinatezza, sono fuggite, dopo aver lanciato nell’aria i propri corsetti, o hanno deciso di togliersi la vita o forse ancora sono state uccise? Se la relazione saffica fra Miss McCraw e Marion ha senso, così come il legame non solo platonico fra Miranda, Irma e Marion e la passione di sorellanza di Sara per Miranda, una nota stonata è stata per me il cenno di una attrazione omoerotica fra Michael e Albert: inutile, oltre che uscita dal nulla. Mi verrebbe da dire “ridondante”, anche se lo fa suonare come frutto di eteronomia obbligata. Spiego meglio: per ridondante intento che già si è data una lettura omosessuale alle relazioni fra le ragazze, serviva fare tutti gay e suggerirlo anche fra i ragazzi? Mi critico da sola l’osservazione dicendomi che questo forse è frutto dell’idea che le relazioni omosessuali sono l’eccezione di fronte alla regola dell’eterosessualità e che una presenza sia sufficiente ad escluderne altre, quando non c’è ragione invece di fatto per la presenza dell’uno e dell’altro. A rigore in effetti non sarebbe un problema, ma insinuarlo senza un vero appiglio al testo per poi nemmeno svilupparlo mi è parso controproducente e falso e, reitero, appunto ridondante.

La scomparsa delle giovani donne coinvolge tutta la città, ma alla fine rimane scarsa sostanza.  Il ritmo è lento e quello che rimane sono soprattutto le sensazioni. Da un punto di vista speculativo, non è pregnante l’interrogazione sul genere di istituzione educativa rappresentata, sulla costruzione dei rapporti fra docenti e studenti, sui rapporti fra donne della stessa età e di età diverse, sulla sessualità, ma si rimane solo con un’aura di indefinitezza e  di irrisolvibilità dei misteri in cui la natura fa da padrone.

lunedì 28 gennaio 2019

ROSWELL, NEW MEXICO: un remake insipido



È tiepida la reazione a Roswell, New Mexico, nuovo adattamento della serie di libri Roswell High di Melinda Metz, già divenuta una serie di culto dal titolo Roswell alla fine degli negli anni ’90 grazie a Jason Katims. In questa incarnazione sviluppata da Carina Adly Mackenzie per la CW si preme molto l’acceleratore e in modo esplicito sulla metafora dell’immigrazione, così come Streghe lo ha fatto con il femminismo. Non si va tanto per il sottile e il muro voluto da Trump per tenere lontani i centro e sud americani viene nominato prima di raggiungere il traguardo dei 10 minuti, così come le invettive del locale intrattenitore radiofonico contro gli alieni sono copiate senza difficoltà da quelle rivolte con troppa facilità dagli ispano-americani da politici e opinionisti vari nella vita vera. Sempre di alieni insomma tratta, che siano terrestri o extraterrestri.

Siamo appunto a Roswell, in New Mexico. Liz Ortecho (Jeanine Mason), una ricercatrice biomedica, figlia di immigrati illegali, torna a casa da Denver, dove lavorava a un progetto sperimentale di medicina rigenerativa, dopo 10 anni di assenza. Mentre si trova nella tavola calda a tema alieno gestito dal padre, le sparano e muore. Max (Nathan Parsons, General Hospital), innamorato di lei dai tempi del liceo e ora vice-sceriffo, la fa rivivere, finendo poi per rivelare un segreto custodito da anni: è in realtà un alieno, arrivato  sulla terra quando alla fine degli anni ’40 sono lì precipitati degli UFO, e non è il solo: come lui, ma con poteri diversi, ci sono anche Isobel (Lily Cowless, figlia di Christine Baranski di The Good Fight e lo scomparso Matthew Cowles, per chi si ricorda di Eban Japes in Quando si Ama), che a parte legare e dominare sessualmente il suo partner non è ben chiaro in partenza che cosa faccia, che è cresciuta con lui come sorella dalla coppia che li ha adottati, e il ribelle Michael (Michael Vlamis), cresciuto da famiglie in affido, attratto da Alex (Tyler Blackburn, Pretty Little Liars), un veterano di guerra. Max si confida con Liz che giura di mantenere il segreto. Quello che non vuole sappia però (e che cosa sia non lo sappiamo nemmeno noi) è che cosa è realmente capitato alla sorella gemella di lei, Rosa, morta anni prima. A Kyle Valenti (Michael Trevino), ex-ragazzo di Liz dei tempi del liceo ora chirurgo, pure viene rivelata la presenza di alieni fra noi, ma dal sergente maggiore Jesse Manes (Trevor St John), che intende dar loro la caccia. Liz tornata in città ritrova anche una delle sue migliori amiche, Maria (Heather Hemmens).

Dal pilot si direbbe che tutti i pezzi sono al posto giusto, ma in qualche modo manca magia, questo perché è assente una buona chimica fra i protagonisti principali. In una scena del pilot potenzialmente molto bella e romantica  Max “si fonde” con Liz per farle vedere come ricorda il loro primo incontro, e subito dopo c’è un bacio mancato perché lui non vuole forzarla in un momento in cui sa che emotivamente i sentimenti di lei  sono solo un eco dei propri; lei gli dice che allora lo bacerà dopo una settimana, quando cioè il sentimento sarà autenticamente suo, non il riflesso della “fusione” che ha appena vissuto. Sulla carta, e nella recitazione, è inoppugnabile, la premessa di una grande storia d’amore, ma la sensazione nel vederlo è che sia posticcio, poco autentico, fiacco e insipido. Lo stesso si può dire dei protagonisti nella loro versione professionale: poco credibili.

Julie Plec, qui regista del pilot e produttrice esecutiva, esperienza di storie alla The Vampire Diaries ne ha molta, quindi ci si può aspettare che si segua almeno in parte quel modello, con una narrazione solida e colpi di sena già ben programmati. I protagonisti sono un po’ cresciuti e addio angosce adolescenziali, benvenuta allegoria politica: integrazione, assimilazione, appartenenza e che cosa significano e  comportano. Non sarà entusiasmante o sottile, ma accettabile e rilevante sì.

domenica 20 gennaio 2019

PURE: comunità mennonita e spaccio di droga


È stata un crescendo la costruzione di Pure, serie della canadese CBC, rinnovata per una seconda stagione da WGN America. Dopo un pilot lento e poco denso si sarebbe stati tentati di gettare la spugna, ma al termine delle sei puntate si vogliono rivedere i personaggi scritti da Michael Amo con la regia di Ken Girotti.

Siamo in una comunità mennonita canadese. Il nuovo pastore locale, Noah Funk  (un Ryan Robbins che ben trasmette la mite intensità e la lacerazione del protagonista) viene coinvolto suo malgrado in un giro di criminalità legata allo spaccio di droga con un boss di stanza in Messico, Eli Voss (Peter Outerbridge). Cercano di aiutarlo la moglie Anna (Alex Paxton-Beesley) e il fratello Abel (Gord Rand).  Per proteggere la propria famiglia e i fedeli che vedono in lui una guida, decide di collaborare con la polizia  per raccogliere prove e assicurare alla giustizia i criminali tornando a una vita di lavoro, servizio e preghiera. Bronco Novak (AJ Buckley), che da ragazzo era interessato a sua moglie, lo arruola come informatore per la DEA, i cui contatti vengono gestiti dall’agente texana Phoebe O’Reilly (Rosie Perez). La figlia di Noah, Tina (Jessica Clement), che è interessata sentimentalmente al figlio di Bronco, con cui va a scuola, Ben (Aaron Hale), scopre molto della situazione, diversamente dal fratello Isaac (Dylan Everett) che, pronto per il battesimo, ambisce a una vita negli ideali in cui lo hanno cresciuto.

Ispirata da un reale ring di operazioni di contrabbando di marijuana e cocaina  fra gruppi mennoniti del Messico e del Canada, la serie ha ricevuto critiche dalla comunità di appartenenza perché li metteva in cattiva luce sulla base di disdicevoli eventi di cronaca, vedendo in questo alla fine un’occasione di apprendimento – “Chiaramente, non siamo immuni dallo stereotipare altri gruppi. Spero che Pure ci aiuti a riflettere su quello che stiamo provando. Spero che ci renda più consapevoli di quello che noi stessi presumiamo degli altri”, scrive Dan Dyck, direttore delle relazioni e comunicazioni della Chiesa Mennonita del Canada (qui).

Un altro motivo di scontento è stato che la serie si permette troppe licenze poetiche nella rappresentazione della vita (i mezzi di trasporto, gli abiti, il rapporto con la tecnologia…) e del credo religioso. Uno storico dei Memmoniti, Sam Stainer – le sue recensioni di ciascuna puntata si possono trovare sul suo sito a partire dalla prima – critica ad esempio il fatto che si confondono gruppi religiosi diversi, mischiando i Mennoniti del Vecchio Ordine con gli Amish del Vecchio Ordine e Mennoniti Low German. C’è stata però ricerca alla base: gli attori parlano anche il Low German usato nella realtà, con sottotitoli in inglese. E gli autori si sono difesi dall’accusa dicendo che è stata una scelta volontaria, di tipo etico, per non implicare nessuna autentica comunità nelle vicende della finzione e infatti la “colonia” da loro rappresentata, quella degli Edenthaler, non esiste.

Quale sia la scelta morale più giusta, in queste circostanze, è difficile a dirsi, ma certo questo è un buon terreno di riflessione in proposito. Io personalmente tenderei a trovare più adeguata una rappresentazione veritiera di uno specifico gruppo, anche lì dove lo dipingesse in modo negativo, pur capendone i rischi connessi. È più probabile che dia credito a quello che vedo nei termini della loro dottrina, che non che corra il rischio di estendere il marciume di un gruppo a tutti gli altri. Anche perché se ho deciso di  dare una possibilità alla serie non è certo per vedere l’ennesima storia di spaccio di droga – già di suo argomento di scarso interesse per me, figurarsi con tutte quelle che già ci sono – ma per scoprire, antropologicamente potremmo dire, una cultura marginale che mi intriga.

La curata cinematografia ben esalta le bellezze scenografiche della Nova Scotia, dove sono state fatte le riprese, sebbene l’ambientazione sia di fatto nell’Ontario rurale. Le vicende prendono il via con l’esecuzione di una famiglia Messicano-Mennonita in fuga. Il bimbo Ezechiel riesce a fuggire e viene accolto dalla colonia locale guidata da Funk, ma la famiglia Epp, che lavora con Voss, vuole riprendersi il bambino. Le vicende sono lente, impantanate, e sono più le relazioni personali, e in particolare l’attrazione nascente fra Tina e Ben, a  costituire ragione di interesse. Nel corso della storia però si cresce, in spessore emotivo anche, con due puntate conclusive davvero appassionanti. A questo punto, la psicologia di primari e comprimari è ben delineata, e ci sono stati dei passaggi davvero mirabili come il confronto fra Anna e Joey Epp (Dylan Taylor): (Attenzione spoiler) lei lo seduce facendogli credere di volerlo come il padre dei suoi figli, se fosse mancato il marito, e lui ammazza il fratello Gerry per impedirgli di uccidere la famiglia Funk, ma lei si ritrae con conseguente disperazione di lui. Ben costruito ed eseguito. O come l’incontro-scontro fra Voss e Noah in cui fede, famiglia e morale vengono discussi apertamente e due filosofie opposte incarnate e vissute. I rapporti fra i coinvolti scorrono profondi ed emergono un poco alla volta.

La narrazione alla fine è coinvolgente e, con uno stile sommesso, potente. Bisogna arrivare alla fine però, perché sula base della prima metà della stagione non ci si sarebbe scommesso. La scrittura si prende i suoi tempi, ma allo stesso tempo ha un'essenzialità che non lascia spazio a divagazioni. Pare ci siano anche riferimenti alle scritture e alla “mitologia religiosa” del gruppo – come nel caso di Noah messo al rogo – che io, da me, non sono in grado di cogliere.
       
E parte della forza del programma sta proprio nel mostrare come sia difficile rimanere virtuosi anche lì dove è il proprio obiettivo principale, finché il contesto che ti circonda ti costringe da altre parti. Noah Funk letteralmente supplica Voss di permettergli di tornare alla vita onesta che desidera condurre. Bello il titolo perché in Pure ben si agglomera la purezza della droga alla purezza come valore di una comunità che vi aspira.

venerdì 11 gennaio 2019

THE KOMINSKY METHOD: la vecchiaia secondo Lorre


The Kominsky Method (su Netflix) è la prova, se mai ce ne fosse bisogno, che il suo autore, Chuck Lorre (qui il mio post a proposito del profilo del New Yorker su di lui nel 2011), non è diventato famoso a caso, nonostante la critica snobbi regolarmente programmi formalmente molto tradizionali come Two and a Half Men e The Big Bang Theory a cui il suo nome è associato.

Qui, Lorre sa essere esilarante, profondo e attuale affrontando un momento della vita ancora troppo tabù in televisione: la vecchiaia.

Sandy Kominsky (Michael Douglas, ultrasettantenne) è un attore ormai anziano, con problemi di prostata, che ha avuto solo un fuggevole successo calcando le scene, ma che ha un suo apprezzato studio di recitazione. Tre volte divorziato e con una figlia adulta, Mindy (Sarah Baker), che lo aiuta nel lavoro, sviluppa un interesse sentimentale per una sua allieva, Lisa (Nancy Travis), una donna ormai matura. Il suo migliore amico è il suo agente, Norman Newlander (Alan Arkin, ultraottantenne), che rimane presto vedovo della moglie di una vita, Eileen (Susan Sullivan), e ha un rapporto difficile con la figlia Phoebe (Lisa Edelstein, House, The Good Doctor), che ha problemi di lunga data di dipendenza da sostanze. I due uomini si sostengono vicendevolmente, incontrandosi spesso anche solo per un drink da Musso & Frank, dove vengono serviti regolarmente da un cameriere che sta a mala pena in piedi lui stesso.

Molta della serie - che dicono faccia trasparire una subcultura di Los Angeles, elemento che io non sarei in grado di valutare da sola - poggia sull’amicizia fra i due uomini: è  una sorta di aggiornata e meno brontolona “Strana Coppia” di Neil Simon, come ha notato più di qualcuno, con la conoscenza delle reciproche idiosincrasie e anche la capacità di manipolarsi perché ci si frequenta da sempre: imperdibile il loro ping-pong sul un enorme prestito in danaro di Norman che è un favore senza condizioni, di pura generosità, dove entrambi leggono bene quel “senza condizioni” come la condizione più onerosa di tutte, insopportabile. Scene impagabili davvero. Una colonna portante è anche quella sugli acciacchi dell’età, con un misto di irrisione e di cum-patio: scatologia mista ad empatia. Si ride di e con i personaggi, ma ci si lascia prendere anche dalla melanconia della perdita: della propria prestanza fisica, delle proprie occasioni, del tempo che si ha davanti, delle persone amate… lutti che sono anche lo spettro di altri a venire.

La constatazione finale è che si ha paura, che è normale avene perché il mondo la fuori fa paura, ma si supera perché non siamo soli, ma presenti nell’amicizia l’uno per l’altro. “Io ti vedo. Tu mi vedi?” chiede Sandy a Nathan a pochi minuti dalla fine dell’ultima puntata. Esserci. Questo, rivela in segreto, è il metodo Kominksy. Sandy è anche una versione più gentile e moderata (e per qualche critico meno riuscita) di Cousineau, l‘equivalente personaggio portato sulla scena da Henry Winkler in Barry. Come acting coach, il protagonista vede l’attore come creatore, la recitazione come un’estensione della vita, ma alla fine come persona che rivela se stessa nella propria intimità e vulnerabilità. Si riconoscono le debolezze e si affrontano.

Tante sono le guest star che interpretano se stesse (come Elliott Gould, Patti LaBelle o Jay Leno) o un personaggio, come Danny DeVito, nel ruolo di un urologo che sottopone Sandy ad un esame rettale: c’è chi ha visto con sfavore una simile scena, come esempio di una comicità crassa. Io al contrario ci vedo proprio quell’autoironia necessaria per non vivere con svilimento certe realtà dell’invecchiamento, bello perché vero e vagamente imbarazzante, esempio concreto del metodo del titolo.

Potrebbe chiudersi qui, con una sola stagione, questa serie, ma io mi auguro continui.

lunedì 7 gennaio 2019

GOLDEN GLOBE AWARDS 2019: i vincitori

Credits: Paul Drinkwater/NBC Universal via Getty Images


Sono stati consegnati ieri sera i Golden Globe, premi della stampa straniera presente ad Hollywood. I vincitori per la categorie televisive li leggete sotto. Per la lista di tutti, comprese le categorie cinematografiche, potete vedere qui.

Miglior serie TV – drama: The Americans
Miglior performance di un attore in un drama: Richard Madden (Bodyguard)
Miglior performance di un’attrice in un drama: Sandra Oh (Killing Eve)

Miglior serie TV – comedy o musical: The Kominsky Method
Miglior performance di un attore in una comedy o musical: Michael Douglas (The Kominsky Method)
Miglior performance di un’attrice in una comedy o musical: Rachel Brosnahan (The Marvelous Mrs. Maisel)

Miglior Limited Series o film TV: The Assassination of Gianni Versace: American Crime Story
Miglior performance di un attore in una limited series o film TV: Darren Criss (The Assassination of Gianni Versace: American Crime Story)
Miglior performance di un’attrice in una limited series o film TV: Patricia Arquette (Escape at Dannemora)
Miglior performance di un attore non protagonista in una limited series o film TV: Ben Whishaw ( A Very English Scandal)
Miglior performance di un’attrice non protagonista in una limited series o film TV: Patricia Clarkson (Sharp Objects)


domenica 30 dicembre 2018

IL MEGLIO DEL 2018: la lista delle liste


Liste liste liste… a fine anno tutti compilano la propria. Tutte sono incomplete, specie ora che stare dietro a tutti i programmi è diventato impossibile, e tutte sono parziali. Eppure le ho sempre trovate utili, un faro per orientarsi nel mare magnum delle proposte. Se un titolo comincia a comparire molte volte vuole dire che probabilmente vale davvero la pena, e se un critico che stimo e con cui sono in sintonia segnala una chicca poco nota, magari un’occhiata la do.

Come ha acutamente osservato Tim Goodman dell’Hollywood Reporter in un pezzo che medita sul compito in via di cambiamento del critico televisivo nel mutevole paesaggio visuale contemporaneo, sempre più ricco di opzioni, il ruolo di questa figura è sempre più quello di diventare dei “curatori”, segnalando quello che merita di essere preso in considerazione, e le liste in questo senso hanno un peso sempre più rilevante.

Di solito ne leggo e ne segnalo diverse. Quest’anno invece segnalo solo una lista delle liste, compilata da Metacritic, che raccoglie quelle dei maggiori punti di riferimento del settore (già 104  liste individuali al momento del mio scrivere) e che sulla base di un sistema di attribuzione di punti a seconda della posizione in graduatoria rivela i preferiti assoluti.

La lista viene modificata fino a tutto gennaio, per cui vi invito a seguire il link e verificare voi stessi le posizioni, ma per ora, per il 2018 i migliori sono stati valutati i seguenti:

  1. Atlanta
  2. Killing Eve
  3. The Americans
  4. The Good Place
  5. Barry
  6. Pose
  7. Better Call Saul
  8. Sharp Objects
  9. Succession
  10. The Good Fight
  11.  GLOW
  12.  Homecoming
  13.  BoJack Horseman
  14.  The Haunting of Hill House
  15.  The Marvelous Mrs Maisel
  16. The Assasination of Gianni Versace
  17. Lodge 49
  18. Queer Eye
  19. Big Mouth
  20. One day at a time

sabato 22 dicembre 2018

I MIGLIORI NUOVI PROGRAMMI del 2018, secondo me


Come sempre, scegliere i programmi migliori dell’anno è un’impresa e mi limito solamente, come mia tradizione, a segnalare quelli che ritengo essere i debutti più interessanti. Quest’anno ne segnalo davvero parecchi, e senza un ordine particolare. Naturalmente mi limito alla fiction, alla narrativa cioè (a scanso di equivoci visto che in Italia c’è la tendenza a interpretare il termine come riferito alle produzioni nostrane). C’è una piccola incursione di un programma di tipo diverso, ma per il resto rimango fedele alle serie. Come i migliori romanzi sono “menzogne” che raccontano la verità meglio di quanto non farebbe un programma che formalmente vuole raccontare il vero, e sono forme di “design esperienziale”, “luoghi in invenzione di forme di esperienza”, per  usare le parole di Maria Pia Pozzato (in Mondi Seriali - Percorsi semiotici nella fiction, da lei co-curato insieme a Giorgio Grignaffini - Link Ricerca - RTI, 2008) . Riescono davvero a essere arte.

I migliori nuovi programmi del 2018 per me sono:

Counterpart: tecnicamente ha debuttato nel 2017, ma gran parte della prima stagione è comunque andata in onda nel 2018, quindi la facciamo entrare. Ne ho parlato qui.

Succession: il racconto delle vicende della famiglia Roy, magnati dei media, nei suoi risvolti personali e di lotte intestine per il potere, è cresciuto progressivamente fra feroce dramma e humor tagliente.

L’amica geniale: trasmette alla perfezione le atmosfere del libro di Elena Ferrante. Se lo avete amato, non rimarrete delusi dalla trasposizione su schermo.

The End of the F***ing World: una gemma di cui ho parlato qui. Nonostante il finale è prevista una seconda stagione. Anche questa serie tecnicamente ha debuttato in Inghilterra nel 2017, ma per l’Italia su Netflix è stata resa disponibile solo del 2018, quindi la inserisco volentieri comunque.

Patrick Melrose: qui.

Sharp Objects: qui.

Pose: ne ho scritto qui. Sono stata indecisa se inserirlo nella lista o no, perché ha una narrazione molto di “conforto”, molto anni ’80  - periodo in cui di per sé è ambientata, quindi è come se in un certo senso dicesse che una certa epoca va anche ricordata con l’estetica che le apparteneva - e di buoni sentimenti. Stilisticamente e contenutisticamente è superata, si direbbe. Eppure, mostra il valore di un simile modo di raccontare, parla di un argomento attualissimo e rilevante ovvero dell’essere transessuali e di identità personale. E l’ho apprezzata anche perché conosco nella vita reale persone che afferiscono in senso ampio a quel mondo e ci ritrovo le realtà umane ed emozionali che mi sono state raccontate e in questa prospettiva lo trovo molto vero. Qui davvero si ha quel “design esperienziale” di cui sopra.

Homecoming: del thriller psicologico di Amazon Prime con Julia Roberts e la regia di Sam Esamil (Mr Robot) spero di parlare prossimamente.

Sorry for your loss: qui.

Kidding: qui.


The Haunting of Hill House: una dramma familiare mascherato da “storia di fantasmi”. Quelli autentici sono quelli personali. 

E sebbene non sia una serie, assolutamente imperdibile è pure Nanette, lo spettacolo di stand-up della comica lesbica originaria della Tasmania Hannah Gadsby (su Netflix) che, arrabbiata con gli uomini eterosessuali bianchi (e con motivo, come sentirete, non prendetevela se appartenete alla categoria), parla dell’essere gay, di identità, di bullismo, di omofobia, dell’essere donne, del significato di fare comicità e di raccontare storie, di arte (non vedrò più Van Gogh e Picasso senza pensarla)… Ci sono esilaranti battute e dolorosa rabbia, si ride di gusto e ci si commuove. Un must-see.


Poi, sono stata indecisa, non le inserirei probabilmente fra le migliori dell’anno, ma sicuramente meritano per me una menzione onorevole le seguenti serie, sulle quali spero di avere occasione di scrivere qualcosa in un futuro prossimo, se non l'ho già fatto. So che forse pure mi pentirò di non averle inserite nella lista principale. Sono:

The Kominsky Method
Wanderlust
Vida: qui.
The Assasination of Gianni Versacequi

Purtroppo non sono ancora riuscita a vedere titoli molto apprezzati e inseriti nelle liste dei migliori di molti come Barry (il pilot mi è piaciuto molto), Forever (anche qui il pilot mi è piaciuto molto)Killing EveEscape at Dannemora, Lodge 49, A very English Scandal, Schitt’s Creek… prossimamente magari… e vi saprò dire che ne penso.

Voi? Quali nuovi programmi del 2018 avete preferito?


sabato 15 dicembre 2018

MANIAC: un trial fallito


In Maniac un gruppo di scienziati ha messo a punto e sperimentano su cavie umane volontarie tre pillole (A, B e C) che hanno l’obiettivo di risolvere i problemi mentali che li affliggono: la prima espone il problema, la seconda propone scenari alternativi per affrontarlo, la terza permette di trovare una soluzione e superare il problema. Ingerendole, attraverso l’analisi di un megacomputer “umanizzato”, il GRTA, in cui il progettista ha infuso la personalità della madre psicoterapeuta, e attraverso situazioni di realtà virtuale che i protagonisti vivono nella propria mente,  si “guarisce”.

Alla sperimentazione della Naberdine Pharmaceutical Biotech (NPB) partecipano Annie Landsberg (Emma Stone), che ha una diagnosi di disturbo di personalità borderline e ha perso la sorella in un grave incidente d’auto e non riesce a superare il lutto, e Owen Milgrim (Jonah Hill), a cui è stata diagnosticata una schizofrenia, poco apprezzato dalla ricca famiglia e in particolare dal padre Porter (Gabriel Byrne), che ritiene di avere nella vita una grande missione di salvare il mondo. A seguire i loro progressi sono gli scienziati Azumi Fujita (Sonoya Mizuno), che sente una forte pressione dai superiori a fare un buon lavoro, e James Mantleray (Justin Theroux, The Leftovers), che ha sempre avuto un complesso di inferiorità nei confronti della famosa madre Greta (Sally Field) e che finisce per innamorarsi della macchina che ha costruito.

Remake di un’omonima serie norvegese di Espen PA Lervaag, questa proposta targata Netflix era molto attesa perché a co-scriverla insieme a Patrick Somerville è stato Cary Fukunaga, qui pure regista di tutte le puntate così come per la prima celebrata stagione di True Detective. La reazione generale è stata uno scarso apprezzamento del contenuto, stringi stringi abbastanza vacuo e nemmeno troppo originale, ma un godimento a livello estetico dell’aspetto visivo. Personalmente non ho apprezzato nessuno dei due elementi e l’ho considerato solo una grande perdita di tempo. 
 
Certo, c’è irrisione dei generi parodistici e bizzarria negli scenari virtuali immaginati, c’è empatia nei confronti del dolore psichico provato, c’è motteggio delle soluzioni semplici della pillola risovi-tutto e valorizzazione dei rapporti umani. Il tono si tiene in un buon equilibrio fra canzonatura e dolore e solitudine, in un intento comunque chiaramente comico: questo si vede. Gli attori svolgono un lavoro eccellente e Justin Theroux in particolare, dopo il ruolo iperdrammatico di The Leftovers, dimostra una notevole verve comica. Sia sul piano della forma che nel contenuto però non c’è niente che Legion non abbia già detto e meglio – incluse le scelte scenografiche e più genericamente di look di una ambientazione futuristico-vintage. Certo, quest’ultimo si prende forse troppo sul serio in proporzione, e fa voli pindarici psichedelici in cui è molto più facile perdersi, ma è allo stesso tempo molto più appagante.   

Se il trial clinico della finzione, a dispetto di tutto, ha portato a qualche risultato, non lo stesso mi sento di dire del trial televisivo.

lunedì 10 dicembre 2018

I programmi dell'anno secondo l'AMERICAN FILM INSTITUTE



Ogni anno l’American Film Institute sceglie 10 programmi che ritiene siano stati significativi da un punto di vista artistico o culturale.

Per il 2018, i premiati dall’AFI Awards sono stati:

THE AMERICANS
THE ASSASSINATION OF GIANNI VERSACE: AMERICAN CRIME STORY
ATLANTA
BARRY
BETTER CALL SAUL
THE KOMINSKY METHOD
THE MARVELOUS MRS. MAISEL
POSE
SUCCESSION
THIS IS US

Per i premiati nel cinema, e per il premio speciale, si veda a questo link.

giovedì 6 dicembre 2018

KIDDING: dolente e dolce



Kidding (dell’americana Showtime), che in italiano (su Sky Atlantic) ha preso il sottotitolo de “Il fantastico mondo di Mr Pickles”, mostra un Jim Carrey, che interpreta il protagonista principale, in quello che è il suo aspetto drammatico migliore: vulnerabile, amabile, addolorato, ingenuo.  

Jeff Piccirillo (Jim Carrey) è il presentatore di un programma televisivo per bambini in cui interagisce con pupazzi animati, il “Mr Pickles’ Puppet Time”, di grande successo: è adorato dal pubblico ed è un impero multimilionario. Lui, come il suo alter-ego televisivo, Mr Pickles – pickle significa “cetriolino sottaceto” in inglese – è un grande propugnatore di buoni sentimenti, fare la cosa giusta, comportarsi bene, con generosità e gentilezza. Jeff è nella vita reale quello che vende nella finzione dello schermo. Ora però è in crisi: aveva due figli, Will e Phil (Cole Allen), gemelli, e uno dei due è morto in un incidente d’auto un anno prima e lui è ancora in lutto, inoltre è ancora innamorato della sua ex-moglie, Jil (Judy Greer), un’infermiera che si sta rifacendo una vita con un altro uomo. Sebastian Piccirillo (Frank Langella), suo padre, ma anche produttore esecutivo dello show, è preoccupato tanto per lui personalmente, quanto per la sorte del programma se Jeff continua a comportarsi in modo strano, per quella che è un’impresa di famiglia, visto che la sorella di Jeff, Deidre (Catherine Keener), pure ci lavora, realizzando i vari pupazzi. Lei stessa sul fronte di casa non ha una vita facile: la figlia Maddy (Juliet Morris) vede il padre in una situazione sessuale compromettente con un’altra persona e comincia ad averne conseguenze nel comportamento.  

Il cuore di questa serie ideata da Dave Holstein consiste nella distruzione di un uomo buono: cerca di essere sempre al suo meglio, ma la vita gli riserva cocenti batoste. Nonostante le ammaccature, prova a rispondere ugualmente agli eventi con gentilezza – paga perfino le spese dell’uomo che ha ucciso suo figlio -, ma la verità è che dentro di lui si formano pensieri e sentimenti negativi e distruttivi, causati dall’infelicità e dalla rabbia. Non siamo in una storia di supereroi in cui assistiamo alla genesi di un supervillain, ma di fronte a un uomo comune, reale. E un uomo a cui il mondo guarda come a un faro per come bisogna comportarsi per essere brave persone e per essere felici, cose che si crede debbano coincidere, compito che sente come una responsabilità.

Un concetto ricorrente nelle puntate, espresso attraverso il programma per bambini -  in cui Jeff vorrebbe poter parlare di morte, ma dove glielo impediscono per timore di alienare il pubblico dei più piccini -, è che “ogni dolore ha bisogno di un nome”. È importante saper descrivere i propri sentimenti per saperli elaborare e gestire. È legittimo avere un lato oscuro e ammettere di averlo, è umano. Fingere di non avere sentimenti negativi è una finzione distruttiva, e verso l’autodistruzione va infatti, tristemente, il protagonista. Nella season finale ha un tracollo da cui sarà difficile farlo uscire.

Che cosa ci renda umani è un’altra idea reiterata. Jeff viene anche deriso o ignorato o attaccato per il suo essere educato. In più modi gli viene detto che non viene visto realmente come un uomo e lui insiste sul fatto che lo è, solo che è un tipo diverso di uomo. Anche se non è solo in un’unica modalità che viene affrontato questo argomento, un modo importante in cui viene fatto è attraverso il sesso. Di fronte a chi lo vede come un essere asessuato o comunque asessuale, lui ribadisce che invece è un uomo con dei desideri carnali, e non è questo a renderlo meno una brava persona. La serie, che riprende questo tema anche con il figlio del Mr Pickle giapponese (a coloro che lavorano al programma nel Sol Levante viene richiesto il voto di castità), mostra scene di sesso piuttosto esplicite e niente affatto puritane. Essere maschi veri non significa essere cafoni: un bel concetto da far passare.

Ci si sofferma tanto sul dolore: anche attraverso la figura di una donna malata di cancro con cui Jeff intesse una relazione, o con quella di un fan nel braccio della morte (1.08) che richiede la sua presenza al momento della sua esecuzione (in una toccante, commovente puntata contro la pena di morte come raramente se ne vedono).

Alla fine dei conti il programma, dolente e dolce, crede del kintsugi, un concetto che nella diegesi (1.07) entra in modo esplicito dando una evidente chiave di lettura  alla serie intera. Alle 10 puntate della prima stagione ne farà seguito una confermata seconda.